Baldwin v. Roosevelt: le vene d’America. Una disputa giuslavoristica (1910)
Giacomo Alberto Donati*
Baldwin v. Roosevelt: le vene d’America.
Una disputa giuslavoristica (1910)**
English title:Baldwin v. Roosevelt: in the American Grain.
A Labor Law Dispute (1910)
DOI: 10.26350/18277942_000152
Sommario: 1. Concord dawn: Baldwin v. Roosevelt (1910) 2. Alla Court of Exchequer: le origini vittoriane di una dottrina di common law (1837) 2.1 Il giudice Shaw del Massachussets al timone della traversata atlantica (1842) 2.2 Tra dubbi inappagati ed esigenze di sistema giunge la correzione di rotta (1884) 2.3 Roosevelt decommissiona la fellow-servant rule: il Federal Employers’ Liability Act (1906) 3. Conclusioni: un approdo federalista
1. Concord dawn: Baldwin v. Roosevelt (1910)
È noto come i quasi otto anni di presidenza di Theodore Roosevelt (1858-1919) vadano annoverati tra i più rivoluzionari[1] per la storia di quell’alto ufficio: sia che si guardi a quel lasso di tempo come a quello che assistette alla nascita dell’imperialismo americano nelle Filippine o del primo grande successo di diplomazia internazionale della Casa Bianca, con la cessazione negoziata delle ostilità russo-nipponiche; come a quello del primo grande scontro tra big corporations e big government o, ancora, come a quello che diede avvio, su vasta scala, al movimento conservazionista, il giudizio degli storici appare oramai stabilmente unanime nel considerare l’ex governatore di New York, alla luce di varie ed approfondite prospettive[2], quale uno tra i cinque più influenti presidenti dell’intera storia degli Stati Uniti.
Eppure, il gusto rivoluzionario del cowboy delle Badlands non sembrò arrestarsi al termine naturale del suo secondo mandato presidenziale (1909): reduce da un trionfale safari che lo aveva condotto attraverso alcune delle più suggestive piste d’Africa, Roosevelt sembrò volersi cimentare, nel corso dei mesi centrali del 1910, nel rovesciamento di una delle più celebri massime del Tocqueville, quella secondo la quale non vi sarebbe una questione politica di un certo peso che, negli Stati Uniti, non trovi, prima o poi, il modo di prender forma entro i confini di un’azione giudiziale[3].
Lo scenario entro il quale il colonnello dei Rough Riders mosse le sue forze contro le conclusioni dell’intellettuale francese furono le elezioni di midterm del 1910: ansioso di sanare le ferite che laceravano l’anima del suo partito, Roosevelt propose, da maggiorente repubblicano e figura di spicco tra le fila del grand old party che fu di Lincoln, un programma elettorale di stampo marcatamente progressista (che avrebbe in realtà contribuito solo ad esacerbare le lotte intestine) ed i cui caratteri essenziali vennero esposti durante un discorso[4] di tardo agosto, tenuto ad Osawatomie (KS), nel quale, a partire da una concezione costituzionale che prevedeva la costruzione di un governo federale con poteri rafforzati – in grado di garantire tanto il rispetto delle libertà quanto dei bisogni minimi di ciascuno (ma avendo a mente la superiorità di questi su quelle, del welfare sulla property) –, venne proposto un ambizioso programma di riforme, le quali, però, ben difficilmente avrebbe potuto essere implementate con successo sino a che il potere giudiziario avesse persistito a considerare interesse primario la tutela della libertà su quella della protezione dei più deboli[5].
Come era prevedibile, tali considerazioni non impiegarono molto tempo a suscitare piccati rintuzzamenti: in proposito, emblematica appare, tra le controffensive più autorevoli, quella montata da Simeon E. Baldwin[6] (1840-1927), law professor a Yale, tra i fondatori dell’American Bar Association, già chief justice della Corte Suprema del Connecticut e, all’epoca della querelle[7] con Roosevelt, tra i papabili al governatorato del nutmeg State per il partito Democratico (che infine conquisterà, nonostante gli avversi sforzi del suo avversario). Il candidato, in particolare, non tralasciò di accusare l’ex presidente della mancanza di una preparazione specialistica in materia di diritto, necessaria, a suo avviso, per poter criticare le decisioni di un così augusto tribunale quale la Corte Suprema degli Stati Uniti[8]; in una successiva occasione (il 21 di ottobre), Baldwin prese di petto, da una diversa angolazione, la concezione federale[9] di Roosevelt, a suo dire poco rispettosa, nella sua invocata necessità di rafforzare il governo dell’Unione, dei diritti dei singoli Stati[10], allargando così il teatro di scontro al tema del ruolo più appropriato per la res publica nella dialettica delle relazioni industriali.
Dovendo incrociar le lame con un tale, provveduto avversario, Teddy scese nell’agone delle figure giuridiche prendendo rapidamente informazioni sul curriculum giudiziale di Baldwin e soffermando l’attenzione, in particolare, sul caso Hoxie v. New York, New Haven and Hartford Railroad Company[11] (del quale si avrà modo di parlare più nel dettaglio nel prosieguo della presente trattazione), allorquando l’allora chief justice della Corte Suprema del Connecticut aveva sostenuto l’applicabilità della fellow-servant rule (ossia di una dottrina di common law) a discapito del Federal Employers’ Liability Act[12] (ossia di uno statute del Congresso), specificamente varato nel corso della seconda amministrazione Roosevelt allo scopo di superare la testé menzionata dottrina. È contro queste posizioni che l’ex presidente scagliò tutta la propria forza retorica: il giorno seguente l’avanzata di Baldwin (22 ottobre), nel corso di un tour a supporto delle candidature repubblicane nel New England e sul proscenio di una Concord (N.H.) elettrizzata per la visita dell’illustre oratore, Roosevelt dichiarò come
to invoke outworn doctrines like that of the freedom of contract for the laborer, to say that he won’t claim any compensation if he is injured; to invoke the fellow-servant clause or any other of the outworn devices of capitalism before capitalism […]; to appeal to those doctrines is an outrage at this stage of progress[13].
Che il bersaglio originante l’intera polemica fosse il giudice Baldwin, l’ex governatore di New York lo chiarì, cristallinamente, al passaggio successivo[14]: che, in qualche modo, Roosevelt intendesse trasformare quella che egli stesso inquadrò come una questione squisitamente giuridica (avendo citato i due istituti della freedom of contract e della fellow-servant rule) in una prettamente politica (ribaltando così, in un certo senso, la massima tocquevilliana) era reso evidente dal suo invocare una più ampia prospettiva storica assieme alle necessità del tempo presente.
Ciò che qui, però, maggiormente colpisce l’attenzione dell’interprete non è tanto la contrapposizione tra una visione conservatrice o progressista dell’ordinamento delle relazioni industriali quanto il fatto che un istituto giuridico quale la fellow-servant rule si trovasse catapultato al centro del dibattito politico, additato quale ostacolo e pietra d’inciampo lungo il cammino del progresso e del pieno riconoscimento della dignità dei lavoratori: il fatto che tale dottrina sia ben nota alla storiografia d’oltreoceano[15] sembra possa autorizzare a ripercorrerne, pur entro i limiti qui imposti, le vicende (squisitamente giuridiche) che ne segnarono l’esistenza, dai primi vagiti presso la Court of Exchequer, passando per la traversata atlantica che l’avrebbe portata ad essere una delle principali eccezioni processuali proposte dalle corporations ferroviarie nel corso di vertenze aquiliane per giungere, infine, sino al suo sostanziale accantonamento[16] con il già menzionato Federal Employers’ Liability Act.
2. Alla Court of Exchequer: le origini vittoriane di una dottrina di common law (1837)
Fu il primo anno di regno della regina Vittoria (1837-1901) ad assistere alla nascita della regola che tante ramificate ripercussioni avrebbe avuto, negli anni successivi, di là dell’Atlantico: nel caso della fellow-servant rule, peraltro, sono note con precisione non solo le coordinate temporali (il Michaelmas term) e spaziali (la court of Exchequer o Exchequer of pleas[17]) ma, altresì, il nome del padre di essa. Nato James Scarlett (1766-1844), nella colonia di Jamaica, il futuro lord Abinger si rivelò in età precoce un abile barrister, capace di ascendere, dopo una lucrosa pratica professionale ed una fortunata carriera parlamentare – che lo vide passare dai Whig ai Tories nel corso del primo mandato da primo ministro del duca di Wellington (1830) –, al titolo di king’s counsel (1816) e quindi di chief baron of Exchequer (1834), elevato così alla dignità di pari con la baronia summenzionata[18].
