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ACQUA. Materia e spirito

10.02.2016

Bruno Montanari

Docente di Filosofia del diritto, Università Cattolica del Sacro Cuore

ACQUA

Materia e spirito[1]

 

Sommario: 1 … per un possibile inizio. – 2. L’acqua e Il Diritto. – 3. L’acqua tra “Cielo” e “Terra”. – 4.  Qualche ragionamento conclusivo.

 

1. …per un possibile inizio

L’acqua appartiene alla vita; anzi è assai di più. Essa è la vita stessa, poiché, come è noto, ne contiene il germe.

Noi, uomini curiosi, destinati a “non viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”, dovremmo interrogarci di fronte al dato, del tutto empirico, per il quale una combinazione chimica, un legame tra due atomi, tra due parti di materia microscopica, possa contenere la possibilità di esistenza in generale e l’esistenza attuale di tutto ciò che noi siamo: natura e opere. Possa contenere nella sua struttura quella che un tempo si sarebbe definita “la meraviglia del creato”.

Certamente, la bio-chimica studia e ri-costruisce tutti i processi del mondo vitale, ma resta inevaso l’interrogativo radicale sull’origine di ogni possibilità di processo: “Perché? Come è possibile il passaggio dalla semplice “materia” alla ricchezza contenuta nella parola vita?”  .

L’uomo curioso, giurista o letterato, filosofo o matematico, ingegnere o informatico, fabbro o carpentiere…di fronte a questo passaggio dovrebbe assaporare silenziosamente la profondità di ciò che non ha risposta: il “mistero”.

Quando scrivevo queste righe non era stata ancora pubblicata l’Enciclica di Francesco (così firma il Papa il suo testo Laudato si) nella quale la coappartenenza di natura e vita, di materia e spirito è affermata con un vigore critico proprio di chi ha vissuto la temperie culturale e socio-politica latino-americana degli anni Sessanta e Settanta.

Uno dei temi di fondo,  come è noto, riguarda il destino umano delle bio-diversità nel nuovo universo tecnologico e parole significative sono dedicate all’acqua, per metterne in luce due profili: quello giuridico, strettamente connesso all’interpretazione economica dei beni comuni, dei quali l’acqua è ovviamente un esempio peculiare, e quello del legame tra questa risorsa e la realtà della vita, che va oltre la sua materialità biologica, poiché ogni cultura vi ha letto, ciascuna a suo modo, la meraviglia di quello che ho definito “mistero”.

2. L’acqua e Il Diritto

Il diritto, con l’angolo visuale della dottrina, coglie l’ “umanesimo” dell’acqua attraverso la chiave di lettura offerta dalla categoria generale dei “beni”, nella versione speciale del “comune”: l’acqua “bene comune”.

Il tema del “comune” incrocia alcuni ambiti socialmente significativi del giuridico; si tratta infatti di una dimensione che non appare riducibile a quella giuspubblicistica, in specie nella sua versione amministrativistica, poiché in essa l’interesse della collettività non annulla quello dell’individuo singolo, anzi con esso si mescola, poiché ciò che è in gioco è la “vita” e la “vita” è di tutti e di ciascuno al tempo stesso.

E’ quest’ultima considerazione, che colora il diritto di quei tagli di luce che potrei definire “esistenziali”, che fa riflettere la dottrina civilistica sul nesso categoriale “bene giuridico” – “bene comune”. Nesso, attorno al quale si misura la tensione tra la dimensione economica, sulla quale la tradizione del pensiero “moderno” ha costruito il concetto privatistico di “bene”, e quella socio-politica sviluppatosi nel ‘900, soprattutto nel “secondo”, avendo come punto di riferimento, anche nella lettura ed interpretazione delle categorie privatistiche, la visione teorica della “Stato sociale”. Condizione, quest’ultimo, è bene affermarlo al nostro tempo divenuto così socialmente ed individualmente “incerto”, per l’affermazione consolidata, prima, e per la tenuta, poi, delle democrazie parlamentari del secondo dopoguerra.

Il dibattito tra le scuole civilistiche è, come è peraltro noto, assai ricco, per la ragione che esso è animato dalla riflessione critica attorno al significato culturale delle categorie giuridiche tradizionali, in un’epoca nella quale l’“idea riformista” ha ceduto il passo non al liberalismo dei “moderni”, ma all’economicismo liberista dei “contemporanei”.

