fbevnts Brief notes on the extraordinary repression of furta

Brevi note sulla repressione straordinaria dei furta

07.07.2024

Mariangela Ravizza*

 

Brevi note sulla repressione straordinaria dei furta**

 

English title:Brief notes on the extraordinary repression of furta

DOI:10.26350/18277942_000183

 

Sommario: 1. Cenni sulla repressione penale del furto in età repubblicana e imperiale - 2. Fattispecie 'aggravate' di furto emerse durante il principato – 3. L’abigeato.

 

  1. Cenni sulla repressione penale del furto in età repubblicana e imperiale

 

Il delitto di furto, così frequente a Roma da rappresentare quasi un fatto quotidiano, produceva, sin dai tempi più risalenti, gravi tensioni nell’ambito della comunità. Alcuni studiosi mettono in luce come a compiere tale crimine fossero di solito gli appartenenti alle fasce più povere della popolazione, spinti da difficoltà nell’approvvigionamento o da un eccessivo aumento dei prezzi o da periodi di carestia[1], ma ancor più frequentemente a perpetrare il delitto erano piccoli delinquenti di strada, vagabondi, senzatetto, schiavi, soggetti che vivevano in genere ai margini della comunità[2]. I furti e le violenze commessi sia nelle campagne che nelle città erano una fonte costante di pericolo e preoccupazione e l’elevato numero di schiavi presente a Roma, che di notte si aggirava per le strade senza controllo da parte dei padroni, rendeva certamente più grave e complessa la situazione. I luoghi in cui di solito il furto veniva a consumarsi erano quelli pubblici, comunemente frequentati dai cittadini, ma anche la dimora privata, la domus, posto preferito per custodire denaro e oggetti di valore, veniva spesso presa di mira dai ladri.

Com’è noto, durante l’età repubblicana il derubato trovava soddisfazione attraverso l’actio furti, con cui il ladro era tenuto a corrispondere il quadruplo o il doppio del valore del bene sottratto a seconda che il furto fosse manifestum o nec manifestum. L’azione privata non escludeva un intervento delle autorità statali: dagli inizi del III sec. a.C. fu istituito uno speciale collegio addetto alla sorveglianza della pubblica sicurezza, quello dei tresviri capitales. Magistrati minori in quanto sforniti di imperium, essi si aggiravano di notte per le strade di Roma catturando, incarcerando e facendo frustare ladri, rapinatori e schiavi fuggitivi[3]. Agivano in virtù del loro limitato potere di coërcitio comminando solo misure di carattere amministrativo (carcere e fustigazione) tese a ristabilire l’ordine e la quiete cittadina.

 Sebbene già alla fine della repubblica alcune leggi attinenti al processo delle quaestiones avessero interferitocon la repressione privata di alcuni illeciti[4], fu solo dal primo principato che alcuni delicta furono attratti nella sfera pubblica. In presenza di sottrazioni e incursioni ladresche sempre più frequenti non solo nelle ore notturne ma anche diurne, si rafforzò, a partire dall’età augustea, la tendenza a dar vita ad un’efficace repressione statale. Si ritenne opportuno affidare la persecuzione criminale di taluni furti più gravi a due funzionari imperiali: il praefectus urbi, che aveva poteri di polizia sulla capitale e sovrintendeva in genere all’ordine pubblico, e il praefectus vigilum che era preposto al servizio di spegnimento degli incendi e di polizia stradale notturna[5]. Originariamente provvisti di meri poteri di coercizione, questi funzionari vennero acquisendo sempre più anche poteri di natura giurisdizionale e nel III secolo ebbero per intero nelle loro mani l’esercizio della funzione repressiva dell’Urbe. Nelle province, la competenza in materia continuò a spettare ai governatori[6], i cui poteri furono peraltro rafforzati.

Stando alla testimonianza delle fonti, solo i furti che per le loro peculiari modalità o per il valore dei beni sottratti recavano particolare turbamento all’ordine sociale erano perseguiti nelle forme consuete della cognitio pro tribunali, cioè mediante pubblica udienza tenuta dal funzionario con l’assistenza del suo consilium[7]; in mancanza di tali presupposti la persecuzione era attuata de plano, informalmente, senza le solennità richieste per il processo “ufficiale”[8].

Il procedimento, come ogni altro procedimento extra ordinem, era attivato ex officio: i rappresentanti del principe assumevano essi stessi l’iniziativa della persecuzione in seguito a proprie indagini o su rapporto degli ufficiali di polizia alle loro dipendenze. L’ eventuale iniziativa del derubato non configurava un’accusatio in senso tecnico, ma una mera informazione a seguito della quale il funzionario valutava in piena autonomia l’esistenza dei presupposti necessari per poter mettere in moto il procedimento extra ordinem stabilendo, in tal caso, le modalità della persecuzione a seconda della pericolosità del reato. In ogni caso, a prescindere dalla decisione assunta dal prefetto o dal governatore, si riteneva che, qualora l’accusatore con una dichiarazione espressa o con un semplice comportamento concludente avesse scelto la via della persecuzione pubblica, egli rinunciasse automaticamente all’esercizio dell’actio furti[9].

All’inizio, la decisione del funzionario imperiale veniva assunta a seguito di un apprezzamento del tutto discrezionale[10]. Sebbene divenissero sempre più frequenti i provvedimenti imperiali che indirizzavano il giusdicente in ordine ai criteri con cui valutare la gravità del fatto e i tipi di pena da applicare[11], egli si muoveva con una certa libertà nella comminazione della pena. Non erano state ancora individuate determinate categorie di ladri e ai fures, di conseguenza, non erano state ancora attribuite precise denominazioni. Nel III secolo, sotto i Severi, furono però riconosciute dai giuristi alcune figure di furto che, commesse in presenza di determinate circostanze, presentavano una tale pericolosità per l’intera compagine sociale da richiedere una loro precisa qualificazione tipologica, nonché un rafforzamento delle relative pene (i cui criteri, per la scelta e l’entità, furono fissati dalla giurisprudenza nel rispetto delle direttive date dalle costituzioni imperiali).

Di tali figure ci occuperemo nelle pagine che seguono. Va peraltro notato che la “criminalizzazione” del furto non fu sempre attuata attraverso la creazione di nuovi crimina extraordinaria. Almeno in un caso vi si pervenne perseguendo criminalmente, in via straordinaria, lo stesso illecito originariamente perseguito mediante l’azione civile. Mi riferisco al furto commesso di notte e al furto commesso di giorno, in cui il ladro si fosse difeso con le armi: fattispecie di particolare gravità in ordine alle quali, come è noto, fin dal tempo delle XII Tavole si riconosceva che il derubato potesse uccidere la persona colta a rubare[12]. Entrambe le ipotesi, nel corso del principato, furono attratte alla persecuzione pubblica e colpite con pene extra ordinem:

 

  1. 7.4.1-2 (Ulp. libro octavo de off. proc.) = D. 47.17.1:Fures ad forum remittendi sunt diurni, nocturnique extra ordinem audiendi et causa cognita puniendi, dummodo in poena eorum sciamus operis publici temporari modum non egrediendum. Idem et in balneariis furibus. Sed si se telo fures defendunt vel effractores vel ceteri his similes nec quemquam percusserunt, metalli poena humiliores, honestiores vero relegatione adficiendi erunt.

 

2. Fattispecie “aggravate” di furto emerse durante il principato

 

Soffermiamoci ora sulle forme di furto aggravato che vennero a costituire numerose ipotesi criminose caratterizzate da un proprium nomen.