In una decisione la cui cornice fattuale restituisce uno scorcio di vita evidentemente risalente ad un’epoca preindustriale, lord Abinger fu chiamato a dirimere, in Priestley v. Fowler[19], il caso del garzone (Priestley) di un macellaio (Fowler) che, nel trasportare alcune merci assieme ad un collega, si ritrovò, a seguito di un incidente occorso al carro utilizzato per le consegne, infortunato ad una gamba[20]. Sebbene la questione di diritto approdata all’Exchequer fosse incardinata intorno alla sussistenza dell’elemento soggettivo, da parte del datore di lavoro Fowler, di una negligenza (il sovraccarico del carro danneggiato) che avrebbe messo in pericolo l’incolumità del lavoratore Priestley[21], il lord chief baron, non trovando alcun «precedent for the present action» e potendo quindi fondare la sentenza «upon general principles»[22], preferì concentrare la propria attenzione[23] sulle possibili «consequences of a decision the one way or the other»[24].
Ricorrendo ad un argumentum ex absurdo, lord Abinger ragionò che fondare la responsabilità del datore di lavoro nei confronti del suo dipendente in un caso di tal fatta (anche, cioè, qualora non si fossero rinvenuti profili di negligenza riconducibili al primo) avrebbe significato estendere tale gravame «to an alarming extent»[25]: se il proprietario di un carro era responsabile nei confronti dei propri dipendenti anche in assenza di uno specifico elemento soggettivo di colpevolezza, allora egli, contemplò il lord chief baron, avrebbe dovuto essere responsabile anche della negligenza dell’artigiano che fabbricò il mezzo di trasporto, del conciatore che confezionò le briglie per i cavalli, dell’eventuale ubriachezza del cocchiere che avesse provocato un incidente. Infatti, riconoscere tale responsabilità avrebbe significato, nei successivi, ipotizzabili procedimenti, concedere un’azione di risarcimento del danno a favore del servitore che si fosse trovato ferito nella propria incolumità per profili di neglienza non direttamente imputabili al datore di lavoro ma bensì al carradore, al conciatore o al carrettiere. Così, continuò il giudice, le possibili evenienze di tale forma di vera e propria responsabilità oggettiva (strict liability) avrebbero potuto essere molteplici[26], quali ad esempio[27] quella della responsabilità del padrone verso uno dei suoi servitori a fronte di una malattia causata da un letto umido per la negligenza ora della cameriera, ora del cuoco che non aveva pulito attentamente le stoviglie di rame usate per cucinare, ora ancora del macellaio che avesse somministrato carne avariata alla servitù, ora in ultimo del costruttore che avesse commesso qualche errore nella progettazione delle fondamenta della casa padronale, rovinando questa sulle teste tanto del padrone quanto dei servitori ma rendendo solamente il primo responsabile nei confronti di questi[28].
L’evidente inopportunità o, meglio, la vera e propria «absurdity» delle ricadute di una stretta applicazione del principio respondeat superior, insomma, condusse il chief baron a formulare un pronunciamento già ex se gravido di possibili estensioni applicative (e di non poche incertezze interpretative):
but, in truth, the mere relation of the master and the servant never can imply an obligation on the part of the master to take more care of the servant than he may reasonably be expected to do of himself. He is, no doubt, bound to provide for the safety of his servant in the course of his employment, to the best of the judgement, information and belief. The servant is not bound to risk his safety in the service of his master, and may, if he thinks fit, decline any service in which he reasonably apprehends injury to himself[29].
Non è disagevole rilevare come lo standard della «reasonableness» venne da lord Abinger applicato sia alla cura che il datore di lavoro doveva utilizzare nell’assicurare al proprio dipendente le condizioni per uno svolgimento sicuro delle proprie mansioni sia all’attenzione che questi avrebbe dovuto esercitare nel rifiutarsi di correre rischi per la propria incolumità: a parere del giudice, anzi, il rifiuto di riconoscere in capo al lavoratore un’azione per rivalersi sul datore di lavoro avrebbe prodotto l’effetto benefico di stimolare una maggiore diligenza nell’espletamento delle proprie mansioni, oltre che una più accorta vigilanza degli «others engaged under the same master»[30].
Come si sarà notato, nello sbarrare la strada all’espansione di un principio percepito come potenzialmente assurdo (una responsabilità oggettiva illimitata), lord Abinger dissodò il terreno per la crescita di una dottrina di segno opposto ma altrettanto prognosticamente greve di applicazioni innumerevoli: la sostanziale irresponsabilità del datore di lavoro per danni subiti nel corso dello svolgimento delle proprie mansioni da uno dei propri dipendenti a seguito della negligenza di un suo collega.
2.1 Il giudice Shaw del Massachussets al timone della traversata atlantica (1842)
Se la fellow-servant rule aveva emesso il primo vagito nel corso dell’annus natalis del regno di Vittoria ad opera del ‘levatore’ lord Abinger, sarà l’inesorabile avanzata delle ferrovie d’America[31] a contemplarne la crescita e l’irrobustimento di là dell’oceano: anche in questo caso, è noto il nome del giurista autore di questa successiva evoluzione[32], il chief justice della Corte Suprema del Massachussets, Lemuel Shaw[33] (1781-1861). Come il chief baron, anche Shaw costruì la propria fortuna frequentando sia le aule di giustizia che le assemblee della politica: la nomina all’alta corte (1830) rappresentò infatti il coronamento di una carriera che, dagli studi ad Harvard e dall’ammissione al bar (1804), avrebbe condotto il futuro chief justice attraverso una fortunata pratica professionale e per entrambe le ali della legislatura bicamerale del suo Stato natale, il Massachussets, quale stimato membro del Federalist Party locale.
Sebbene non figuri tra le decisioni più celebri del suo trentennio alla guida della suprema corte del bay State, il caso Farwell v. Boston & Worchester Rail Road Company[34] merita di essere ripercorso attraverso i suoi principali snodi argomentativi proprio per l’autorevolezza che tale decisione assumerà nei decenni successivi. Tanto i protagonisti (l’attore impiegato presso una compagnia ferroviaria convenuta in giudizio) quanto i contorni della vicenda avanti il giudice Shaw, peraltro, riusciranno vieppiù familiari al lettore (quali circostanze per certi versi archetipiche) man mano che si proseguirà nell’esame di questo contributo: un macchinista, di nome Nicholas Farwell, stava conducendo una motrice della propria compagnia ferroviaria allorché il treno deragliò a causa della negligenza di un proprio collega (un supervisore di stazione), il quale aveva mancato di azionare tempestivamente i meccanismi di scambio, mandando il convoglio fuori binari e compromettendo così irrimediabilmente l’integrità della mano destra del Farwell[35].
Nel cercare ristoro, la difesa di quest’ultimo ammise l’importanza del precedente Priestley (e, conseguentemente, l’inapplicabilità del respondeat superior) ma domandò che il giudice distinguesse le due situazioni fattuali: nel caso di specie, infatti, i due fellow servants operavano in «different departments of duty»[36], ad una certa distanza l’uno dall’altro e senza che le azioni dell’uno potessero direttamente influenzare la condotta (e quindi l’integrità fisica) altrui (a differenza degli eventi visualizzati in Priestley, ove, come si ricorderà, garzone e conducente del carretto potevano provvedere efficacemente alla propria incolumità, avendo cognizione di quanto accadeva de visu, dal momento che lavoravano, per usare la locuzione proposta dalla difesa del Farwell, «in the same department of duty»[37]). Una volta operata tale distinzione, la tesi di parte ricorrente mirava quindi a far emergere un’implicita responsabilità, di origine contrattuale ed in capo al datore di lavoro, per ogni danno occorso ad uno dei propri dipendenti ed imputabile alla negligenza di un collega egualmente impiegato presso di lui[38] (ma, lo si sottolinea, in una diversa collocazione organizzativa, dovendo distinguere dal caso Priestley). Per ciò che riguarda parte convenuta, invece, le eccezioni si limitarono al tentativo di negare ogni validità alla proposta distinzione, domandando, allo stesso tempo, una piena applicazione delle conclusioni offerte cinque anni prima da lord Abinger.
Sebbene le allegazioni delle parti autorizzassero una decisione limitata all’applicazione del precedente britannico (magari distinguendo gli elementi fattuali più o meno rispondenti al caso de quo), anche il chief justice (come già il chief baron) preferì enunciare alcuni principi di carattere generale, rammentando come, di regola,
who engages in the employment of another for the performance of specified duties and services, for compensation, takes upon himself the natural and ordinary risks and perils incident to the performance of such services[39].
Tale impostazione, ancorata ad un concetto strettamente personale di assunzione del rischio[40], poteva appoggiarsi, peraltro, sia su solide argomentazioni di dottrina giuridica che, più latamente, di saggia politica del diritto; per quanto riguarda il primo versante, enunciare una responsabilità generale del datore di lavoro per ogni danno riconducibile ad un suo dipendente avrebbe significato (nell’impostazione testé accennata) postulare proprio il punto demonstrandum:
to say that the master shall be responsible because the damage is caused by his agents, is assuming the very point which remains to be proved[41].