Lo sguardo di sintesi può essere raccolto attorno ad alcune tematiche-chiave, le quali, peraltro, rappresentano il retaggio storico che ha costituito il pensiero giuridico moderno, centrato su quella categoria che salda il riconoscimento teoretico dell’individuo come “ragione” alla sua affermazione pratica, etica, politica, economica: il “soggetto” ed il suo diritto (“soggettivo”, appunto; ma di questo più avanti).

Le tematiche – chiave si svolgono attorno ad alcune articolazioni concettuali, fonti di discussione e diversa caratterizzazione dottrinale. La sintesi di cui parlo può avere il suo centro in un intreccio di almeno due distinzioni: quella tra “bene” e “cosa” e l’altra tra “bene” e “oggetto” del diritto.

Si tratta di due distinzioni significative sul piano degli svolgimenti della dottrina, che istituiscono un insieme di rapporti euristici ed interpretativi. Il concetto di “bene” pone in relazione il “soggetto” con il godimento di un qualche vantaggio: di qui la figura del “diritto soggettivo”. Il concetto di “cosa” apre la questione dell’ampiezza del riferimento “reale”, oltre quello materiale codificato dall’art.810 c.c., che può costituire la “causa” del vantaggio soggettivo. Il terzo concetto, quello di “oggetto” del diritto, consente di sganciare la tutela allestita dal diritto soggettivo da una più ampia situazione giuridica, quella che consente ad un soggetto di diritto di esercitare poteri e facoltà.

Questi dati, per quanto li si voglia, e forse li si debba, tener distinti concettualmente, mettono in luce non solo una loro reciproca relazione, ma anche quel loro insopprimibile intreccio, che ho già sottolineato. La spia di questa saldatura interpretativa è fornita da un altro concetto: quello di “interesse”.

L’ “interesse” apre, infatti, la questione del suo titolare, del destinatario del vantaggio e della sua tutela giuridica, sia sotto il profilo dei poteri esercitabili, sia sotto quello dei danni fronteggiabili. Vantaggio, poteri, danni sono tutti termini che introducono ad un’ulteriore questione, che si dispone su di un proprio specifico livello; è la questione disegnata dalla relazione tra la qualificazione di quei tre termini, che è rilevante per il diritto, e laloro dimensione antropologico – esistenziale.

In altre parole, si tratta di aspetti non di mera filosofia accademica, ma decisamente esistenziali tra l’ambito filosofico-teoretico del pre – giuridico e quello del giuridico; e, in relazione a quest’ultimo, “giuridico” in che senso? Codicistico, dottrinale, dogmatico, giurisprudenziale, sociologico… e il tutto a partire dalla “ipoteca” epistemologica posta dalla insuperabilità dell’approccio interpretativo.

Questi profili assumeranno una loro fisionomia cammin facendo; per ora intendo far emergere il seguente punto: l’idea di ciò che può essere inteso ed interpretato come “comune” nella riflessione giuridica più recente.

Essa si è interrogata sul “diritto dei beni comuni”, assumendone uno come prototipo, idoneo ad articolare una serie di punti di vista, che è possibile radicare nel concetto che il termine “interesse” rende manifesto; tale bene comune è l’acqua. Ne parla in modo netto Maria Rosaria Marella, introducendo un testo che raccoglie il lavoro svolto in quattro seminari tenutisi presso la facoltà giuridica dell’Università di Perugia nel 2012, ed al quale rinvio per i contenuti specifici dei contribuiti[2].

La tesi che emerge dalla riflessione della Curatrice è che l’idea del “comune vada pensata oltre la distinzione classica tra “pubblico” e “privato”. Ponendo il “comune” oltre tale distinzione, si mette in discussione una contrapposizione, anch’essa classica: quella tra profitto individuale e gestione pubblica. Con una conseguenza: che la discussione intorno al diritto dei “beni comuni” non può ridursi ad una diatriba polemica tra gestione privata, nella quale il fine di lucro mette in crisi l’idea di servizio sociale, e gestione pubblica, che chiama in causa l’efficienza delle istituzioni pubblico-amministrative ed i loro legami con il cosiddetto sistema politico[3].