 I bagni pubblici[13] e le terme[14] erano tra i luoghi preferiti dai cittadini per incontrarsi, comunicare, scambiare pettegolezzi[15] e, di conseguenza, rientravano anche tra gli ambienti maggiormente frequentati dai ladri. I fures balnearii solo a volte erano malviventi specializzati, professionisti: più spesso erano persone comuni che operavano negli stabilimenti depredando i clienti di vestiti, sandali e più raramente denaro. Non trovavano quasi mai oggetti di valore perché i bagnanti erano perfettamente consapevoli della frequenza dei furti in quei luoghi e portavano con sé lo stretto indispensabile[16]. I più abbienti potevano permettersi di farsi accompagnare da schiavi adibiti alla custodia dei loro vestiti oppure potevano affidarsi ai capsarii, cioè ai guardarobieri che svolgevano il loro lavoro previa riscossione di una mercede[17]. Tutto ciò, però, non sempre costituiva una garanzia: i ladri più esperti riuscivano il più delle volte a compiere ugualmente i loro furti e ad avvalersi non di rado della complicità fraudolenta degli stessi custodi[18]. Era il praefectus vigilum a vedersi affidata la relativa cognitio e a trattarli alla stregua dei fures nocturni, irrogando loro la pena dell’opus publicum[19]. Se poi essi facessero uso delle armi subivano la damnatio in metallum se humiliores, la relegatio se honestiores[20]: pene pesanti, soprattutto quella dei lavori forzati nelle miniere dello stato, considerando il valore quasi sempre irrisorio della merce rubata, ma giustificate dalla frequenza e dalla violenza di tali reati[21]. Questo trattamento punitivo, differenziato a seconda del rango sociale, rende evidente come tali crimini non fossero commessi solo dagli appartenenti ai ceti meno abbienti, ma anche dai membri delle classi più elevate. Le fonti ci danno testimonianza anche di sottrazioni commesse nei bagni da parte di militari. Tale ruolo – a quanto le fonti attestano - costituiva un’aggravante: il comportamento del soldato colto sul fatto a rubare era infatti considerato particolarmente abietto e portava alla radiazione dall’esercito per ignominia[22].

Negli stabilimenti balneari e nelle terme, come in ogni altro luogo pubblico (teatri, mercati e persino luoghi di culto), operavano anche i saccularii[23], i borsaioli. Per la verità non è sicuro che con il termine saccularii si debbano intendere “gli autori di furti commessi con destrezza addosso alle persone”. Si è infatti rilevato che l’espressione di cui Ulpiano fa uso per definirli (qui vetitas in sacculos artes exercentes partem subducunt, partem subtrahunt) è difficilmente riferibile ai borseggiatori, «dal momento che sacculus non designa la borsa legata alla cintura nella quale si porta con sé il denaro, ma il sacco chiuso e ordinariamente sigillato nel quale il denaro viene conservato in casa o comunque in ambienti chiusi e protetti»[24]. Secondo Mommsen si tratterebbe di furti commessi all’atto del riempimento o dell’apertura di sacchi di merci o di denaro[25]. Altri[26] vi vedono un’allusione a furti commessi con l’impiego di arti magiche sulla persona del derubato. Ma l’espressione vetitae artes sembra designare, piuttosto che le arti magiche, la particolare abilità del ladro che compie il borseggio. Questa tipologia di ladri, che Ulpiano accomuna ai derectarii (di cui parleremo in seguito), era assoggettata a fustigazione e poi lasciata in libertà, oppure assegnata temporaneamente ai lavori forzati o alla relegatio[27].

Notevole allarme sociale scaturiva anche dal comportamento degli effractores[28], i ladri d’appartamento che, avvalendosi spesso di espedienti ingegnosi, s’introducevano di soppiatto nelle abitazioni private rompendo i ripari posti a difesa della proprietà[29]. I furti avvenivano in particolar modo nelle insulae, casermoni con più appartamenti dati in affitto (cenacula). Si trattava di strutture spesso fatiscenti, nelle quali, ai piani inferiori, si trovavano le dimore dei soggetti più poveri, e, più in alto, quelle dei ceti più abbienti. Solitamente i ladri non andavano alla ricerca di denaro o di oggetti di valore, ma soprattutto di beni di prima necessità come frumento, pane, olio e vestiti.

Era meno frequente, invece, che essi prendessero d’assalto le domus dei ricchi, rappresentate spesso da splendide ville con ampi giardini[30]: le persone benestanti avevano infatti maggiori mezzi a disposizione, come cani o schiavi, con cui difendere efficacemente le loro proprietà. Ciò non toglie che talora ladri professionisti, ma anche semplici malviventi, irrompessero, a loro rischio e pericolo, pure in questi ambienti per appropriarsi di beni di valore come tessuti preziosi custoditi di solito nelle cassapanche. Ma gli effractores, come ho detto, operavano soprattutto negli appartamenti delle insulae, dove non si limitavano a forzare la porta di casa[31] o a entrare dalla finestra ma, approfittando delle pareti sottili, bucavano i muri o foravano il soffitto[32] introducendosi nelle abitazioni dei vicini[33].

Furti con effrazione erano frequenti anche negli horrea[34], i magazzini in cui si depositavano beni preziosi. I ladri sfasciavano senza troppi complimenti ripostigli, armadi o casse. Il rischio di subire un’effractio derivava non solo dai malviventi provenienti dall’esterno ma anche dagli schiavi che vivevano col padrone oppure erano addetti alla custodia dei magazzini e agivano, molto spesso, in combutta con i ladri. Erano presi di mira non solo gli horrea privati ma anche quelli imperiali per quel che può ragionevolmente dedursi da un testo paolino che ci dà testimonianza di un rescritto, emanato nel 145 d.C. dall’imperatore Antonino Pio e indirizzato al praefectus urbi Erucio Claro[35], evidentemente indeciso sul da farsi di fronte ad un furto avvenuto in un magazzino. Il princeps autorizzò l’interrogatorio sotto torturadei servi ai quali era stata affidata la custodia dei beni (quaestio de servis custodibus), non esentando da tale trattamento neanche quelli appartenenti allo stesso imperatore:

 

Paul. libro sing. de off. praef. vig. D. 1.15.3.2: …. et custodes plerumque puniuntur, et ita divus Antoninus Erucio Claro rescripsit. Ait enim posse horreis effractis quaestionem habere de servis custodibus, licet in illis ipsius imperatoris portio esset.

 

La presenza di servi Caesaris, di cui fa menzione il testo, ci fa capire che non si tratta di horrea privati, ma di magazzini imperiali nei quali venivano conservati grano e derrate destinati all’intera comunità. Ciò spiega anche perché la richiesta sia inoltrata all’imperatore non dal praefectus vigilum, organo generalmente addetto alla repressione del furto, ma dal prefetto urbano, il funzionario di grado più elevato nel campo della repressione penale all’interno dell’Urbe[36].

 A parte rari casi[37], era difficile che gli effractores facessero uso della violenza per portare a compimento il loro reato. Si trattava di ladri occasionali che non premeditavano un comportamento aggressivo. Era possibile che per commettere il furto si avvalessero dell’aiuto di altre persone (spesso conoscenti appartenenti allo stesso ceto sociale), ma di regola non si trattava di bande organizzate; un eventuale uso di armi non aveva finalità aggressive, ma aveva semplicemente lo scopo di difendersi dal derubato qualora reagisse dopo averli colti in flagranza di reato[38]. L’atrocitas che secondo Paolo caratterizzava il reato compiuto tramite effractio allude semplicemente al fatto che esso era commesso quasi sempre nelle ore notturne quando il derubato aveva maggiori difficoltà nel difendersi[39]. Tale aggravante rendeva inevitabile la damnatio in metallum. Qualora, invece, gli effractores avesseroagito di giorno subivano, se humiliores, la damnatio in opus publicum, temporanea o perpetua,previa fustigatio; se honestiores,la relegatio[40].

Il comportamento degli effractores va tenuto distinto da quello dei derectarii[41], ladriche perpetravano il furto dopo essersi preventivamente nascosti entro il coenaculum dell’abitazione della vittima. Erano anch’essi puniti magis quam fures e subivano la medesima condanna alle miniere, all’esecuzione di opere pubbliche, all’esilio temporaneo. Equiparati dal punto di vista punitivo erano anche coloro che i giuristi annoverano tra i ladri più efferati, gli expilatores[42], ossia i saccheggiatori che si introducevano negli appartamenti sottraendo non determinati beni ma tutto ciò che trovavano, spogliando, con le loro razzie, l’intero ambiente. Sono i ladri peggiori, afferma Ulpiano, quibus nulla specialis poena rescriptis principalibus imposita est: idcirco causa cognita liberum erit arbitrium statuendi ei qui cognoscit[43]: frase con cui il giurista verosimilmente intende dire che il reato doveva essere represso attraverso una cognitio criminale pro tribunali e non semplicemente de plano (nelle tipologie di furto in cui le fonti non sottolineano la necessità di una repressione causa cognita, il giudicante avrebbe invece potuto infliggere la pena senza pubblica udienza con partecipazione del consilium)[44].