Le argomentazioni più strettamente dottrinali del giudice Shaw terminarono, sul punto, rammentando un principio tratto dal diritto marittimo delle assicurazioni, col quale si prevedeva che gli assicuranti un certo carico navale non potessero esimersi dal ristorare il proprietario del natante anche se i danni fossero stati conseguenza della negligenza degli ufficiali o dei marinai impiegati dall’armatore: un caso, concluse Shaw, atto a dimostrare come non sempre il preponente dovesse sopportare un danno derivante della condotta impropria dei propri agenti[42].
Per quel che riguarda il secondo versante (quello dello ius condendum), la Corte Suprema del bay State parve riecheggiare alcune idee dell’Exchequer, sostenendo come non potesse esistere un miglior giudice dei possibili rischi sul luogo di lavoro del lavoratore medesimo e come, conseguentemente, questi potesse ragionevolmente rifiutarsi di perfezionare o proseguire un rapporto giuridico valutato come eccessivamente pericoloso. In altri termini, ogni lavoratore avrebbe dovuto essere il guardiano del proprio collega, contribuendo così a diminuire sensibilmente qualsiasi occasione di sinistro (auspicabile vigilanza avverso la quale avrebbe rappresentato un considerevole disincentivo la consapevolezza di poter sempre contare su di un risarcimento datoriale): il rischio, in sostanza, doveva ricadere «upon those who can best guard against it»[43].
Le circostanze fattuali del caso in esame, così, potevano sussumersi convenientemente entro il reticolato tracciato da questi principi: non essendo possibile ricondurre alcun profilo doloso («wilful wrong …») o colposo («… or actual negligence»[44]) in capo alla Boston & Worchester e non potendo l’eccezione dei different departments trovare accoglimento (troppo soggetta ad infinite variabili fattuali per poter costituire solido materiale da costruzione per principi generali applicabili al di fuori del caso di specie[45] e pur sempre fondato sul tuttora dimostrando principio della responsabilità datoriale[46]), il peso dell’infortunio doveva ricadere interamente su colui che ne era stato danneggiato (o tuttalpiù su colui che ne era stato il responsabile materiale, ossia il collega di Farwell); doveva, insomma, «rest where it first fell»[47].
2.2 Tra dubbi inappagati ed esigenze di sistema giunge la correzione di rotta (1884)
I principi generali delineati autorevolmente dal giudice Shaw nella propria sentenza incontrarono l’assenso della dottrina che, negli anni successivi a Farwell, tentò di dare una veste compiuta, più in generale, all’intero sistema della responsabilità civile (tort law): nell’autorevole esposizione che Oliver Wendell Holmes Jr.[48] (1841-1935) approntò col suo fortunato The Common Law[49] (1881), si rinvengono tutte le massime testé esaminate, a partire dal ruolo centrale della negligenza nell’assegnazione della responsabilità[50], passando financo per la medesima formulazione verbale allorché trattò dell’inevitabile ricaduta sull’infortunato qualora il danno fosse conseguenza di un errore inevitabile – esente, cioè, da dolo o colpa («the general principle of our law is that loss from accident must lie where it falls»[51]) – ed arrivando a concludere, con argomenti non troppo distanti da quelli dei due giudici già citati, come avrebbe costituito una cattiva politica di diritto quella che avesse posto in capo a chi non aveva alcuna colpa le conseguenze di un evento dannoso:
unless my act is of a nature to threaten others […] it is no more justifiable to make me indemnify my neighbour against the consequences than […] to compel me to insure him against lightning[52].
Come si sarà notato, le stringenti argomentazioni di Holmes non scioglievano il quesito, sempre più dolorosamente avvertito in una società a rapida industrializzazione come gli Stati Uniti appena usciti dalla Guerra Civile, del damnum absque iniuria, di quel danno che, in mancanza di alcun profilo di responsabilità dolosa o colposa da parte di un più capiente soggetto economico (il datore di lavoro o, nell’esempio del justice di Boston, la società civile), lasciava l’infortunato senza ristoro.
Di tale insoddisfazione rese chiara testimonianza una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, con la quale una stretta maggioranza di giudici federali (5-4) aveva inteso limitare la portata della fellow-servant rule, tracciando così un sentiero ulteriore per le pretese risarcitorie del lavoratore infortunato nei confronti del datore: nell’aprire questa pista, l’estensore della decisione, il giudice Stephen Johnson Field[53] (1816-1899), schierò, oltre alle falangi della propria celebre facondia, una riserva di forze tratte dall’esame comparato della coeva giurisprudenza d’oltreoceano.
Che, del resto, Field sia stato uno tra i più formidabili e culturalmente provveduti justices mai sedutisi sugli scranni all’epoca ancora ospitati nelle aule del Campidoglio è dato saldamente acquisito agli studi storici: solitamente riguardato come un fautore degli interessi delle grandi corporations, la sua opinione[54] a favore dell’infortunato Ross può, da questo punto di vista, rivestire un particolare interesse, anche per un corretto inquadramento della sua filosofia giudiziale[55]. Proveniente da una famiglia che lo provvide non solo di un’eccellente educazione ma anche di termini di raffronto personale esigenti (suo fratello David fu tra i pionieri della codificazione processuale civile mentre Cyrus tra gli imprenditori che gettarono i primi cavi telegrafici transoceanici), il quarto dei cinque giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti ad essere nominato da Abraham Lincoln principiò il proprio cursus honorum praticando l’avvocatura a New York (1841), assieme a David: fu poi uno tra i molti giovani ambiziosi che risposero (1849) al canto delle sirene che chiamavano ad Ovest, in specie alla corsa all’oro californiano. Di là, dapprima col titolo di alcalde e poi quale membro del corpo legislativo, Field contribuì alla stesura della costituzione del nuovo Stato, oltre che all’attuazione di alcune delle idee codificatorie di suo fratello in materia civile, sostanziale e processuale: nel 1857 arrivò poi l’elezione a membro della corte suprema statale e, quattro anni dopo, quella a chief justice. Rinomato tanto per la sua preparazione culturale quanto per la a volte eccessiva indipendenza di pensiero (oltre che per i modi poco urbani, da frontiersman[56]), Field ascese, nel 1863, al decimo (temporaneo) scranno della Corte Suprema, straordinariamente istituito dal Congresso in quell’anno, contribuendo ai lavori del tribunale con il proprio stile giudiziale tenace, chiaro ed ambizioso[57] (nonché, di sovente, tetragono: si conta circa un terzo di suoi dissensi tra le sentenze alle quali diede il proprio contributo[58]).
Il caso che qui preme più esaminare giunse all’attenzione dei giudici federali a più di vent’anni dell’ingresso di Field nel novero dei justices: i suoi fatti salienti sono oramai, nei tratti essenziali, noti al lettore. Un macchinista di nome Ross, dipendente della Chicago, Milwaukee & St. Paul Railway Company, aveva riportato gravi ferite, di natura permanente, a seguito della collisione del treno merci sul quale era impiegato con un altro mezzo appartenente alla medesima compagnia: il lavoratore infortunato domandava ristoro al datore di lavoro, il quale si difendeva eccependo l’applicazione della fellow-servant rule, risultando esso impregiudicato da negligenza alcuna e dal momento che, anzi, un comportamento colposo era imputabile ad un collega del Ross, McClintock, conducente effettivo del treno merci e colpevole di non aver notificato tempestivamente a quello la presenza sulla medesima linea del secondo treno[59].
A partire da queste circostanze fattuali, Field dispiegò una serie di argomentazioni tese a distinguere il caso di Ross da altri precedentemente giudicati: acclarato, infatti, l’evidente profilo di colpevolezza dei colleghi (gross negligence), rimaneva da stabilire se questi potessero essere considerati fellow-servants, di modo da tenere esente la compagnia ferroviaria da qualsiasi responsabilità risarcitoria[60].
Anzitutto, l’ex chief justice rammentò, da un lato, la validità del principio dell’ordinary risk che il lavoratore assume ogniqualvolta, in cambio del proprio salario, egli consente di svolgere mansioni potenzialmente lesive della propria incolumità personale: conscio di tali rischi, egli non potrà rivalersi successivamente sul proprio datore di lavoro per qualsivoglia infortunio. Salvaguardato tale principio, Field prese di petto, però, quell’argomento qui già definito di buona politica del diritto, secondo il quale già lord Abinger aveva sostenuto l’opportunità di esentare il master da ogni responsabilità per gli infortuni causati da un fellow-servant, asseritamente al fine di suscitare nei propri lavoratori una maggior accortezza: i dubbi proposti in Ross appaiono, anche ad occhi contemporanei, a dir poco condivisibili, avendo qui sostenuto la corte come più che la speranza di poter essere risarciti da parte datrice avrebbe potuto il timore di un danno alla propria integrità fisica instillare il ragionevole grado di cautela. In altre parole, a suscitare una salutare ed auspicabile prudenza verso la propria integrità fisica non serve il ricorso ad un istituto giuridico: il buon senso è d’avanzo[61].