La nozione di un “comune”, come un “bene” che è oltre la dialettica privato / pubblico, induce alla ricerca ed individuazione di un profilo della soggettività, al quale ricondurre quella dimensione pre-giuridica, che definirei “esistenziale”, cui accennavo poche righe sopra. Il diritto può tipizzare tale soggettività come “collettiva”, termine, tuttavia, dotato di una passata connotazione ideologica, per le sue radici che affondano in quel tratto di storia della soggettività che mette in radicale discussione la struttura capitalistico-borghese, articolata nel binomio individuo – Stato. Radicalità, che la storia del Novecento europeo ha temperato attraverso la tensione riformistica tra mercato e solidarietà.

Oggi, in un’epoca che non solo è post-comunista, ma che tende a divenire post-solidaristica, pensare ad una soggettività “collettiva” significa inoltrarsi in un territorio per alcuni aspetti ignoto al diritto della tradizione. Territorio, nel quale la soggettività va ritrovata ed identificata in quel “comune” dei bisogni, la cui soddisfazione è indispensabile alla vita quotidiana, poiché appartiene alla possibilità stessa della sopravvivenza. Di qui un concetto di “bene”, che le società economicamente evolute non sperimentano sulla loro pelle e della cui essenzialità per la vita quindi non hanno reale percezione.

Il superamento della dicotomia viene costruito dalla riflessione civilistica più recente, che ha in Stefano Rodotà un autorevolissimo esponente, essendo stato il Presidente della Commissione ministeriale, insediata con decreto 21 giugno 2007 del Ministero di Giustizia, per elaborare un disegno di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici.

Quell’elaborato, individuando i “beni comuni” come una terza categoria giuridica, accanto alle due tradizionali di “beni pubblici” e “beni privati”[4], ne mostra quella consistenza, “categoriale” appunto, capace di ascrivere il “comune” ad un nuovo registro della ragione giuridica.

Il punto è importante, perché mi consentirà, nel prosieguo di questo mio lavoro, di legare al contesto giuridico la riflessione filosofico – esistenziale, con un secondo fine: quello di mostrare come, in un’epoca post-positivistica, il giuridico non possa fare a meno di uscire dalla sua autosufficienza e di nutrirsi di quel pre-giuridico che appartiene ad altre forme di sapere.

Ma torniamo al punto.

Propone la Commissione al punto c: “Previsione della categoria dei beni comuni, ossia delle cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”, aggiungendo nella Relazione di accompagnamento una notazione significativa che riguarda il tema del futuro delle generazioni: “…e sono informati al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità”.

La significatività della notazione, contemplando il futuro della vita, consiste nell’ancorare il concetto di bene comune al binomio bisogni – interessi umani, che modifica il quadro “proprietario” in quello dell’“utilizzazione – accesso”, dove la soggettività di riferimento non è quella dell’individuo privato o quella del pubblico statuale, ma quella “diffusa” dei viventi.

In questa prospettiva il caso dell’acqua è illuminante[5].

Non intendo seguire Rodotà nell’ulteriore analisi, per quanto questa tocchi questioni importanti per il nostro tempo, come quella legata alla conoscenza in quanto “bene comune”, nella quale la tensione tra il comune ed il proprietario è particolarmente acuta. Mi interessa invece sottolineare quelli che l’autore definisce due equivoci nei quali non bisogna cadere.

Il primo riguarda la non sovrapponibilità tra il “comune” e l’ascrizione ad una “comunità”: il “comune” di cui si parla, infatti, riguarda non una periferia sociale, ma il centro stesso di un nuovo modo di concepire i ruoli dei soggetti che lo popolano: l’individuo privato, lo Stato e la società.

Chiarito il primo equivoco, nel quale per la verità è difficile cadere se si comprende la filosofia sottesa al concetto di “comune”, la dimensione “sistematica” di quest’ultimo dà il via ad un secondo “equivoco”, nel quale si potrebbe cadere. Qui la questione, al contrario della precedente, è infatti più spinosa, fino al punto che quello che Rodotà considera un “equivoco”, da un altro punto di vista potrebbe essere interpretato, invece, come un dato logicamente coerente proprio con la concettualizzazione antropologica del “comune”.