Ai furti perseguiti criminalmente, di cui si è finora parlato, Mommsen[45] connette l’attività dei receptatores, ossia di coloro che aiutavano i malviventi (latrones)[46] a liberarsi del bottino, a nascondersi, a ricevere utili informazioni nonché provviste e denaro[47] sfuggendo alla persecuzione della giustizia. Come dice Marciano, essi erano una pessima categoria di persone (pessimum genus), perché senza di loro i banditi non avrebbero potuto sopravvivere a lungo. In quanto tali, i receptatores dovevano essere puniti severamente, alla stessa stregua dei ladri:

 

Marcian. libro secundo publ. iud. D. 47.16.1: Pessimum genus est receptatorum, sine quibus nemo latere diu potest: et praecipitur, ut perinde puniantur atque latrones. In pari causa habendi sunt, qui, cum adprehendere latrones possent, pecunia accepta vel subreptorum parte dimiserunt[48].

 

A loro volta erano equiparati ai receptatores latronum coloro che, pur potendo catturare i banditi, preferivano metterli in condizione di poter fuggire ricevendo in cambio una ricompensa in denaro o parte della refurtiva. Marciano non usa il termine “complici” per definirli, nonostante vi fosse un’evidente cooperazione con i ladri seppur successiva rispetto alla commissione del reato: egli si limita a dire che dovevano essere considerati «alla stregua» (in pari causa) dei latrones. Si è supposto, allora, che la punizione venisse inflitta non per l’aiuto prestato, ma in quanto essi erano autori di un reato specifico, e che la complicità venisse esclusa anche per un dato temporale, giacché i correi sarebbero dovuti intervenire anteriormente, e non posteriormente, alla commissione del crimine[49].

Anche i crimina dei receptatores rientravano nella giurisdizione del praefectus vigilum, a meno che non ci fossero condizioni di pericolosità tali da rendere necessario l’intervento del praefectus urbi[50]:

 

Paul. libro sing. de off. praef. vig. D.1.15.3.1: Cognoscit praefectus vigilum de incendiariis effractoribus furibus raptoribus receptatoribus, nisi si qua tam atrox tanique famosa persona sit, ut praefecto urbi remittatur…

 

3. L’abigeato

 

Tra le varie ipotesi di furto aggravato, una, in particolare, ha stimolato l’interesse della dottrina:

 

Ulp. libro octavo de off. proc. D. 47.14.1.1: Abigei autem proprie hi habentur, qui pecora ex pascuis vel ex armentis subtrahunt et quodammodo depraedantur, et abigendi studium quasi artem exercent, equos de gregibus vel boves de armentis abducentes, ceterum si quis bovem aberrantem vel equos in solitudine relictos abduxerit, non est abigeus, sed fur potius.

 

Siamo in presenza del reato di abigeato[51], ossia della sottrazione di capi di bestiame, in genere di allevamento, disciplinato inizialmente come un delictum e punito con l’actio furti e, in seguito, durante il principato, trasformato in un illecito a sé stante, più grave del semplice furto e incluso tra i crimina perseguiti extra ordinem. La pericolosità di tale fattispecie criminosa fu individuata, oltre che nelle modalità con cui veniva commessa, nelle conseguenze che ne scaturivano. La sottrazione di animali altrui non solo ledeva il diritto di proprietà, ma veniva anche ad impedire lo svolgimento di attività essenziali come la pastorizia e l’agricoltura[52]. I pastori potevano essere vittime o artefici dei furti di animali, e quindi sia a loro vantaggio[53] sia contro di loro in quanto ladri di bestiame[54], occorreva fornire un’adeguata protezione legale, evitando che le vittime potessero ricorrere a forme di giustizia privata. La frequenza e la violenza con cui l’abigeato veniva a consumarsi, inoltre, non solo portarono alla diffusione del fenomeno del brigantaggio, ma vennero anche ad incidere pesantemente sulla situazione economica del singolo e dell’intera società comportando il decadimento della piccola proprietà contadina. Apparve dunque indispensabile che questa grave lesione del patrimonio agrario e pastorizio non fosse più sanzionata con l’irrogazione di una semplice pena pecuniaria, ma (in presenza di determinate circostanze) attraverso una repressione extra ordinem comportante misure repressive più gravi che fungessero anche da efficace deterrente per chi volesse commettere in futuro tale reato[55]. I confini di questa fattispecie criminosa non erano individuati in modo preciso e unanime dalla giurisprudenza: Ulpiano, come abbiamo visto nel passo sopra citato[56], individuava l’abigeato nella sottrazione di animali dal pascolo o dalle mandrie, o di cavalli e buoi con professionalità ed abitualità, ma senza prevedere un requisito numerico di capi sottratti. Quest’ultimo veniva invece messo in risalto da Callistrato e da Claudio Saturnino: il primo ravvisava questa fattispecie criminosa nel furto di un cavallo, di un bue, di dieci pecore o capre, di cinque maiali; inoltre, a suo avviso, non era necessario, per configurare il reato di abigeato, che tale numero di capi di bestiame venisse rubato in una sola volta, ma era sufficiente che si raggiungesse sommando al primo i furti successivi[57]. Anche per Saturnino era la quantità l’elemento che distingueva il semplice fur dall’abigeus: la sottrazione di un solo animale configurava il furto, quella di un gregge un abigeato[58]

Secondo l’autore delle Pauli Sententiae, infine, il criterio a cui bisognava rifarsi per individuare un caso di abigeato era quello del numero di animali sottratti, della loro tipologia e del relativo sesso. In mancanza di tali requisiti, il reato sarebbe stato perseguito con l’actio furti, in duplum o in triplum a seconda della qualità delle persone; a ciò si sarebbe aggiunta la fustigatio e la successiva condanna ai lavori forzati[59]. Inoltre è ovvio, ma viene sottolineato ugualmente per evitare ogni possibile equivoco[60], che per poter configurare un caso di abigeato era necessario che non ci fossero dubbi sulla proprietà dei capi di bestiame sottratto: qualora infatti fosse pendente una controversia giudiziaria a riguardo, era possibile ipotizzare un furto semplice, perseguibile con l’actio furti, ma non la fattispecie aggravata, esclusa dall’incertezza della paternità del bene rubato. Se il furto, tuttavia, avesse riguardato non animali solitari o erranti, ma cavalli o greggi di pecore che fossero stati sottratti dal pascolo o dalla stalla o in modo reiterato o con l’uso delle armi o tramite un’ incursione collettiva violenta, secondo l’autore delle Pauli Sententiae si sarebbe venuta a configurare una fattispecie di abigeato ancora più grave tanto da qualificare i suoi responsabili come atroces abactores[61].

Trattandosi di un crimen extraordinarium, seppur punito più duramente rispetto alle precedenti pene pecuniarie, l’abigeato era lasciato alla valutazione discrezionale del funzionario che procedeva arbitrariamente contro i predoni.

Durante il periodo della transumanza in cui gli animali dovevano essere trasportati a grandi distanze, erano soprattutto i pastori a rivelarsi individui rozzi e violenti al pari dei briganti[62]. Di solito erano schiavi che, a seguito delle ristrettezze cui li sottoponevano i loro padroni, approfittavano di queste migrazioni stagionali per procurarsi il necessario per sopravvivere e, per difendersi da animali o da predoni, erano generalmente provvisti di armi assumendo l’aspetto di gente pericolosa e senza scrupoli[63]. Non era neanche raro, però, che fossero persone di rango elevato ad agire da mandanti e che si servissero dei propri schiavi, fornendoli anche di armi, per conseguire i loro scopi[64]. Le zone solitarie, o scarsamente popolate in cui di solito operavano, rendevano fortemente improbabile l’intervento degli organi di stato per cui i predoni agivano indisturbati, spesso usufruendo anche dell’aiuto di familiari[65].

Soprattutto in alcune regioni della Spagna, il furto di bestiame era diventato talmente diffuso da rendere il pascolo estremamente insicuro. Le continue aggressioni, la mancanza di disposizioni che fossero in grado di risolvere in modo efficace questo problema sempre più radicato e l’assenza di un valido intervento statale portarono il concilio della Betica, zona nota per l’allevamento dei cavalli, a rivolgersi all’imperatore Adriano affinché predisponesse misure radicali in grado di sconfiggere un fenomeno sempre più difficilmente dominabile[66]. Furono proprio la virulenza e la frequenza con cui si perpetrava il reato di abigeato in tale provincia a spingere l’imperatore ad accogliere la petizione e a emanare un provvedimento con cui mirava a soddisfare non solo un’esigenza sociale di giustizia[67], ma anche a disincentivare per il futuro un comportamento criminoso sempre più radicato e persistente[68]:

 

Coll. XI.7.1 (Ulp. libro octavo de off. proc. sub titulo de abigeis):……. abigei cum durissime puniuntur ad gladium damnari solent. Puniuntur autem durissime non ubique, sed ubi frequentius est hoc genus maleficii. alioquin et in opus et nonnunquam temporarium damnantur. 2. Ideoque puto apud vos quoque sufficere genus poenae, quod maximum huic maleficio inrogari solet, ut ad gladium abigei dentur: aut si quis tam notus et tam gravis in abigendo fuit, ut prius ex hoc crimine aliqua poena affectus sit hunc in metallum dari oportere[69].