Pur impostata la questione nell’alveo del principio dell’assumption of risk, il justice rammentò come, per andare esente da responsabilità, il datore doveva anche non avere concorso negligentemente all’infortunio (contributory negligence), ossia, qualora si stesse trattando (come nel caso de quo) di responsabilità personali nel contesto di organizzazioni giuridiche a struttura altamente complessa quale una compagnia ferroviaria, non aver mancato di fornire i propri dipendenti di ogni strumento adatto allo svolgimento delle proprie mansioni e non aver selezionato o continuato ad impiegare personale inadeguato[62].
Nel descrivere più minutamente (e, conseguentemente, limitare) i confini di tale esenzione, Field non mancò di tenere nella debita considerazione la sentenza emanata da Shaw più di quarant’anni prima: «the opinion in this case, which was delivered by Chief Justice Shaw, has exerted great influence in controlling the course of decisions in this country»[63]. A questo punto, però, egli inserì un’ulteriore distinzione (indirettamente rifiutata, invece, dal chief justice del Massachusetts): a parere della corte suprema federale, infatti, la fellow-servant rule implicava necessariamente che il lavoratore infortunato ed il collega negligente fossero occupati nel medesimo segmento produttivo (common employment), proponendosi così un ulteriore quesito:
what is essential to render the service in which different persons are engaged a common employment?[64]
In una chiara dimostrazione della propria erudizione e vastità di letture, Field non nascose come questo punto risultasse particolarmente controverso, tanto presso le corti del continente americano quanto presso quelle oltreoceano: nel 1858, ad esempio, la House of Lords[65], per bocca del lord chancellor, rimarcò come «it is necessary […] in each particular case to ascertain whether the servants are fellow-laborers in the same work» e ciò in ragione di quel principio dell’assunzione del rischio implicito nel contratto di lavoro, potendo un lavoratore ragionevolmente incorrere solo in quei pericoli direttamente implicati nell’attività lavorativa propria e dei colleghi e non certo in «those which may happen to him on occasions foreign to his employment»[66]. Da questo punto di vista, il giudice federale aveva ben presente come, tanto presso le corti inglesi quanto quelle americane, esistesse un ben radicato indirizzo esegetico che visualizzava nel concetto di common employment una categoria molto ampia, tale da ricomprendere anche, ad esempio, il «foreman, manager or superintendent of the work»[67]: per ciò che concerneva le ferrovie, sarebbe stato arduo limitare tale indirizzo in modo da poter concludere che un qualsiasi lavoratore addetto fattivamente alla conduzione di materiale ferroviario (come nel caso di McClintock) non fosse un fellow-servant di un altro ivi parimenti impiegato[68] (come nel caso di Ross).
Ciononostante, Field sottolineò come, «in this country», diverse importanti corti avessero voluto restringere la portata dell’esenzione riconosciuta ai datori dalla rule di origine vittoriana e ciò anche se i due servants risultavano impiegati nel medesimo segmento produttivo[69].
Pur protestando di non voler enunciare principi generali validi per la soluzione di casi futuri, il peso della giurisprudenza (potenzialmente) avversa appena citata obbligò Field a ricorrere ad un ragionamento fondato su persuasivi argomenti dottrinali e giurisprudenziali: a parere di questi, la perspicua distinzione da operare in casi simili si aveva tra, da un lato, chi era un semplice impiegato (colui, cioè, non investito di alcun potere di supervisione nei confronti degli altri lavoratori) e, dall’altro lato, chi (pur servant anch’egli) invece era un vero e proprio agente della compagnia, ammantato di penetranti poteri di controllo, direzione e supervisione. Da questo punto di vista, il conducente di un treno si collocava in una posizione ben diversa da quella di un facchino, di un addetto ai freni, di un macchinista o di qualsiasi altro impiegato nella felice gestione di materiale ferroviario: questi, Field dichiarò di ben sapere, «has entire control and management of the train to which he is assigned»» e non può quindi, in nessun modo, essere ricompreso nella definizione di «fellow servant with the firemen, the brakemen, the porters, and the engineer«[70].
A sostegno di tale esegesi, l’opinione di maggioranza si rifece sia ad insegnamenti dottrinali (su tutti, quello autorevole del giurista ed ecclesiastico Francis Wharton e del suo fortunato trattato[71] sui profili di responsabilità soggettiva in civilibus, cui Field ricorse per sostenere che la negligenza degli agenti rappresentanti una persona giuridica genera in capo ad essa doveri risarcitori, pena la sostanziale irresponsabilità di quest’ultima[72]) che a pronunce già emanate da corti statali (tra le quali spiccano quelle della Court of Appeals di New York[73] e della Supreme Court dell’Ohio[74]): giunto poi il momento di applicare tale interpretazione al caso di specie, e quindi alla risoluzione del quesito se il conducente di un treno, ammantato dei poteri investiti in McClintock dalla compagnia ferroviaria, potesse essere considerato un fellow-servant del macchinista infortunato Ross, la Corte non ebbe dubbi, sottolineando come
the conductor and engineer, though both employees, were not fellow-servants in the sense in which that term is used in the decisions
e come, di conseguenza,
the former was the representative of the company, standing in its place and stead in the running of the train, and that the latter was, in that particular, his subordinate, and that for the former’s negligence, by which the latter was injured, the company was responsible[75].
Nella stringatissima dissenting opinion, i quattro giudici di minoranza si limitarono ad esprimere il proprio convincimento che McClintock e Ross fossero fellow-servants impiegati presso la medesima compagnia ma anche che affermare il contrario avrebbe significato allontanarsi significativamente da un precedente assai rivelante, che sino a quel momento aveva regolamentato le relazioni industriali in fatto di responsabilità civile del datore di lavoro[76].
2.3 Roosevelt decommissiona la fellow-servant rule: il Federal Employers’ Liability Act (1906)
Solamente nove anni più tardi, la Corte Suprema mutò giurisprudenza: nonostante il dotto e pugnace dissenso dell’autore di Ross e di quello, più contenuto (ma non per questo meno rilevante), del neo chief justice Melville W. Fuller[77] (1833-1910), il giudice Brewer, per la maggioranza, ritornò ad un’ampia definizione di fellow-servant, sottolineando la necessità di dotare il paese di uno standard normativo chiaro ed universale, applicabile a tutto il mercato comune (e ciò specialmente alla luce del fatto che la rete ferroviaria rappresentava «the main channels through which this interstate commerce passes»[78]). A nulla valsero le argomentazioni di un oramai anziano Field, il quale protestava contro la federalizzazione di una regola di common law quando già le corti di uno Stato avevano già avuto modo di pronunciarsi sul punto (si rammenterà la sentenza Keary della Corte Suprema dell’Ohio, precedentemente citata)[79].
Come sottolineato da White, i continui tormenti della giurisprudenza intorno a questo principio vittoriano erano causati da un problema di ordine concretissimo: come giustificare, anche alla luce dei più elementari canoni di umanità[80], una soluzione che lasciava nudo il lavoratore che, non per propria negligenza, si fosse trovato infortunato nell’esercizio delle proprie mansioni[81]? Perché, insomma, se la mancanza di negligenza del datore doveva rivestire un peso nell’allocazione della responsabilità, un danno comunque conseguenza di una condotta colposa doveva gravare interamente su chi colpa non ne aveva alcuna?
Se alcuni Stati funsero certamente da apripista[82], è indubitabile che il presidente Roosevelt conquistò l’alloro del vincitore nella lotta per l’accantonamento della fellow-servant rule: i primi movimenti di forze poterono essere apprezzati dal più vasto pubblico già in alcuni passaggi del suo quarto discorso sullo stato dell’Unione (1904), allorché egli ribadì la propria convinzione circa la necessità di una legge federale che qualificasse come responsabili i datori di lavoro per gli infortuni occorsi ai propri dipendenti:
in my Message to the Fifty-seventh Congress […] I urged the passage of an employer's liability law […]. I now renew that recommendation, and further recommend that the Congress appoint a commission to make a comprehensive study of employer's liability with the view of extending the provisions of a great and constitutional law to all employments within the scope of Federal power[83].
Con soddisfazione del cowboy delle Badlands, il Congresso consegnò alla Casa Bianca, per la firma e la promulgazione, una prima versione[84] del Federal Employers’ Liability Act (tuttora vigente nelle sue linee fondamentali) nel 1906: le parti che qui più interessano si rinvengono alla sezione prima e seconda dello statute, ove, da un lato, si qualifica come responsabile il datore di lavoro «for all damages which may result from the negligence of any of its officers, agents, or employees»[85] e, dall’altro, si stabilisce come il concorso negligente del lavoratore infortunato non rappresenti impedimento[86] ad una domanda di risarcimento del danno (pur proporzionato alla gravità del concorso colposo) nei confronti del datore. Di tutta evidenza come queste due previsioni affondassero la lama nel cuore delle argomentazioni che, sin dalle parole di lord Abinger, avevano condizionato la vigenza della fellow-servant rule: il Congresso, infatti, stabiliva, per i lavoratori delle ferrovie impegnate nel commercio tra Stati, che tale eccezione non poteva essere più proposta avverso le rivendicazioni risarcitorie di un lavoratore infortunatosi a seguito della negligenza di un proprio collega, spianando così la strada per il superamento di quell’istituto in questo settore economico di importanza strategica.