Rodotà mostra l’“equivoco” in questi termini: “La rilevanza e la tutela dei beni comuni deriverebbero da una loro natura, da una essenza che li caratterizzerebbe al di là delle contingenze. Ma il loro affiorare imperioso e pervasivo non può fare astrazione dalla storia e dai suoi movimenti”[6]. Il “bene comune” – sintetizzo il pensiero di Rodotà -  nasce dalle “violazioni” che il sistema proprietario determina nella condizione umana, facendo nascere l’esigenza di una costituzionalizzazione di diritti fondamentali come garanzia di riconoscimento stabile dell’endiadi bisogno – interesse. Garanzia giuridica, che consente di differenziare le diverse tipologie di “beni”, sì da assicurare loro una adeguata tutela, nel senso di storicamente  e culturalmente  “concreta”.

Il riferimento alla “natura” nella prospettiva di Rodotà trae in inganno. Infatti, “un ‘naturale’ punto unificante non può essere ritrovato neppure in un generico riferimento alla persona e alle sue esigenze, poiché anche queste, al di là di un altrettanto generico riferimento alla sopravvivenza, sono strettamente legate alla loro costruzione culturale e istituzionale, al loro trasferimento dal mondo indeterminato dei bisogni a quello esigente dei diritti fondamentali”. E prosegue legando il bene comune ad una loro essenza o natura, nelle apparenze si dà ad esso una più sicura fondazione, nella sostanza si introduce un vincolo che può rendere ardua la qualificazione come bene comune di ciò che è il frutto della cultura e della storia, non di una visione metafisica”[7].

Mi limito ad alcune osservazioni non per il “gusto di contraddire”, ma unicamente al fine di aprire altre possibilità di ragionamento, soprattutto in relazione al prosieguo del mio lavoro.

In primo luogo, proprio tenendo conto di quanto Rodotà afferma circa la necessità di differenziare in specifiche tipologie la categoria in oggetto, osserverei che la concretezza storico-culturale vale come criterio interpretativo per alcuni bisogni – esigenze – interessi, come quelli dipendenti dalla diffusione e fruizione sociale dei prodotti della conoscenza. Questione scottante, nella dialettica tra egoismi individualistici e necessità solidaristiche.

Per l’acqua - bene comune credo che le cose stiano diversamente, nel senso che l’interpretazione storico-culturale non mi sembra capace di coglierne il legame con l’origine stessa della vita e, di conseguenza, la sua appartenenza al senso stesso dell’esistenza.

Chi ha negli occhi le immagini di Sebastião Salgado, così come appaiono nel film di Wim Wenders “Il sale della Terra”, forse riesce a comprendere come la loro crudezza vada oltre ogni descrizione letteraria e soprattutto sia oltre ogni dimensione storico-culturale. Quelle immagini mostrano un mondo umano che è al di là o al di qua, non so…fuori insomma, da ogni riferimento a “diritti fondamentali” e da ogni formalizzazione giuridica e politica. In quelle immagini appare tutta la crudeltà dell’esistenza di intere popolazioni, quando cibo e acqua sono una risorsa non scarsa, ma pressoché inesistente.

E’ a partire da qui, da constatazioni di questo tipo, che il passaggio alle “categorie” interpretative può assumere strade diverse.

Il modello di ragionamento proprio di Rodotà è strettamente “storicistico”; rispetto a questo, parole come “natura” ed “essenza”, cui – ovviamente - si aggiunge, come egli stesso aggiunge, “metafisica”, evocano quel contesto “razionalistico” che sul piano della “filosofia pratica”, cioè sul piano “assiologico” anche spicciolo e quotidiano, ha indotto nella storia della cultura europea concezioni dogmatiche.

L’antitesi Storia – Metafisica, sebbene ancora valida, anche se parzialmente, fino a buona parte del Novecento, mi appare limitata nella sua capacità interpretativa, oggi, in un tempo, nel quale si va scoprendo l’inedita complessità di quella che un tempo si chiamava “natura” e si scandagliano le relazioni tra la “mente” e le strutture della “materia”, fino a sottolineare le relazioni tra l’attuale fisica quantistica e le conoscenze dell’antichità tramandate dalla filosofia di Democrito o dai versi di Lucrezio[8].

Affrontare perciò il concetto di acqua - bene comune in termini di struttura esistenziale, in quanto “bene” che non solo rende possibile la vita in senso strettamente biologico e organico, ma, proprio per questo suo legame con la vita, appartiene al senso dell’esistenza (ed il film di Wenders – Salgado sopra ricordato lo fa percepire con gli occhi), non significa svolgere in ragionamento ipotecato da un impronta essenzialistico – metafisica. Almeno nel senso che i due termini hanno ricevuto dalla vulgata razionalistica, senza tener conto, così facendo, del ruolo “teoretico” che questi due termini hanno svolto, più ampiamente, nella costruzione del modello di pensiero razionalistico della “modernità”, certamente con le sue ombre dogmatiche ma anche con importantissime luci critiche.