 

Adriano stabilì che gli abigei dovessero essere puniti durissime, ossia con la pena del gladius. Questa punizione, tuttavia, non avrebbe dovuto essere inflitta ovunque, ma solo in quei luoghi in cui tale reato fosse stato frequente. Diversamente (alioquin), gli abigei avrebbero dovuto essere condannati ai lavori pubblici, qualche volta a tempo determinato. Ciò premesso, l’imperatore non dubita che gli abigei della Betica dovessero essere puniti con il gladio, vista la frequenza del reato in quella regione, ma qualora l’individuo fosse stato ben noto per la sua sfrontatezza nell’abigere e avesse già subito condanne per lo stesso reato, avrebbe dovuto essere assoggettato alla pena delle miniere[70].

Il rescritto adrianeo suscita inevitabilmente un certo stupore disponendo la pena massima del gladius nei confronti dell’abigeo che, anche per una sola volta, abbia commesso il furto in un luogo in cui tale reato è molto frequente e quella inferiore del metallum nei confronti dell’abigeo recidivo, e quindi più scellerato, in quanto condannato più volte per lo stesso crimine. Ulpiano, rendendosi conto dell’incongruenza, avverte l’esigenza di dare una spiegazione che possa giustificare una disciplina priva, almeno apparentemente, di coerenza logica e nel prosieguo del testo afferma:

 

Coll. XI.7.3 (Ulp. libro octavo de off. proc. sub titulo de abigeis): Rescriptum divi Hadriani sic loquitur, quasi gravior poena sit metalli, nisi forte hoc sensit divus Hadrianus gladii poenam dicendo ludi damnationem.

 

Adriano - spiega il giurista severiano - nel disporre la poena gladii in realtà non intendeva riferirsi alla pena del gladio, ossia alla decapitazione con la spada, ma a quella dei ludi gladiatori. Si trattava di sanzioni con conseguenze molto diverse, come viene precisato nel paragrafo successivo: i condannati ad gladium avrebbero dovuto essere messi a morte al massimo entro un anno dalla sentenza, quelli ai ludi gladiatori non necessariamente sarebbero incorsi nell’estremo supplizio: per quanto la morte fosse molto probabile, avrebbero potuto anche riacquistare la libertà, ottenendo dopo cinque anni il pilleus, berretto frigio indossato generalmente dagli schiavi affrancati, o, dopo tre, la rudis, verga di legno che veniva offerta in dono ai gladiatori al momento del congedo[71]. Questi oggetti esprimevano simbolicamente il ritorno alla libertà:   

 

Coll. XI. 7.4 (Ulp. libro octavo de off. proc. sub titulo de abigeis): est autem differentia inter eos qui ad gladium et eos qui ad ludum damnantur: nam ad gladium damnati confestim consumuntur vel certe intra annum debent consumi: hoc enim mandatis continetur. Enimvero qui in ludum damnantur, non utique consumuntur sed etiam pilleari, et rudem accipere possunt post intervallum, si quidem post triennium autem rudem induere eis permittitur.

 

Seppur la spiegazione fornita da Ulpiano sia sembrata a molti plausibile[72], non ha incontrato il consenso unanime della dottrina. Alcuni studiosi, pur intendendo il gladius del rescritto imperiale come condanna ai giochi gladiatori, hanno supposto che tale pena, meno grave del metallum al tempo di Adriano, avesse poi subito un’evoluzione comportando in alcuni casi anche la morte[73]; altri, invece, hanno ritenuto che tale imperatore intendesse con il termine gladius la pena capitale, pena che, come emerge da Coll. 11.7.3, sarebbe stata poi mitigata fino a identificarsi con la condanna ai giochi gladiatori[74]. Infine, l’ipotesi secondo cui con il termine gladius Adriano volesse intendere il summum supplicium troverebbe conferma, secondo studiosi più recenti, nell’attenta lettura di alcuni frammenti che – si sostiene - indicano chiaramente la maggiore gravità del gladius rispetto alle altre pene[75]. Solo la minaccia della più grave sanzione, d’altronde, avrebbe potuto essere in grado di distogliere i soggetti dal compiere in futuro tale reato. Conseguentemente, secondo questa minoranza di studiosi, se nella Betica, essendo presente il requisito della frequenza, doveva essere applicata la pena capitale anche nei confronti di colui che per la prima volta compiva il reato, si deve escludere che per tale provincia l’imperatore avesse potuto contemplare l’ipotesi della recidiva[76].

In effetti può apparire strano che nel seguente passo contenuto nel Digesto, seppur quasi perfettamente corrispondente al primo paragrafo di Coll. XI. 7 prima esaminato, manchi qualunque richiamo alla disciplina relativa all’abigeus recidivo nonché all’interpretazione data da Ulpiano all’espressione ad gladium contenuta nel rescritto adrianeo: 

 

  1. libro octavo de off. proc. D. 47.14.1.pr.: De abigeis puniendis ita divus Hadrianus consilio Baeticae rescripsit: 'abigei cum durissime puniuntur, ad gladium damnari solent. Puniuntur autem durissime non ubique, sed ubi frequentius est id genus maleficii: alioquin et in opus et nonnunquam temporarium dantur'[77].

  

Si sarebbe trattato, secondo alcuni studiosi[78], di un taglio apportato dai compilatori giustinianei per eliminare la menzione dei giochi gladiatori e di altri istituti che, in un contesto cristiano, risultavano essere ormai obsoleti; secondo altri[79], per far sparire la segnalata incongruenza relativa alla pena del gladium.

Io credo che la lettura del passo possa orientare verso una spiegazione più semplice. Precedentemente Adriano, nel rispondere con il suo rescritto al concilio della Betica, non si era limitato a disciplinare la situazione dei luoghi, come la provincia spagnola, in cui tale reato si verificava abitualmente, ma aveva colto l’occasione per regolamentare anche casi diversi. Pertanto, come abbiamo visto, mentre nei territori in cui il crimen fosse stato compiuto con frequenza, la pena, almeno secondo Ulpiano, sarebbe dovuta essere quella dei ludi gladiatori, diversamente, al reo sarebbe dovuta essere inflitta la condanna all’opus publicum. Infine, nel caso di comportamento recidivo, sarebbe stata comminata la sanzione dell’opus metalli. Dal passo sopra citato si evince, invece, un diverso orientamento dei commissari giustinianei. Questi, evidentemente, ritennero opportuno staccarsi dalla tradizione classica eliminando ogni riferimento alla disciplina differenziata della recidiva: fissarono in via generale la pena del gladio, inteso nella sua accezione ordinaria di pena capitale, qualora l’abigeato fosse stato commesso in quei luoghi in cui rappresentava un fenomeno endemico; recuperarono, al contrario, la disciplina adrianea della pena dell’opus publicum per quei territori in cui il reato non avesse assunto connotati patologici.

 

Abstract: The essay examines some types of aggravated theft which, starting from the principality of Augustus, were punished in the form of cognitio pro tribunali and, starting from the 3rd century AD, were characterized by a proprium nomen. In particular, the crime of abigeato is taken into consideration. This crime, so frequent in Spain, induced Hadrian, as we read in a passage contained in the Collatio, to regulate it through a rescript. Scholars have expressed conflicting opinions on the interpretation of this rescript and, in particular, on the poena gladii ordered by the emperor. The article proposes a renewed reading of the Collatio passage in light of the comparison with an identical, but only partially, fragment contained in the Digest.

 

Key Words: aggravated theft, saccularii, derectarii, effractores, abigeato, poena gladii.

 


* Università di Firenze (mariangela.ravizza@unifi.it).

**Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] Cfr. J.U. KRAUSE, La criminalità nel mondo antico (trad. it. L. Argentieri), Roma, 2006, p. 127. App. hist. rom. 5.18.73. 