Potrà ora apparire più chiara, al termine di questa rapida traversata atlantica, dalle aule della Court of Exchequer sino a quelle del Campidoglio, quanto personalmente si fosse sentito chiamato in causa Roosevelt nel confronto con il giudice Baldwin: quest’ultimo, come già rammentato, pur personalmente non contrario a riforme che garantissero maggiori tutele ai lavoratori, aveva avuto modo, quale chief justice della Corte Supreme del Connecticut, di vagliare la costituzionalità del Federal Employers’ Liability Act in Hoxie (1909), criticandolo sotto un duplice profilo.
Anzitutto, rilevando come il Congresso avesse inteso fornire ai lavoratori un’azione risarcitoria non contemplata dalla «general American common law»[87], il professore di Yale interpretò restrittivamente il disposto legislativo, sostenendone l’applicabilità nelle sole corti federali e non in quelle statali; tale limitazione si basava su due considerazioni, ossia, da un lato, la mancanza di un’esplicita disposizione in tal senso da parte dello statute ed il fatto che il Connecticut non aveva abolito la fellow-servant rule:
nothing short of express provisions or necessary implications in the language of an Act of Congress could suffice to force upon a State court the exercise of a jurisdiction so incompatible with the legislation and practice which constitute its ordinary and natural rules of action[88].
Dall’altro lato, invece, Baldwin proiettò dubbi sulla costituzionalità stessa della legge, ponendo quesiti relativi al rapporto tra sovranità degli Stati e sovranità dell’Unione; su tutti: rientra nei poteri di regolamentazione del mercato comune del Congresso accollare una responsabilità di natura civile in capo al datore di lavoro che non ha materialmente concorso all’evento dannoso con alcun profilo di negligenza[89]? A parere del chief justice, se anche l’Unione ha il potere di regolare le attività lavorative interstatali, tale potere non si estenderebbe ai rapporti di lavoro intrastatali, i quali rimarrebbero disciplinati unicamente secondo le leggi che ogni Stato riterrà più opportuno emanare: da questo punto di vista, il Federal Employers’ Liability Act avrebbe ecceduto i poteri conferiti all’Unione dalla commerce clause[90] della Costituzione e sarebbe stato quindi «wholly void»[91], nullo.
La Corte Suprema, tre anni dopo Hoxie (sgonfiatasi, quindi, la querelle Baldwin-Roosevelt), cassò entrambe le argomentazioni, pronunciandosi intorno ad una serie di casi (noti collettivamente sotto il titolo di Second Employers’ Liability Cases[92]) che vedevano per la quasi totalità coinvolta la medesima compagnia ferroviaria che aveva visto accolte le proprie richieste da Baldwin: per quel che riguarda il duplice nucleo di Hoxie (pur, lo si sottolinea, non chiamando direttamente in causa il giurista, gli argomenti fulminati furono precisamente quelli proposti dal chief justice), una Corte unanime dichiarò, da un lato, come un emendamento successivo a quella vertenza avesse esplicitamente chiarito che le corti federali potevano reclamare la propria cognizione sulla categoria di casi ivi contemplati «concurrent with that of the courts of the several States»[93] e, dall’altro, come sin dai tempi di McCulloch[94] (1819) era vigente il principio della supremazia della legge federale, negli ambiti a questa devoluti, sulle leggi statali:
the Government of the United States, then, though limited in its powers, is supreme, and its laws, when made in pursuance of the Constitution, form the supreme law of the land, anything in the Constitution or laws of any State to the contrary notwithstanding[95].
Sotto questo particolare profilo, il fatto che alcuni Stati avessero deciso di regolamentare le relazioni industriali sia inter che intrastatali (premesso che gli atti del Congresso possono trovare applicazione solamente nei confronti delle prime, a mente della già rammentata commerce clause) nulla valeva a scalfire i poteri dell’Unione: ora che il governo federale aveva deciso di agire, le leggi di questo in materia di fellow-servant rule andavano preferite, nell’ambito di competenza, a quelle dei singoli Stati[96].
3. Conclusioni: un approdo federalista
Come si sarà notato, pur prevalendo, infine, nella propria personale lotta contro la fellow-servant rule, Teddy non riuscì a rivoluzionare anche la massima di Tocqueville con la quale si sono aperte le presenti riflessioni: la questione della sopravvivenza della massima vittoriana nell’ordinamento giuridico statunitense rimase, in definitiva, appannaggio dei giudici, incontrando il proprio destino ultimo in un’aula di tribunale.
Nel corso delle vicende (giurisprudenziali ma non solo) che la condussero da un capo all’altro dell’Atlantico, l’eccezione processuale qui esaminata ha offerto l’occasione di riportare alla luce alcuni caratteri fondamentali dell’agire e del divenire storico dell’ordinamento di common law: si desidera qui soffermare l’attenzione, per quanto consentito dalla sommarietà del presente contributo, su almeno tre di essi.
Innanzitutto, il rapporto tra politica e diritto: la tentazione (o il tentativo vero e proprio, in alcuni casi) di partir alla ricerca, nelle sentenze dei giudici, di motivazioni politiche altrimenti improponibili[97], agende segrete[98] o taciute convinzioni[99] ha incontrato un ostacolo non sottovalutabile tanto nel contegno giudiziale e non di Simeon Baldwin quanto nella giurisprudenza di Stephen Field sopra il punto controverso. Se si confrontano, da un lato, le argomentazioni (di stampo strettamente costituzionale) proposte dal primo in Hoxie (relative all’intelaiatura federale degli Stati Uniti e dunque al rapporto tra Unione e Stati) con il conseguente, coerente suo emanare, una volta divenuto governatore, una legislazione a tutela delle ragioni dei lavoratori infortunati sul luogo di lavoro e, dall’altro, quelle del secondo, circa la necessità di ricondurre entro profili di responsabilità anche la semplice (ma negligente, specie in una società in rapida industrializzazione) scelta di un agente non all’altezza dell’alto compito affidatogli di supervisione dei propri colleghi, con la nomea di campione dei privilegi delle big corps a questi attribuita in anni di studi storiografici, appare chiaro come entrambi questi giuristi non possano essere sussunti, senza imbarazzo, entro una comoda categoria quale quella (politologica?) di conservatori o quella (economica?) di liberisti. In effetti, pare ancora di strettissima attualità, per una corretta comprensione del rapporto tra società civile e società giuridica, l’avvertimento che White premise, alcuni anni orsono, al suo opus sul tort law circa la primaria importanza della dottrina giuridica sopra i mutamenti economici o sociali: pur propiziata, favorita e, in definitiva, necessitata da questi ultimi, l’evoluzione di un ordinamento giuridico non è determinata esclusivamente da ragioni economiche, politiche o sociali ma deve a «changes in jurisprudential thought»[100] tanto quanto ai cambiamenti della realtà che li hanno stimolati.
In secondo luogo, si è avuto modo di rinvenire nel profilo soggettivo della negligenza il vero e proprio arco di volta dell’intera struttura della responsabilità civile dell’era vittoriana: oltre alla scoperta diffidenza nei confronti dell’istituto della responsabilità oggettiva, presente tanto nelle conclusioni di lord Abinger quanto nelle ricostruzioni di Holmes, è specialmente nel tentativo ricostruttivo di Field che la primazia della soggettività brillò evidente, allorquando, per giustificare una forma di responsabilità assai prossima (se non perfettamente sovrapponibile) alla strict liability, il giudice non poté che invocare, pur sempre ed ancora, il rinvenimento di un profilo personale di responsabilità, ossia di una negligenza del datore di lavoro mediata dalla e nella infelice scelta dei propri rappresentanti.
Infine, pare necessario rilevare come, pur principiando da una questione civile e giuslavoristica di stretta attualità, il dibattito intorno alla fellow-servant rule sia approdato infine in una rada di natura ben diversa: se, infatti, tanto nel teatro delle aule giudiziarie quanto nell’agone dell’opinione pubblica, la disputa intorno a questo istituto concernette e lo stato del sistema di responsabilità civile e il ruolo più appropriato per la res publica nella dialettica delle relazioni industriali, è altrettanto innegabile che a confrontarsi furono, in definitiva, due concezioni profondamente antitetiche del ruolo del diritto in un ordinamento federale, eternamente in tensione tra centralismo e federalismo, tra prerogative del governo centrale e sovranità degli Stati, tra accentramento e sussidiarietà. In proposito, non sembra di poter citare parole più efficaci di quelle di John Adams, secondo il quale, a proposito della necessità, sempre presente, di definire i confini tra poteri federali e statali, «our Constitution [is] a game of leapfrog»[101].