Ma non è questo il luogo per affrontare un questione strettamente filosofica; vi ho accennato al solo scopo di circoscrivere la portata della interpretazione di Rodotà[9] e poter dire, da parte mia, che le filosofie del ‘900, non più sistematiche, come le filosofie fenomenologiche e quelle che a vario titolo possono definirsi dell’ “esistenza”, compresi alcuni approcci empiristici alla Habermas, possono dar luogo ad altre riflessioni. In particolare, diventa possibile interpretare il concetto di “bene” come qualcosa che appartiene al senso stesso dell’esistere al mondo, inteso quest’ultimo secondo quel profilo “strutturale”, che viene prima di una qualsiasi determinazione storico - culturale e che, proprio perciò, ne costituisce l’orientamento in senso pratico, politico e giuridico.

E qui non centra alcuna forma di “cognitivismo assiologico”, come sarebbe tentato di affermare un “non cognitivista” vecchia maniera. Si tratta, invece, della legittimità teoretica di forme di ragionamento che muovono dall’esperienza empirica per compiere un percorso di astrazione critica e, quindi, individuare forme costanti. Si passa, così, dall’empirico della vita alla esistenza come dato originario, che identifica l’intero sistema vitale, per interrogarci quindi sulla sua capacità di inviare “messaggi” che poi sta all’uomo decodificare, interpretare e manipolare.

 

3. L’acqua tra “Cielo” e “Terra”

E’ esattamente ciò, che intorno all’acqua, ha fatto il mondo antico. Un mondo, nel quale la cultura umana praticava un sapere che distingueva “scienza” da “sapienza” e “τεχνή” da “filosofia”; un mondo nel quale “Cielo” e “Terra” erano in continuità, in cui tuttavia il senso del mistero e dell’indeterminabile umano era un aspetto decisivo per ogni interrogazione, che, orfana di una risposta, induceva solo a nuove e “tragiche” domande. Da questo intreccio di umana esperienza, domanda e mistero nasce il concetto di “senso”, inteso in primo luogo proprio come interrogazione sulla direzione delle “cose”, del vivere in generale come vita mia e di ogni vivente.

Il pensiero antico intorno all’Acqua[10] rappresenta un aspetto di questa ricchezza interpretativa della esistenza, che pur nella diversità delle culture, segue, come cercherò di mostrare, tratti del tutto comuni, a conferma che un’analisi culturale conduce a risultati trans-culturali, che possono definirsi esistenzialmente strutturali.

Una lettura esistenziale, quale quella che propongo, ha la caratteristica di essere non indifferente al “giuridico” (in senso lato, si intende), ma di precederlo ed accompagnarlo, in virtù di quel profilo che Mircea Eliade nel suo Trattato sulle religioni[11] sottolinea: il significato simbolico che ogni cultura, da quella indiana a quella cristiana, passando per altre che mostrerò, scopre nell’Acqua. Significato simbolico che non proviene da una dimensione surrettiziamente metafisica, quanto dallo scoprire, con l’esperienza, nelle caratteristiche fisiche dell’acqua la sua intrinseca appartenenza alla vita. Essa contiene quei germi che “fecondano la terra, gli animali, le donne”. Dunque, origine e procreazione.

Vi è poi anche una ragione che definirei “epistemologica”, per la quale l’acqua è un dato esistenziale e pre-giuridico. La ragione è che il simbolismo che essa esprime implica uno sguardo che si può definire “comprendente”; uno sguardo, cioè, che afferra il fenomeno in un tutt’uno, dove i suoi effetti vitali si trasformano in significati spirituali l’esistenza umana[12]. Un tale sguardo esclude da sé un’operazione analitica di differenziazione filosofico-intellettualistica tra materia fenomenica ed “essenza”, e non si cimenta nell’esame di specifici ambiti di rilevanza, quali possono essere quello fisico-biologico, quello storico-culturale, quello socio-politico e giuridico.