[2] V. NERI, I marginali nell’Occidente tardoantico. Poveri, infames e criminali nella nascente società cristiana, Bari, 1998, p.291; B. SANTALUCIA, Incendiari, ladri, servi fuggitivi: i grattacapi del «praefectus vigilum», in INDEX, 40 (2012), p. 393.

[3] Plaut. Amphitr. 153 ss.; Asc. in Milon. 37.8-12 C.; Ps. Asc. 201.20-22. I tresviri capitales, che attraverso i loro uomini esercitavano il servizio di polizia notturna ristabilendo la pace sociale ove fosse stata turbata, potevano infliggere misure coercitive, ma erano sprovvisti di poteri giurisdizionali. Sui tresviri cfr., in particolare, C. CASCIONE, Tresviri capitales: storia di una magistratura minore, Napoli, 1999, passim; B. SANTALUCIA, Recensione a C. Cascione, Tresviri capitales, cit., in INDEX, 28 (2000), pp. 421-430; ID., Note sulla repressione dei reati comuni in età repubblicana, in BIDR, 30 (1988), pp. 211 ss. (= Studi di diritto penale romano, Roma, 1994, pp. 131 ss.); ID., Diritto e processo penale nell’antica Roma, 2ª ed., Milano, 1998, pp. 92 ss. (ove abbondante bibliografia). 

[4] Numerosi esempi in G. PUGLIESE, Linee generali dell’evoluzione del diritto penale pubblico durante il Principato, in ANRW, 2.14, Berlin-New York, 1982, pp. 773 s. (= Scritti giuridici scelti, II, Camerino, 1985, pp. 704 s.).

[5] Paul. libro sing. de off. praef. vig. D. 1.15.3.1 ss.: Cognoscit praefectus vigilum de incendiariis effractoribus furibus raptoribus receptatoribus, nisi si qua tam atrox tamque famosa persona sit, ut praefecto urbi remittatur.

[6] Ulp. libro septimo de off. proc. D. 1.18.13.pr.: Congruit bono et gravi praeidi curare, ut pacata atque quieta provincia sit quam regit. Quod non difficile optinebit, si sollicite agat, ut malis hominibus provincia careat eosque conquirat: nam et sacrilegos latrones, plagiarios fures conquirere debet et prout quisque deliquerit, in eum animadvertere, receptoresque eorum coercere, sine quibus latro diutius latere non potest.

[7] Ulp. libro octavo de off. proc. D. 47.17.1= Coll. 7.4.1;  Ulp. libro octavo de off. proc. D. 47.18.1.1-2 .

[8] Ulp. libro  secundo de off. proc. D. 48.2.6.

[9] Cfr. Iul. libro 22 dig. D. 47.2 57 (56).1 su cui F. SERRAO, Il frammento leidense di Paolo: problemi di diritto criminale romano, Milano, 1956, pp. 107 ss.; M. BALZARINI, In tema di repressione 'extra ordinem' del furto nel diritto classico, in BIDR, 72 (1969), pp. 217 ss.

[10] Ulp. libro octavo de off. proc. D. 47.18.1.1: Nulla specialis poena rescriptis principalibus imposita est; idcirco causa cognita liberum erit arbitrium ei qui cognoscit.

[11] Cfr. C. FERRINI, Diritto penale romano. Esposizione storica e dottrinale, Roma, 1976, p. 224.

[12] XII Tab. 8.12 (Macr. Sat. 1.4.19): Si nox furtum faxit, si im occisit, iure caesus esto; 8.13 (Cic. Tull. 47); Cic. Tull. 50; Mil. 9; Gell. 11.18.6-7; 20.1.7; Gaius  libro septimo ad ed. prov. D. 9.2.4.1; Gaius libro 13 ad ed prov. D. 47.2.55 (54).2. In particolare, sull’ampia discussione in dottrina se l’ipotesi contemplata in Tab. 8.13, relativa al fur manifestus diurnus, possa qualificarsi o meno in termini di legittima difesa, cfr., tra gli altri, C. PELLOSO, Studi sul furto nell’antichità mediterranea, Padova, 2008, pp. 152 ss. e M.A. FENOCCHIO, Sulle tracce del delitto di furtum. Genesi sviluppi vicende, Napoli, 2008, pp. 34 ss. e nt. 48. 

[13] Vitruvio (de arch. 1.3.1) inserisce in modo chiaro i bagni (come anche le piazze, i portici, i teatri e i porti) tra le res destinate all’uso pubblico: Defensionis est murorum turriumque et portarum ratio ad hostium impetus perpetuo repellendos exogitata, religionis deorum immortalium fanorum aediumque sacrarum conlocatio, opportunitatis communium locorum ad usum publicum dispositio, uti portus, fora, porticus, balinea, theatra, inambulationes ceteraque,quae idsdem rationibus in publicis locis designatur. 

[14] I. NIELSEN, Thermae et balnea. The architectural and cultural history of Roman public baths, Aarthus, 1990, p. 121 s.

[15] Cfr. J.U. KRAUSE, La criminalità, cit., p. 92; V. NERI, I marginali, cit., p. 294.

[16] Apul. Met. 9.21. Cfr. J.U. KRAUSE, La criminalità, cit., p. 128.

[17] Paul. libro sing. de off. praef. vig. D. 1.15.3.5: Adversus capsarios quoque, qui mercede servanda in balineis vestimenta suscipiunt, iudex est constitutus, ut, si quid in servandis vestimentis fraudolenter admiserit, ipse cognoscat.

[18] Paul. libro sing. de off. praef. vig. D. 1.15.3.5. Cfr. V. NERI, I marginali, cit., p. 295 nt. 23; TH. MOMMSEN, Römisches Strafrecht, Leipzig, 1899, p. 777; C. FERRINI, Diritto penale romano, cit., p. 226; B. SANTALUCIA, Incendiari, cit., p.395; R. SCEVOLA, Statuto e profili giuridici delle terme pubbliche in Roma antica, in Seminarios complutenses de derecho romano, 29 (2016), p. 259.

[19] Ulp. libro octavo de off. proc. D. 47.17.1.

[20] Paul. Sent. 5.3.5: fures vel raptores balnearum plerumque in metallum aut in opus publicum damnantur: nam nonnunquam pro frequentia admissorum iudicantis sententia temperatur. La condanna ai lavori forzati veniva di solito accompagnata per quanto riguarda glihumiliores alle bastonate (fustes) qualora fossero liberi, alle frustate (flagella) se schiavi: cfr. V. NERI, I marginali, cit., p. 345.

[21] V. NERI, I marginali, cit., p. 294.

[22] Paul. libro sing. poen. milit. D. 47.17.3: Miles, qui in furto balneario adprehensus est, ignominia mitti debet. In proposito, B. SANTALUCIA, Incendiari, cit., p. 395 ss.; R. SCEVOLA, Statuto, cit., p. 258 nt. 104.

[23] Ulp. libro nono de off. proc. D. 47.11.7: Saccularii, qui vetitas in sacculos artes exercentes partem subducunt, partem subtrahunt, item qui derectarii appellantur, hoc est hi, qui in aliena cenacula se dirigunt furandi animo, plus quam fures puniendi sunt: idcircoque aut ad tempus in opus dantur publicum, aut fustibus castigantur et dimittuntur, aut ad tempus relegantur..

[24] V. NERI, I marginali, cit., pp. 298 s.; A. NÖGRADY, Römisches Strafrecht nach Ulpian. Buch 7 bis 9 De officio proconsulis, Berlin, 2006, p. 286 e nt. 1447.

[25] TH. MOMMSEN, Römisches Strafrecht, cit., p. 777 nt. 5.

[26]W. REIN, Das Criminalrecht der Römer von Romulus bis auf Iustinian, Leipzig, 1844, p. 321.

[27] Ulp. libro nono de off. proc. D. 47.11.7; Ulp. libro octavo de off. proc. D. 47.18.1.2: Simili modo et saccularii et derectarii erunt puniendi, item effractores.

[28] Paul. libro sing. de off. praef. vig. D. 1.15.3.2: Effracturae fiunt plerumque in insulis in horreisque, ubi homines pretiosissimam partem fortunarum suarum reponunt, cum vel cella effringitur vel armarium vel arca: et custodes plerumque puniuntur…. Paul. libro 39 ad ed. D. 47.2.54 (53).pr.; Ulp. libro octavo de off. proc. D. 47.18.1.pr. Sugli effrattori cfr. H.F. HITZIG, s.v. effractor, P.W. VI.1, 1907, p. 1979.