Abstract:When Congress authorized a limitation of the common law doctrine of fellow-servant rule with the enactment of the first Employers’ Liability Act (1906), lawsuits were immediately filed by corporations to test the reach of that statute. At stake was not only the survival of a settled regulation but the very possibility of compensation for injured employees and, more generally, the definition of proper boundaries for federal intervention in the strategic industry of railroads. All of these issues appear to be aptly incarnated in the controversy which saw judge Simeon E. Baldwin of Connecticut publicly confront ex-president Theodore Roosevelt in a pugnacious exchange of ideas: this paper wishes not only to summarize the destiny of this doctrine, the struggle for just compensation for injured workers and the fight between two intellectual giants of their time but also to expound the effects that a federal intervention in industrial relationships might have in the context of a multilevel common market of labor.
Keywords: Theodore Roosevelt - Tort Law - Fellow-Servant Rule – Federalism - Labor Law
* Università degli Studi di Pavia (giacomoalberto.donati@unipv.it).
** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] Una volta succeduto allo sventurato William McKinley (1843-1901), ‘Teddy’ Roosevelt si imbarcò in una vigorosa campagna di riforme, le quali coinvolsero non solo l’istituto della presidenza ma l’intero governo federale: da questo punto di vista, un autorevole parere come quello di Lewis Gould definisce il quasi ottennio del cowboy delle Badlands «the most exciting of the twentieth-century», rammentando come «Roosevelt was more than an important contributor to the evolution of the modern institution of the presidency» e come, diffatti, egli «personalized the office in a way that had not occurred since Andrew Jackson» (L. L. Gould, The Presidency of Theodore Roosevelt, Lawrence (KS), 2011, p. ix). Per alcuni riferimenti bibliografici essenziali, si vogliono qui rammentare perlomeno: J. M. Thompson, Great Power Rising. Theodore Roosevelt and the Politics of US Foreign Policy, Oxford, 2019; E. Morris, Colonel Roosevelt, New York, 2010; D. Brinkley, The Wilderness Warrior. Theodore Roosevelt and the Crusade for America, New York, 2009; L. L. Gould, Grand Old Party. A History of the Republicans, Oxford, 2003, pp. 116-197; E. Morris, Theodore Rex, New York, 2001; H. W. Brands, T.R. The Last Romantic, New York, 1997; D. G. McCullough, Mornings on Horseback, New York, 1982; E. Morris, The Rise of Theodore Roosevelt, New York, 1979; M. Keller (a cura di), Theodore Roosevelt. A Profile, New York, 1967; G. E. Mowry, The Era of Theodore Roosevelt and the Birth of Modern America. 1900-1912, New York, 1962; W. H. Harbaugh, Power and Responsibility. The Life and Times of Theodore Roosevelt, New York, 1961; J. M. Blum, The Republican Roosevelt, Cambridge (MA), 1954; H. F. Pringle, Theodore Roosevelt. A Biography, New York, 1931. Per ciò che concerne la bibliografia di Roosevelt, sono perlomeno da prendere in considerazione E. Morison (a cura di), The Letters of Theodore Roosevelt, Cambridge (MA), 1951-1954 e T. Roosevelt, The Works of Theodore Roosevelt, New York, 1926.
[2] In un sondaggio condotto dal Siena College (NY) (i cui dati sono liberamente accessibili a questo indirizzo: https://scri.siena.edu/2022/06/22/american-presidents-greatest-and-worst/ [data di accesso: 07.IX.2023]), ad esempio, i singoli titolari dell’ufficio vengono valutati da esperti sulla base di venti parametri: dal 1982 in poi (ossia dall’anno nel quale il Siena College inaugurò questa classifica), il colonnello dei Rough Riders ha sempre raggiunto la vetta dei primi cinque classificati.
[3] Il celebre passo del De la Démocratie può trovarsi in A. de Tocqueville, De la Démocratie en Amérique, Paris, 1836, t. II, p. 173: «il n’est presque pas de question politique, aux Etats-Unis, qui ne se résolve tôt ou tard en question judiciaire».
[4] Intitolato New Nationalism (locuzione poi atta a significare anche la piattaforma elettorale progressista presentatasi alle elezioni del 1912) e reperibile in L. Auchincloss (ed.), Theodore Roosevelt. Letters and Speeches, New York, 2004.
[5] Il passaggio rilevante è ripreso anche in R. Hofstadter (ed.), The Progressive Movement. 1900-1915, Englewood Cliffs (NJ), 1963, p. 125: «this New Nationalism regards the executive power as the steward of public welfare. It demands of the judiciary that it shall be interested primarily in human welfare rather than in property».
[6] Sul giurista del Connecticut si rimanda a C. C. Goetsch, Essays on Simeon E. Baldwin, Hartford (CT), 1981 e a F. H. Jackson, Simeon Eben Baldwin. Lawyer, Social Scientist, Statesman, New York, 1955.
[7] I cui connotati fondamentali qui ripercorsi son stati ricostruiti (anche avvalendosi di materiale inedito) in C. C. Goetsch, Simeon E. Baldwin, Theodore Roosevelt and their 1910-1911 controversy over the Federal Employers’ Liability Act, in Theodore Roosevelt Association Journal 6 (1980), pp. 2-28.
[8] Le parole di Baldwin son riprese in Goetsch, Simeon E. Baldwin, Theodore Roosevelt cit., p. 17: «so far as I’m aware, ex-President Roosevelt has had no special training to qualify him for undertaking such a task, and I am confident that the general body of American lawyers is of the opinion that in the cases to which he particularly referred the Court was right in its conclusion». La posizione di Baldwin circa le scarse competenze giuridiche di Roosevelt è revocata in dubbio da Morris, Colonel Roosevelt cit., pp. 616-617, il quale fonda le proprie conclusioni su R. B. Charles, Theodore Roosevelt, the Lawyer, in N. A. Naylor, D. Brinkley, J. Allen Gable (edd.), Theodore Roosevelt. Many-Sided American, Interlaken (NY), 1992, pp. 121-139.
[9] Il lemma ‘federalismo’ è qui utilizzato, in generale, nell’accezione proposta da D. J. Elazar, Exploring Federalism, Tuscaloosa (AL) and London, 1991, pp. 5-6: «federalism has to do with the constitutional diffusion of power so that the constituing elements in a federal arrangement share in the processes of common policy making and administration by right, while the activities of the common government are conducted in such a way as to maintain their respective integrities» e pertiene, più in particolare, alla distribuzione ed al funzionamento dei meccanismi costituzionali attraverso i quali governo federale e governi statali si rapportano tra di loro.
[10] Si veda Goetsch, Simeon E. Baldwin, Theodore Roosevelt cit., p. 17.
[11] Per il cui testo si veda 82 Conn. (1909) at 352-373.
[12] Consultabile in 45 U.S.C. (1908) at 51.
[13] Il discorso è riportato in Goetsch, Simeon E. Baldwin, Theodore Roosevelt cit., pp. 17-18.
[14] La qualifica di «retrogressive» che la sempre sapida oratoria di Roosevelt affibbiò a Baldwin lo conferma, così come il successivo scambio epistolare tra i due, che minacciò di incanalarsi in un vero e proprio procedimento giudiziale per diffamazione nei mesi seguenti l’ottobre 1910 (la vicenda è ricostruita, con maggior dettaglio, in Goetsch, Simeon E. Baldwin, Theodore Roosevelt cit.).
[15] Tra i manuali, le monografie e gli articoli dedicati al tema vogliono qui perlomeno rammentarsi: G. Edward White, Law in American History, Volume 2. From Reconstruction through the 1920s, New York, 2016, pp. 254 ss.; J. W. Ely, Jr., The Chief Justiceship of Melville W. Fuller. 1888-1910, Columbia (SC), 1995, p. 138 ss.; B. Schwartz, A History of the Supreme Court, New York, 1993, p. 209 ss.; K. L. Hall, The Magic Mirror. Law in American History, New York, 1989, p. 42 ss.; P. Finkelman, Slaves as Fellow Servants: Ideology, Law and Industrialization, in The American Journal of Legal History 31 (1987), p. 269 ss.; G. Edward White, Tort Law in America. An Intellectual History, New York-Oxford, 1985, p. 50 ss.; M. Keller, Affairs of State. Public Life in Nineteenth Century America, Cambridge (MA), 1977, p. 401 ss..
[16] Anche se, lo si può notare solo fugacemente, più che il FELA poterono le previsioni dei vari workers’ compensation statutes (statali), i quali diedero la possibilità ai lavoratori di ottenere ristoro per gli infortuni occorsi sul luogo di lavoro tramite un procedimento amministrativo e non processuale, alternativo al tort system, non basato sulla negligenza ma sulla semplice dimostrazione che il danno era avvenuto sul luogo di lavoro: per un maggiore approfondimento sul punto può vedersi White, Law cit, pp. 256-258. Tali misure furono caldeggiate da Roosevelt ma anche dal Baldwin: egli, infatti, non esitò, una volta eletto governatore del Connecticut, ad aggiungerne una alle raccolte legislative del proprio Stato (cfr. Goetsch, Simeon E. Baldwin, Theodore Roosevelt cit., p. 16).