Il simbolico è ciò che epistemologicamente può correttamente definirsi “meta-fisico”, poiché è quell’immateriale che mostra, “ostenta”, la pienezza antropologica di quel materiale di cui è fatta l’esistenza umana.

La manifestazione più chiara della pienezza antropologica che scaturisce dal simbolismo dell’acqua è il “diluvio”, che rappresenta il lavacro dell’umanità corrotta, ma anche la sua rinascita in una nuova luce.

L’acqua del diluvio chiama in causa la ciclicità della Luna: morte e resurrezione secondo un divenire ritmico e ciclico. Il mondo “premoderno”, non solo quello indiano o greco, ma anche quello ebraico-cristiano, fino al passaggio compiuto dall’Occidente cristiano verso il razionalismo cosiddetto “moderno”, conosce un divenire ciclico, che va dalla nascita alla morte ed alla rinascita, dove il materiale della vita, in tutte le sue molteplici forme, non si differenzia dall’elemento significante, che è esclusivamente immateriale. La Terra si confonde con il Cielo[13]; il legame Acqua – Luna, ciclico e ritmico, è il simbolo di una meta-fisica fusione.

Terre nuove e Cieli nuovi: Diluvio e Rigenerazione.

L’Acqua, che scorre nella terra, che la cultura sumerica consacra ne l’ Inno alla zappa[14], appare come elemento generativo originario, che entra nella creazione. Qui la Terra fa sentire tutto il suo intimo coniugarsi al Cielo, secondo il profilo della separazione tra acque inferiori e acque superiori, che è comune ad altre tradizioni: il diluvio, appunto, ed il separarsi, da quelle superiori, delle acque inferiori, cui segue il loro radunarsi ed il formarsi dei mari, dei laghi dei fiumi.

Vi è un secondo elemento costitutivo, cui la forza generativa è strettamente legata: la parola. Questa notazione ci conduce direttamente alla tradizione biblica (Gen. 1, 6 – 10 e Isaia 35, 6 -8), propria di una terra prossima a quella sumero-babilonese.

 Il senso simbolico affidato alla metafora acquatica lo si coglie agevolmente se lo si inquadra nel  di Isaia 36, parlando del Popolo d’Israele, mostra come la sua rinascita materiale non sia altro che una manifestazione tangibile di una nuova forza spirituale che lo pervade, poiché quel popolo vedrà la gloria e lo splendore del Signore.

Il testo di Isaia è particolarmente importante, poiché, come è noto, è il profeta cui fa riferimento Marco (1, 3) quando racconta l’inizio della missione di Giovanni il Battista. Al di là delle questioni interpretative del testo profetico, il punto è il seguente.

L’Acqua appare come un “bene” dal significato che in questo contesto potremmo definire “ontologico – esistenziale”. Significato che acquista ulteriore potenza se si aggiungono altri due brani del testo di Isaia, nei quali emerge il rapporto con il tempo futuro, sia sotto il profilo della redenzione dal peccato, sia sotto quello dell’avvento di un mondo radicalmente nuovo, segnato dalla pace fra le creature e dalla giustizia. E’ la profezia interpretabile come annuncio del Messia

Nel messaggio di Isaia l’Acqua riceve una duplice caratterizzazione, capace di farne assumere il significato metaforico di bene, inteso, come ho già sottolineato, in senso ontologico - esistenziale.

La prima caratterizzazione ne mette in luce l’aspetto costitutivo: la fondazione del Popolo di Israele appartiene, in un certo senso, alla stessa creazione della Terra da parte del Signore. E proprio il profilo costitutivo, pur avendo come destinatario il Popolo di Israele, non  ha come oggetto il solo profilo socio-politico (che pure non è secondario), ma assume una configurazione decisamente antropologico esistenziale, in virtù del riferimento fondamentale alla purificazione dal peccato ed all’avvento di un “virgulto”, che porterà al mondo nuovo di pace e giustizia (37, 33 – 35 passim).

La seconda caratterizzazione è strettamente legata alla precedente. Si tratta del tema del lavacro spirituale e della purificazione dal peccato. L’Acqua, allora, non va intesa come uno strumento meccanico che lava il corpo e, quasi di conseguenza, anche lo spirito ne beneficia. Credo che l’immagine debba intendersi in modo più complesso, meno “razionale” e più “patetico”.