[29] Il fur, come nota V. NERI, I marginali, cit., p. 290, agisce dunque il più possibile nascostamente e fraudolentemente, a differenza del raptor e del latro.

[30] Cfr. C.R. WHITTAKER, Il povero, a cura di A. GIARDINA, in L’uomo romano,Roma-Bari, 1989, p. 323.

[31] BGU IV.1036.

[32] BGU I.321.

[33] P. Oxy X.1272. Veniva punito anche chi coscientemente procurava ferramenta per forzare una porta o un armadio, o una scala, con intenti criminali. Nonostante non fosse l’ideatore del furto, ma avesse solo fornito il suo aiuto, veniva perseguito con l’actio furti: Gaius libro 13 ad ed. prov. D. 47.2.55 (54).4: Qui ferramenta sciens commodaverit ad effringendum ostium vel armarium, vel scalam sciens commodaverit ad ascendendum: licet nullum eius consilium principaliter ad furtum faciendum intervenerit, tamen furti actione tenetur.  Il sistema dell’effractio venne usato anche per evadere dal carcere tanto da indurre Marco Aurelio e Lucio Vero a punire questo reato con la pena capitale; solo nel caso in cui l’evasore avesse approfittato della negligenza dei custodi senza porre in essere alcuna effrazione, avrebbe potuto usufruire di un’attenuante: Ulp. libro octavo de off. proc.  D. 47.18.1. 

[34] Paul. libro sing.de off. praef. vig. D. 1.15.3.2. Sugli horrea, cfr. J. THOMAS, Custodia et Horrea, in RIDA, 6 (1959), pp. 371 ss.; ID., Return to horrea, in RIDA, 14 (1966), pp. 353 ss.; C.A. CANNATA, Su alcuni problemi relativi alla locatio horrei nel diritto romano classico, in SDHI, 30 (1964), pp. 235 ss.: lo studioso osserva che, nonostante il passo citato parli di insulae, è ovvio si riferisca agli horrea: i contenitori delle merci, locali o scrigni che fossero, erano chiusi indubbiamente a chiave come si deduce dal termine effractura; in tal senso anche V. MAROTTA, Multa de iure sanxit, Milano, 1988, p. 339; C. ALZON, Problèmes relatif à la location des entrepots en droit romain, Paris, 1966, pp. 41 ss., pp. 184 ss.

[35] Come rilevato da V. MAROTTA, Multa, cit., p. 338, il fatto che il rescritto fosse indirizzato al praefectus urbi anziché al praefectus vigilum non deve sorprendere vista l’ingerenza esercitata solitamente dal primo su questioni particolarmente importanti di competenza del secondo.

[36] Nel caso degli horrea privati, invece, il proprietario del magazzino veniva liberato da ogni responsabilità semplicemente esibendo gli schiavi, autori del furto, così da consentire di procedere al loro interrogatorio: Sul problema della responsabilità dell’horrearius cfr. C.A. CANNATA, Su alcuni problemi, cit., p. 235 ss.; V. MAROTTA, Multa, cit., p. 339.

[37] Come rileva J.U. KRAUSE, La criminalità, cit., p. 178, le fonti (Amm. Marc. 28.4.16) riportano infatti alcuni episodi in cui gli schiavi, nel commettere furti, non agivano di propria iniziativa, ma su istigazione dei propri padroni che fornivano loro armi e protezione per perseguire i loro scopi personali, minando fortemente la sicurezza della città. Lo studioso (p. 107) mette in luce come alla fine della repubblica ci fosse una grande diffusione di armi tra privati tanto da portare Cicerone (pro Mil. 10) a giustificare il diritto di possederle, da parte dei cittadini, per motivi di legittima difesa.

[38] Svet. Aug. 32.1. Per Gaio rientravano sotto il concetto di armi le spade, ma anche le pietre e tutto ciò che poteva causare lesioni fisiche: Gaius libro 13 ad ed. prov. D. 47.2.55.2: … Teli autem appellatione et ferrum et fustis et lapis et denique omne, quod nocendi causa habetur, significatur.

[39]Paul. libro sing. de off. praef. vig. D. 47.18.2: Inter effractores varie animadvertitur. Atrociores enim sunt nocturni effractores, et ideo hi fustibus caesi in metallum dari solent: diurni vero effractores post fustium castigationem in opus perpetuum vel temporarium dandi sunt. Sul concetto di atrocitas cfr. M.L. BICCARI, Atrocitas: alle radici della teoria penalistica circa le aggravanti del reato, in Studi Urbinati, A - Scienze giuridiche, politiche ed economiche, 62 (1-2), (2011), pp. 7-62.

[40] Coll. 7.4.2 (Ulp. libro octavo de off. proc.) = D. 47.17.1; Paul. libro sing. de off. praef. vig. D. 47.18.2. E’ noto il caso, riportato da Ulpiano, di un cavaliere romano che, dopo aver compiuto un furto di denaro tramite effrazione, venne allontanato da Roma, dall’Italia e dalla provincia dell’Africa da cui proveniva e condannato ad un esilio di cinque anni dall’imperatore Marco Aurelio: Ulp. libro octavo de off. proc. D. 47.18.1.2.

[41] Ulp. libro nono de off. proc. D. 47.11.7: …. item qui derectarii appellantur, hoc est hi, qui in aliena cenacula se dirigunt furandi animo; cfr. ancheUlp. libro octavo de off. proc. D. 47.18.1.2; Paul. Sent. 5.4.8; Sui derectarii cfr. H.F. HITZIG, s.v. directarius, in P.W., V.I, Stuttgart, 1903, pp. 1166 s.

[42] Il termine expilatio – precisa R. BONINI, D. 48.19.16 (Claudius Saturninus de poenis paganorum) in RISG, 93 (1959-1962), pp. 156 s.,– era presente nel I sec. a.C. nei testi letterari, in seguito nei testi giuridici con riferimento al crimen expilatae hereditatis e infine, solo dopo il diffondersi della repressione extra ordinem per il furto, esso si svincolò dall’ hereditas assumendo nuovamente il significato più vasto e un po’ più vago che aveva nei testi letterari.

[43] Riporto il passo per intero: Ulp. libro octavo de off. proc. D. 47.18.1.1: Expilatores, qui sunt atrociores fures (hoc enim est expilatores), in opus publicum vel perpetuum vel temporarium dari solent, honestiores autem ordine ad tempus moveri vel fines patriae iuberi excedere. Quibus nulla specialis poena rescriptis principalibus imposita est: idcirco causa cognita liberum arbitrium statuendi ei qui cognoscit; Sat. libro sing. poen. pag. D. 48.19.16.6: Qualitate, cum factum vel atrocius vel levius est: ut furta manifesta a nec manifestis discerni solent, rixae a grassaturis, expilationes a furtis, petulantia a violentia.

[44] Così B. SANTALUCIA, Crimen furti. La repressione straordinaria del furto nell’età del principato,, a cura di J. Paricio, in Derecho romano de obligaciones. Homenaje al prof. Murga Gener, Madrid, 1994, pp. 393 ss. (= Altri Studi di diritto penale romano, Padova, 2009, pp. 392 ss.); R. MARTINI, Il problema della causae cognitio praetoria, Milano, 1960, pp. 178 s.

[45] TH. MOMMSEN, Römisches Strafrecht, cit., p. 775.

[46] Un’interessante disamina del termine latro è stata effettuata da S. MORGESE, Taglio di alberi e 'latrocinium': D. 47.7.2, in SDHI, 49 (1983), pp. 147 ss.: la studiosa individua nei latrones le persone “dedite stabilmente e frequentemente” ad attività predatorie come il furto con scasso e l’abigeato. Non si tratta, quindi, di semplici ladri, ma di banditi che compiono il reato abitualmente traendo dalle ruberie il loro sostentamento di vita. M.F. PETRACCIA, I latrones-pastores della Roma delle origini, in Xenia. Studi in onore di Lia Marino, Caltanissetta-Roma, 2013, 58, rileva come la transumanza implicasse una serie di relazioni e canoni ben precisi per regolamentare lo sfruttamento dei pascoli comunitari. É quindi probabile, ad avviso della studiosa, che “i contrasti tra pastori fossero legati a ʹproblemi di dirittoʹ, soprattutto ad accordi trasgrediti o arbitrariamente interpretati”.

[47] B.D. SHAW, Il bandito, in L’uomo romano, cit., p. 371.