[17] Il miglior riferimento disponibile (confacente, peraltro, alle coordinate giuridiche de qua) è W. H. Bryson, The Equity Side of Exchequer, Cambridge, 2008.
[18] Le brevi informazioni biografiche appena riportate si son reperite in «Abinger, James Scarlett, 1st Baron», in Encyclopedia Britannica, v. 1, XI, Cambridge, 1911.
[19] 150, Eng. Rep. 1030-1033 (1837).
[20] Ivi at 1031: «the van gave way and broke down, and the plaintiff was thrown with violence to the ground, and his thigh was thereby fractured».
[21] Le Lincolnshire Summer Assizes avevano infatti già deliberato sul fatto e sull’entità del ristoro dovuto al garzone: «at the trial […] the plaintiff, having given evidence to shew that the injury arose from the overloading of the van, and that it was so loaded with the defendant’s knowledge, had a verdict for 100£» (150, Eng. Rep. at 1031 (1837)).
[22] Ivi, at 1032.
[23] Imboccando tale via, lord Abinger preferì andare oltre le conclusioni sia di parte ricorrente (che sosteneva la necessità della sussistenza, da parte di Fowler, di un elemento soggettivo doloso e non solo colposo) che di parte resistente (secondo la quale era preciso dovere del datore di lavoro premurarsi che i mezzi attraverso i quali il proprio garzone doveva svolgere le sue mansioni fossero sicuri e propriamente mantenuti).
[24] 150, Eng. Rep. at 1032 (1837).
[25] Ibidem.
[26] Ibidem: «if the owner of the carriage is therefore responsible for the sufficiency of his carriage to his servant, he is responsible for the negligence of his coach-maker, or his harness-maker or his coachman […]. Nor is there any reason why the principle should not, if applicable in this class of cases, extend to many others».
[27] E, lo si nota fugacemente, è qui evidente come l’immaginario socioeconomico di lord Abinger fosse ben diverso da quello, già industriale, presso cui sarebbe rapidamente migrata la fellow-servant rule che egli stava qui sbozzando. Tale cornice conferisce probabilmente credito alla critica di Roosevelt circa l’utilizzo di uno sfibrato strumento del capitalismo precedente il capitalismo di cui si è parlato in apertura del presente contributo.
[28] Tutti questi esempi furono proposti in 150, Eng. Rep. at 1032 (1837): «the master, for example, would be liable to the servant for the negligence of the chambermaid, for putting him into a damp bed; […] for the negligence of the cook, in not properly cleaning the copper vessels used in the kitchen; of the butcher, in supplying the family with meat of quality injurious to the health; of the builder, for a defect in the foundation of the house, whereby it fell, and injured both the master and the servant by the ruins».
[29] 150, Eng. Rep. at 1032-1033 (1837).
[30] Ivi 1033.
[31] Un inquadramento generale circa il rapporto tra ferrovie ed ordinamento giuridico americano in J. W. Ely, Jr., Railroads and American Law, Lawrence (KS), 2001.
[32] Per vero, il caso del quale si dirà subito non è il primo nel quale una corte americana poté cimentarsi nell’applicazione della rule vittoriana (si veda, in proposito, 26 S.C.L. (1841) at 385): non v’è dubbio, però, che fu l’autorevolezza di Shaw a determinarne il largo successo.
[33] Sul grande giurista, noto anche per essere stato il suocero del Melville, si rimanda a E. Adlow, The Genius of Lemuel Shaw. Expounder of the Common Law, Boston, 1962.
[34] Il report in 45 Mass. (4 Met.) 49-62 (1842).
[35] Il fatto è narrato in 45 Mass. (4 Met.) at 50.
[36] 45 Mass. (4 Met.) at 60.
[37] Ibidem.
[38] Ivi at 56: «as there is no express contract between the parties, applicable to this point, it is placed on the footing of an implied contract of indemnity, arising out of the relation of master and servant. It would be an implied promise, arising from the duty of the master to be responsible to each person employed by him, in the conduct of every branch of business, where two or more persons are employed, to pay for all damage occasioned by the negligence of every other person employed in the same service».
[39] Ivi at 57.
[40] In White, Tort Law cit., p. 18 si rimarca, ad esempio, come «negligence was more than a specific duty. It was a general precondition of liability for unintentional torts, a “universal rule” that helped define the subjects of Torts itself».
[41] 45 Mass. (4 Met.) at 57.
[42] Ivi at 58: «persons are not to be responsible, in all cases, for the negligence of those employed by them».
[43] Ivi at 59. Potendo infatti il lavoratore «leave the service» ogniqualvolta avesse giudicato l’ambiente di lavoro eccessivamente pericoloso, le possibili soluzioni potevano essere solamente quella di «bear the loss himself» o di domandar rimedio «against the actual wrong-doer», ossia il collega la cui negligenza aveva causato il danno (ibidem).
[44] 45 Mass. (4 Met.) at 62.
[45] Ivi at 60: «it would be extremely difficult to distinguish what constitutes one department and what a distinct department of duty. It would vary with the circumstances of every case».
[46] Si veda ibidem: «besides, it appears to us that the argument rests upon an assumed principle of responsibility which does not exist».
[47] 45 Mass. (4 Met.) at 59.
[48] Sul quale è stato recentemente pubblicato, in Italia, P. Chiarella, The life of the Law. Oliver Wendell Holmes tra scienza del diritto e professione legale, Soveria Mannelli, 2023, al quale sia consentito di rimandare anche per l’ulteriore bibliografia.
[49] Del quale si è qui utilizzata l’edizione originale, reperibile in O. Wendell Holmes, The Common Law, Boston, 1881.
[50] Nel commentare un’altra, celebre decisione del chief justice Shaw, Holmes concluse come «the foundation of liability in trespass as well as case was said to be negligence» (ivi, p. 106).
[51] Ivi, p. 94.
[52] Ivi, p. 96. Nel medesimo passaggio argomentativo, Holmes antivide (ma criticamente) la soluzione che verrà poi adottata in diversi stati e da Roosevelt a livello federale, ossia, in sostanza, l’istituzione di una «mutual insurance company against accidents», la quale diluisse «the burden of its citizens’ mishaps among all its members» (ibidem).
[53] Sul quale possono vedersi P. Kens, Justice Stephen Field. Shaping Liberty from the Gold Rush to the Gilded Age, Lawrence (KS), 1997 e C. B. Swisher, Stephen J. Field. Craftsman of the Law, Washington D.C., 1930.
[54] La majority opinion in Chicago, Milwaukee & St. Paul Railway Company v. Ross è riportata in 122 U.S. 377-396 (1884) assieme alla stringatissima dissenting.
[55] Si veda, ad esempio, il giudizio in P. C. Hoffer, W. Hull Hoffer, N. E. H. Hull, The Supreme Court. An Essential History, Lawrence (KS), 2018, p. 112: «whenever he wrote opinions, concurrences, or even dissents, he favored large business interests and railroads over smaller businesses, labor, and farmers».
[56] In Swisher, Craftsman cit., pp. 37-41 si narra di come, ad un certo punto della sua residenza nel golden State, Field avesse commissionato un cappotto su misura con tasche sufficientemente larghe da alloggiare comodamente un paio di pistole, presumibilmente per assicurarsi di poter prendere di mira nemici (ignari di questo stratagemma) che gli si fossero parati dinnanzi a sbarrargli il cammino (un’eventualità che non si materializzò sino alla vicenda che lo vide unico giudice della corte suprema federale in office – con il caso, tuttora di rilievo per la corretta allocazione di poteri tra esecutivo e legislativo federale, In re Neagle (1890) – coinvolto in prima persona in una causa d’omicidio).
[57] Son questi i tre aggettivi riassuntivi utilizzati in M. I. Urofsky, The Supreme Court Justices. A Biographical Dictionary, New York-London, 1994, p. 159.
[58] Tale il calcolo in ivi, p. 160.
[59] I fatti qui riassunti son doviziosamente narrati dal Field in 122 U.S. (1884) at 380-382.
[60] Così in 122 U.S. (1884) at 382: «the collision having been caused by the gross negligence of the conductors, the question arises whether the company is responsible to the plaintiff for the injuries which that collision inflicted upon him».
[61] Ivi at 383: «there is also another reason often assigned for this exemption - that of a supposed public policy. It is assumed that the exemption operates as a stimulant to diligence and caution on the part of the servant for his own safety as well as that of his master. Much potency is ascribed to this assumed fact by reference to those cases where diligence and caution on the part of servants constitute the chief protection against accidents. But it may be doubted whether the exemption has the effect thus claimed for it. We have never known parties more willing to subject themselves to dangers of life or limb because, if losing the one, or suffering in the other, damages could be recovered by their representatives or themselves for the loss or injury. The dread of personal injury has always proved sufficient to bring into exercise the vigilance and activity of the servant».
[62] Come rimarcato in ivi at 383-384: «it has been held in numerous cases, both in this country and in England […] that he takes upon himself risks arising from the negligence of his fellow-servants […] provided always the master is not negligent in their selection and retention or in furnishing adequate materials and means for the work».
[63] Ivi at 385-386.
[64] Ivi at 387.
[65] Nei casi Bartonshill Coal Company v. Reid e Bartonshill Coal Company v. McGuire, entrambi riportati in 3d MacQueen HL (1858) at 266-299 and 300-315.
[66] 122 U.S. (1884) at 388.
[67] Ivi at 389.
[68] Come riconosciuto in ibidem: «it is difficult to limit them so as to say that any persons employed by a railway company, whose labors may facilitate the running of its trains, are not fellow servants, however widely separated may be their labors».
[69] Si veda 122 U.S. (1884) at 389.
[70] Ivi at 390.
[71] Per la cui prima edizione si veda F. Wharton, A Treatise on the Law of Negligence, Philadelphia, 1874.
[72] Questo il passaggio argomentativo citato in 122 U.S. (1884) at 391: «we think there is an increasing disposition to extend the doctrine of constructive presence and knowledge to corporations: a corporation cannot be excused from liability, simply because they must always act by servants; to hold otherwise […] would be to exempt them from liability altogether» (Wharton, A Treatise cit., p. 204).
[73] E precisamente in Malone v. Hathaway 64 N.Y. 5 (N.Y. 1876) at 11-12: «corporations necessarily acting by and through agents, those having the superintendence of various departments with delegated authority […] may well be regarded as the representative of the corporation charged with the performance of its duty […]. These acts are in such case the acts of the corporation for which, and for whose neglect, the corporation within adjudged cases must respond, as well to the other servants of the company as to strangers. They are treated as the general agents of the corporation in the several departments committed to their care».
[74] Allorché la corte apicale rinvenne responsabile la compagnia ferroviaria per la negligenza del conducente (come nel caso de quo): «the conductor is employed and in this he directly represents the company. […] This service is not common to him and the hands placed under him. […] His duties and their duties are entirely separate and distinct, altough both necessary to produce the result. It is his to command, and theirs to obey and execute. No service is common that does not admit a common participation, and no servants are fellow-servants when one is placed in control over the other» (la massima è citata in 122 U.S. (1884) at 393 e la sentenza in Cleveland, Columbus & Cincinnati Railroad Co. v. Keary, 3 Ohio St. (1854) at 201).
[75] 122 U.S. (1884) at 395.
[76] Il fatto che tale profilo sia stato messo in evidenza nell’economia di un dissenso così parsimonioso può autorizzare ad ipotizzare che non scarso peso deve aver rivestito tale deferenza nei confronti del precedent ai fini delle decisioni di voto della minoranza: «we think that to hold otherwise would be to break down the long established rule with regard to the exemption from responsibility of employers for injuries to their servants by the negligence of their fellow-servants» (122 U.S. (1884) at 396).
[77] Ancora una volta, ci si trova di fronte ad un giurista tradizionalmente riguardato da una parte della storiografia quale campione, tanto quanto Field, delle ragioni delle big corporations: un profilo ed una più approfondita bibliografia in Ely, The Chief Justiceship cit..
[78] Baltimore and Ohio Railroad Company v. Baugh, 176 U.S. (1893) at 378.
[79] Il passaggio forse più significativo, perché riguardante l’armonia tra diritto statale e diritto federale, è in ivi at 403-404: «the independence of the states, legislative and judicial, on all matters within their cognizance is as essential to the existence and harmonious workings of our federal system as is the legislative and judicial supremacy of the federal government in all matters of national concern. Nothing can be more disturbing and irritating to the states than an attempted enforcement upon its people of a supposed unwritten law of the United States under the designation of the general law of the country, to which they have never assented and which has no existence except in the brain of the federal judges in their conceptions of what the law of the states should be on the subjects considered. The theory upon which inferior courts of the United States take jurisdiction within the several states is, when a right is not claimed under the Constitution, laws, or treaties of the United States, that they are bound to enforce, as between the parties, the law of the state. It was never supposed that, upon matters arising within the states, any law other than that of the state would be enforced, or that any attempt would be made to enforce any other law. It was never supposed that the law of the state would be enforced differently by the federal courts sitting in the state, and the state courts; that there could be one law when a suitor went into the state courts and another law when the suitor went into the federal courts, in relation to a cause of action arising within the state - a result which must necessarily follow if the law of the state can be disregarded upon any view which the federal judge may take of what the law of the state ought to be, rather than what it is».
[80] Fu Field stesso a ricorrere a questo lemma: «the latter course of decisions seems to me most in accordance with justice and humanity to the servants of a corporation» (Baltimore and Ohio Railroad Company v. Baugh, 176 U.S. (1893) at 411).
[81] Il riferimento è a White, Law cit, p. 249: «negligence […] did not provide a full explanation for why […] the losses for that injury […] should fall on the injured person».
[82] Secondo quanto riportato in Ely, Jr., The Chief Justiceship cit., p. 197, nell’anno di promulgazione del primo Federal Employers’ Liability Act (1906), sette Stati avevano abrogato la fellow-servant rule: cinque anni più tardi (1911), il numero di Stati era salito a 25 (cfr. White, Law cit, p. 256).
[83] In Roosevelt, The Works cit., vol. XV, p. 218.
[84] La Corte Suprema avrà infatti modo di dichiarare incostituzionale questa prima versione in ragione dell’eccessiva portata delle prescrizioni ivi contenute (si veda 207 U.S. (1908) at 463-541) e specialmente nella parte in cui lo statute prevedeva di applicarsi a qualsiasi rapporto di lavoro e non (come la versione rapidamente emendata dal Congresso nel 1908 concederà) esclusivamente a quelli concernenti il commercio tra Stati dell’Unione. Per la seconda versione di FELA (tuttora vigente) si vedano gli emendamenti in 35 Stat. 65 (1908).
[85] 34 U.S.C. (1904) at 232-233.
[86] In ibidem. Ogni determinazione circa l’entità del concorso nell’evento dannoso veniva rimesso all’apprezzamento della giuria: «the damages shall be diminished by the jury in proportion to the amount of negligence attributable to such employee» (34 Stat. (1904) at 232).
[87] 82 Conn. (1909) at 360.
[88] Ivi at 364.
[89] Si veda ivi at 368: «does the power to regulate commerce between the States go so far as to warrant imposing on a carrier responsibility to a servant engaged in that business for the consequences of the negligence of another of its servants, occurring when the latter was not engaged in it, nor indeed in any business for the common employer?».
[90] U.S. Const. art. 1, § 8, cl. 3: «the Congress shall have power to […] regulate commerce […] among the several States».
[91] 82 Conn. (1909) at 373.
[92] Consultabile in 223 U.S. (1912) at 1-59.
[93] 223 U.S. (1912) at 56.
[94] Sulla celebre sentenza (consultabile in 17 U.S. 4 Wheat. (1819) at 316-437) possono vedersi, a mo’ di prima introduzione ed orientamento per navigare con profitto la vastissima bibliografia, R. E. Ellis, Aggressive Nationalism. McCulloch v. Maryland and the Foundation of Federal Authority in the Young Republic, Oxford, 2007 e M. R. Killenbeck, M’Culloch v. Maryland. Securing a Nation, Lawrence (KS), 2006.
[95] 17 U.S. 4 Wheat. (1819) at 406.
[96] Tale il linguaggio piano ma efficace del giudice Van Devanter: «now that Congress has acted, the laws of the states, insofar as they cover the same field, are superseded, for necessarily that which is not supreme must yield to that which is» (223 U.S. (1912) at 55).
[97] In Hoffer, Hoffer, Hull, The Supreme Court cit., p. 111 si insegna che Field «made the High Court a platform for his politics».
[98] In altro ambito, tale l’ipotesi di A. M. Tocklin, Pennoyer v. Neff: The Hidden Agenda of Stephen J. Field, in Seton Hall Law Review 28 (1997), pp. 75-141.
[99] In Goetsch, Simeon E. Baldwin, Theodore Roosevelt cit., p. 7, ad esempio, si sostiene espressamente che in Hoxie il giurista del Connecticut non aveva risposto ad un quesito giuridico ma, in definitiva, avanzato proprie convinzioni personali: «by striking down FELA on the grounds that it unconstitutionally invaded state sovereignty […], Hoxie was the defiant proclamation of Baldwin’s conservative philosophy and judicial classicism».
[100] White, Tort Law cit., p. 3.
[101] In M. Jensen, The Articles of Confederation. An Interpretation of the Social-Constitutional History of the American Revolution, Madison (WI), 1940, p. 245. Il sommesso suggerimento di chi scrive è quello di tradurre il lemma «leapfrog» con «cavallina».
DONATI GIACOMO ALBERTO
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