[48] Cfr. anche Ulp. libro 56 ad ed. D. 47.9.3.3.

[49] In tal senso P. FERRETTI, Complicità e furto nel diritto romano, Milano, 2005, pp. 241 s. La pericolosità dei ricettatori trova conferma nelle Pauli Sententiae laddove si afferma che solo la loro eliminazione avrebbe posto fine all’avidità dei ladri: Paul. Sent. 5.3.4: Receptores adgressorum itemque latronum eadem poena adficiuntur, qua ipsi latrones: sublatis enim susceptoribus grassantium cupido conquiescit.

[50] Paul. libro sing. off. praef. vig. D. 1.15.3.1. Sui ricettatori cfr. B.D. SHAW, Il bandito, cit., pp. 371 ss.

[51] Il termine 'abigeato' deriva da ab + agere, ossia spingere davanti a sé un capo di bestiame a scopo di furto. I responsabili di tali reati vengono soprannominati abigei (Plin. nat. hist. 8.61.142) e dal III secolo d.C. anche abactores. Secondo Isidoro di Siviglia (Etym. 10.14) il termine abigeus, al contrario di abactor, rappresenterebbe un termine popolare: abactor est fur iumentorum et pecorum quem vulgo abigeum vocant. Sul reato di abigeato, tra gli altri, cfr. L.M. HARTMANN, s.v. Abigeatus, in P.W. I. 1, Stuttgart, 1893, col. 97; U. BRASIELLO, voce Abigeato (diritto romano), in NNDI 1.1, Torino, 1957, p. 42 s.; F. CANCELLI, voce Abigeato in ED 1, Milano, 1958, pp. 74 s.; G. HUMBERT, s.v. Abigei, in CH. Daremberg–Saglio, Dictionnaire des antiquitées grecques et romaines, I/1, Graz, 1969, pp. 6 s.;  S. PIETRINI, A proposito della sanzione del reato di abigeato, in Studi Senesi, CII, 1990, pp. 455-473; O.F. ROBINSON, The Criminal Law of Ancient Rome, London, 1995, pp. 158 s.; B. SANTALUCIA, Diritto e processo penale, cit. p. 266; M. VILLAR, Un rescripto de Adriano sobre el crimen de abigeatus: civiliter vel criminaliter agere?, in La responsabilidad civil de Roma al derecho moderno, Burgo, 2001, pp. 93-104; A. NOGRADY, Römisches Strafrecht, cit., pp. 277 ss.; P. PAVÓN, De abigeis puniendis (D. 47.14.1; Coll. 11.7.13): el rescripto de Adriano sobre el robo de ganado en la Betica, in GERIÓN 28 (num. 1) (2010), pp. 275-307; F. LUCREZI, Il furto di terra e di animali in diritto ebraico e romano. Studi sulla "Collatio", VII, Torino, 2015, pp. 5 ss.; F. LUCREZI-L. MINIERI, Atroces abactores, in SDHI, 81 (2015), p. 97 ss.; L. MINIERI, Abactum animal, Napoli, 2018, passim; T. BEGGIO, Contributo allo studio della ̒Servitus poenae̦ Bari, 2020, pp. 24 ss., pp. 91 ss. Sul tema cfr. anche Y. RIVIÉRE, Histoire du Droit Pénal Roman. De Romulus à Justinien, Paris, 2022, pp. 592 ss. 

[52] F. FALCHI, Diritto penale romano, II, (I singoli reati), Padova, 1932, p. 227; V. MAROTTA, Multa, cit., pp. 335 ss.; E. GABBA-M. PASQUINUCCI, Strutture agrarie e allevamento transumante nell’Italia romana (III-I sec.A.C.), Pisa, 1979, p. 52; G. VOLPE, Contadini, pastori e mercanti nell’Apulia tardoantica, Bari, 1996, p. 276. F. LUCREZI, Il furto di terra, cit., p. 7, in particolare, sottolinea che l’abigeato non era un furto di animali inteso in senso generico, ma riguardava quei capi di bestiame funzionali all’agricoltura e alla pastorizia, come il cavallo e il bue. Altre bestie, pur rilevanti in contesti diversi come ad esempio un animale feroce in un circo, se sottratti non rilevavano ai fini dell’abigeato, ma configuravano un semplice furto. 

[53] Colum. de re rust. 7.3.26 : nel passo si invitano i pastori ad essere sempre guardinghi per non correre il rischio che un ladro o una bestia selvatica rubi le pecore dal gregge sottraendole 'al pastore che sogna'.

[54] Anche Liv. 39.29.8-9: … is id pastorum coniuratione, qui vias latrociniis pascuaque publica infesta habuerant, quaestionem severe exercuit. Ad septem milia hominum condemnavit; multi inde fugerunt, de multis sumptum est supplicium, ci informa sulla severità con cui il console Postumio aveva dovuto procedere contro una banda di pastori che con le loro rapine avevano reso pericolose le strade e i pascoli pubblici. 

[55] Cfr. V. NERI, I marginali, cit., pp. 313-316; B.D. SHAW, Il bandito, cit., pp. 369 s. L’Autore considera i banditi, tra cui i ladri di bestiame, 'personaggi interstiziali', diversi dai comuni criminali ma anche dai nemici dello stato, così da essere ritenuti 'uomini a parte'.    

[56] Ulp. libro octavo de off. proc. D. 47.14.1.1: Abigei autem proprie hi habentur, qui pecora ex pascuis vel ex armentis subtrahunt et quodammodo depraedantur, et abigendi studium quasi artem exercent, equos de gregibus vel boves de armentis abducentes.… Il passo continua affermando che costituisce invece semplice furto l’appropriarsi di un bue o di un cavallo che vagano (lontano dalla stalla del proprietario): ceterum si quis bovem aberrantem vel equos in solitudine relictos abduxerit, non est abigeus, sed fur potius.

[57] Call. libro sexto de cogn. D. 47.14.3.pr.: Oves pro numero abactarum aut furem aut abigeum faciunt. Quidam decem oves gregem esse putaverunt: porcos etiam quinque vel quattuor abactos, equum bovem vel unum abigeatus crimen facere; per Callistrato, dunque, anche la sottrazione di quattro maiali costituisce abigeato, così come rientra in questa fattispecie anche il furto continuato di singoli capi di bestiame: Call. libro sexto de cogn. D. 47.14.3.2: qui saepius abegerunt, licet semper unum vel alterum pecus subripuerint, tamen abigei sunt.

[58] Cl. Sat. libro sing. poen. pag. D. 48.19.16.7: quantitas discernit furem ab abigeo: nam qui unum suem subripuerit, ut fur coercebitur, qui gregem, ut abigeus.

[59] Paul. Sent. 5.18.1 = Coll. 11.3.1 (Paul. libro sententiarum V sub titulo de abactoribus): Abactores sunt, qui unum equum, duas equas totidemque boves vel capras decem aut porcos, quinque abegerint. Quidquid evero intra hunc numerum fuerit ablatum, in poena furti pro qualitate eius aut in duplum aut in triplum convenitur, vel fustibus caesus in opus publicum unius anni datur aut sub poena vinculorum domino restituetur.

[60] Paul. Sent. 5.18.3 = Coll. 11.4.1 (Paul. libro sententiarum V sub titulo de abactoribus): si ea pecora, de quibus quis litigat, abegerit, ad forum remittendus est, atque ita convictus in duplum vel in triplum furis more damnatur

[61] Paul. Sent. 5.18.2 e 5.18.4 = rispettivamente Coll. 11.2 e Coll. 11.5.1 (Paul. libro sententiarum.V sub titulo de abactoribus). Ha fatto discutere in dottrina la decisione assunta dal redattore della Collatio di riportare due testi contenuti nel diciottesimo titolo del quinto libro delle Pauli Sententiae (P.S. 5.18.1-2) invertendone l’ordine (Coll. 11.2 e Coll. 11.3.1), così da far precedere la trattazione degli atroces abactores rispetto a quella dei comuni abactores, e passando poi a fornire informazioni sulle pene cui sarebbero dovuti essere sottoposti. La scelta è in effetti piuttosto singolare se si consideri che l’indicazione del genus precede sempre quella della species, ma è comunque plausibile. Concordo infatti con Francesco Lucrezi (Il furto, cit., pp. 28 ss.; cfr. anche L. MINIERI – F. LUCREZI, Atroces abactores, cit., pp. 97 ss.) nel ritenere che non si sia trattato di un errore di trascrizione: l’ipotesi di una “svista” appare infatti poco verosimile per la precisione e la diligenza con cui venivano effettuate le trascrizioni a mano che avrebbero reso molto improbabili eventuali inesattezze. Appare inoltre nel giusto lo studioso anche quando ipotizza che forse già nelle Pauli Sententiae la trattazione degli atroces abactores precedeva quella dei semplici abactores. Non ritengo, però, che ciò vada visto  come un’incongruenza o come un semplice “elemento di disordine”. Sembra invece più probabile che la scelta sia stata dettata dalla consapevolezza di quanto fosse necessario dare massimo risalto a quei ladri particolarmente pericolosi, come quelli della Betica, che depredavano con estrema frequenza gli allevatori di bestiame così da diventare oggetto, come vedremo, di un’apposita costituzione imperiale: in tal senso, cfr. I. RUGGIERO, Ricerche sulle Pauli Sententiae, Milano, 2017, p. 236. 

[62] J.U. KRAUSE, La criminalità, cit., p. 104; M.F. PETRACCIA, I latrones-pastores, cit., p. 62, mette in luce come solo col decorso del tempo i latrones fossero venuti a identificarsi con i briganti. Il latro, infatti, inizialmente si identificava con il soldato mercenario; a seguito di un processo di evoluzione semantica, venne poi a immedesimarsi con il brigante. Ne deriva, ad avviso della studiosa, che l’esatto significato di latro e di latrocinium va valutato di volta in volta a seconda del contesto in cui i due termini sono inseriti. Cfr. V. NERI, I marginali, cit., p. 317; V. MAROTTA, Multa,cit., p. 336. Sul brigantaggio e transumanza cfr. M. CLAVEL-LEVÉQUE, Brigandage et piraterie; représentations idéologiques et pratiques impérialistes an dernier siècle de la république, in DHA 4 (1978), pp. 17-31; V. GIUFFRÉ, Latrones desertoresque, in LABEO, 27 (1981), pp. 214-219; M. PASQUINUCCI, Montagna e pianura: transumanza e allevamento, in Espaces intégrés et ressources naturelles dans l’Empire romain, a cura di M. CLAVEL-LÉVÊQUE–E. HERMON, Besançon, 2004, pp. 165-176; M.H. CRAWFORD, Transhumance in Italy: its history and its historians, in Noctes campanae: Studi di storia antica e archeologia in memoria di Martin W. Frederiksen, a cura di W.E. HARRIS-E. LO CASCIO, Napoli, 2005, pp. 159-179.

[63] Macro (D. 47.14.2 libro primo publ. iud.), in particolare, metteva in risalto il carattere talvolta violento degli abigei rilevando che si servivano spesso anche delle armi: Abigeatus crimen publici iudicii non est, quia furtum magis est. Sed quia plerumque abigei et ferro utuntur, si deprehendentur, ideo graviter et puniri eorum admissum solet

[64] Cfr. V. NERI, I marginali, cit., p. 323.

[65] J.U. KRAUSE, La criminalità, cit., p. 155; B.D. SHAW, Il bandito, cit., p. 370 che sottolinea come fossero addirittura le leggi a stabilire che, in presenza di legami di sangue, ci si dovesse comportare con maggiore indulgenza: Paul. libro sing. poen. pag. D. 47.16.2: Eos, apud quod adfinis vel cognatus latro conservatus est, neque absolvendos neque severe admodum puniendos: non enim par est eorum delictum et eorum, qui nihil ad se pertinentes latrones recipiunt.

[66] La prova che nella provincia spagnola il reato di abigeato rappresentasse un fenomeno persistente, quasi patologico, è palesemente dimostrato non solo da una costituzione poco più tarda, indirizzata anche questa volta al concilio della Betica da parte di Antonino Pio che evidentemente ritenne necessario ribadire le disposizioni del suo predecessore (Coll. 11.6.1 (Paul. libro sing. de poenis paganorum sub titulo de abigeis dixit): Cum durius abigei damnantur et ad gladium tradantur: itaque divus Pius ad concilium Beticae rescripsit), ma anche da un’ulteriore normativa che altri imperatori, persino nel IV secolo, furono costretti ad emanare per arginare il comportamento criminoso che continuava a devastare la Betica. Infatti, poiché i ladri, generalmente pastori, per compiere i propri furti si servivano generalmente di cavalli, gli imperatori ne proibirono l’uso a tutti con l’unica eccezione degli honestiores ai quali, come già era avvenuto in precedenza, continuava ad essere riservato un trattamento di favore. Qualora i ladri di bestiame fossero contravvenuti a quest’ordine, sarebbero stati considerati ufficialmente trasgressori della legge: C. Th. 9.30.1-5. Sulla costituzione cfr. G. VOLPE, Contadini, cit., 276; sull’interdizione dell’usus equorum cfr. anche F.M. DE ROBERTIS, Interdizione dell’ usus equorum e lotta al brigantaggio in alcune costituzioni del Basso Impero, in SDHI, 40 (1974), p. 67-98; V. NERI, I marginali, cit., p. 319 ss.; M. RAIMONDI, La lotta all’abigeato (C. Th. IX.30) e alla violazione di tombe nel tardo impero. Alcune riflessioni a proposito di un recente volume di V. Neri, in AEVUM, 77 (fasc. 1) (2003), pp. 69-83. Sulla ratio del divieto cfr. V. MAROTTA, Multa, cit., p. 336.

[67] Cfr. F. DE ROBERTIS, La funzione della pena in diritto romano, Napoli, 1948, p. 177 s.

[68] Cfr. F. DE ROBERTIS, La funzione della pena, cit., pp. 181 e 183; B. SANTALUCIA, Metu coercendos esse homines putaverunt. Osservazioni sulla funzione della pena nell’età del Principato, in La funzione della pena in prospettiva storica e attuale, a cura di A. CALORE-A. SCIUMÉ, Milano, 2013, p.28.

[69] Il § 1 è riportato con lievi varianti anche in Ulp. libro octavo de off. proc. D. 47.14.1.pr. Sulla disposizione imperiale cfr. S. B. RODRĺGUEZ, Un rescripto de Adriano sobre el crimen de abigeatus¿ civiliter vel criminaliter agere?, in La responsabilidad civil. De Roma al derecho moderno: IV Congreso Internacional y VII Congreso Iberoamericano de Derecho Romano por Alfonso Murillo Villar, Burgos, 2001, pp. 95-104.

[70] Sulla damnatio ad metallum cfr. Ulp. libro nono de off. proc. D. 48.19.8.4-13. Sul tema cfr. F. SALERNO, «Ad metalla». Aspetti giuridici del lavoro in miniera, Napoli, 2003, passim; F. BOTTA, Recensione a F. Salerno, «Ad metalla» cit., in IURA, 54 (2003), pp. 295 ss.

[71] A. DELL’ORO, I libri de officio nella giurisprudenza romana, Milano, 1960, p.177.

[72] U. BRASIELLO, La repressione penale in diritto romano, Napoli, 1937, p. 382; ID., s.v. Abigeato, cit., p. 43; F. CANCELLI, voce Abigeato, cit., p. 75; V. MAROTTA, Ulpiano e l’impero, II, Napoli, 2004, p. 17; ID., Multa, cit., pp. 337 s.; B. SANTALUCIA, Diritto e processo penale, cit., p. 249 nt. 214; ID., Metu coercendos esse homines putaverunt, cit., p. 29 e nt. 40; I. RUGGIERO, Ricerche, cit., pp. 232 s.

[73] U. BRASIELLO, La repressione penale, cit., pp. 382 ss.

[74] TH. MOMMSEN, Römisches Strafrecht, cit., p. 776 nt. 1.

[75] S. PIETRINI, A proposito della sanzione, cit., p. 464 sulla scia di F. WIEAKER, Textstufen klassicher juristen, Gottingen, 1960, pp. 397 ss.

[76] S. PIETRINI, A proposito della sanzione, cit., pp. 465 ss.

[77] Sulla genuinità del passo cfr. H. BEIKIRCHER, Ad gladium (zu Coll. Mos. 11,7), in ZRG (RA), 135 (2018), pp. 603 ss.

[78] A. DELL’ORO, I libri de officio, cit., p. 177 nt. 282; V. MAROTTA, Ulpiano e l’impero, II, cit., p. 18.

[79] S. PIETRINI, A proposito della sanzione, cit., p. 456.

Ravizza Mariangela



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