Il punto è che nella visione profetica il materiale e l’immateriale si compenetrano; come Terra e Popolo sono un tutt’uno, nel quale non sono separabili l’elemento geografico e socio – politico da quello spirituale, così sul piano del singolo uomo e della società composta dalla singolarità di ciascuno, la materialità del corpo non è significativa se non attraverso la sua costituzione spirituale, che consiste nella consapevolezza di essere “creature” del Signore.

In un tale contesto, l’Acqua è, dunque, la metafora della coappartenenza di materiale e immateriale; essa non è strumento di purificazione, ma è essa stessa la purificazione. In questo senso ho insistito, nelle righe che precedono, sull’Acqua come simbolo di un “bene” in senso ontologico – esistenziale.

Per quanto si tratti di una tematica culturalmente affascinante, che ci fa toccare “con mano”, o meglio “con la testa”, la ricchezza di un mondo tanto lontano dal nostro dal punto di vista della sua capacità simbolica, metaforica, in una parola, speculativa, non è questo tuttavia il luogo per un suo approfondimento.

Conviene, invece, richiamare un altro testo biblico, significativo anche per una sua eventuale, oggettivamente possibile, interpretazione messianica e nel quale quel profilo materiale “popolo –terra” e quello immateriale della “purificazione – rinascita” emergono con particolare forza, attraverso la figura del sacerdozio, che non si esaurisce nella casta dei Leviti, ma è ciò che costituisce ogni singolo membro del popolo.

Si tratta di Ezechiele (47, 1 e ss.), dove l’Acqua appartiene alla struttura stessa del Tempio, poiché è dentro le sue stesse fondamenta. Rispetto al testo di Isaia, in questo la figura del Signore svolge un ruolo, che potrei definire più visibilmente “fondativo” dal punto di vista dell’organizzazione sociale e della struttura politica.

Ma il 47 è successivo al 36, nel quale si rammenta che l’infedeltà del Popolo d’Israele ha insozzato la terra da lui abitata; sono parole, quelle si possono leggere, che non hanno bisogno di sottolineature, tanto è evidente l’”impasto” di elementi “creaturali” con quelli legati alle vicende storiche e dove i lavacri, in quanto atti materiali, sono la via per la purificazione dal peccato (36, 14 – 28 passim).

Con questa premessa, troviamo poi il 47, dove Dio, per bocca del Profeta, disegna una vera e propria antropologia israelitica, che si struttura attorno al Tempio ed ha il suo cardine nel sacerdozio e nei riti che confermano la fedeltà a Dio del Suo popolo. In particolare, vi è disegnata minutamente la funzione sacerdotale e la sua ritualità, la spartizione della terra e la funzione ed il potere del principe con l’ampiezza dei suoi possedimenti.

Ancora una volta l’Acqua è la sostanza, non lo strumento, che riempie di significato spirituale la vicenda del popolo e che, proprio in virtù di un tale significato, si proietta nel mondo futuro.

L’Acqua, in quanto simbolo di purificazione e di rinascita, meglio: di rinascita, in quanto sostanza purificatrice, annuncia in qualche misura il destino messianico che appartiene alla storia del popolo (47, 1, 8 – 10 passim).

Il territorio dove avanza quel fiume, il territorio della Galilea, è quello ove Giovanni racconta l’avvento di Gesù e la storia del suo transito terreno.

Il 6 è un capitolo - chiave di quel Vangelo: in esso si manifesta la missione salvifica di Gesù sotto due profili. Il primo, è il tema della “ricerca” che l’uomo assetato svolge per placare la sua sete; a qualche commentatore il termine άρτος (“pane”)[15] sembra essere solo una variante di ύδορ (acqua) in quanto atto di fede in Lui; il secondo mette in luce il tema della “grazia”, poiché il credere in Lui dipende unicamente dalla luce che il Padre infonde al credente.

Qui la lettura si fa complessa dal punto di vista teologico, basti tener presente il significato dell’espressione Εγώ ειμί, che ha una valenza identitaria analoga al veterotestamentario YHWH. Ciò che in questa sede, tuttavia, interessa è che il tema della sete, che è un tutt’uno con quello della fame, rinvia alla grazia dispensata dal Padre[16].

Ciò che mi preme mettere in luce, ancora una volta, è che l’Acqua, come il Pane, non sono mezzi per dissetare e sfamare, ma sono, per un certo verso, “segni” di una potenza miracolosa (la moltiplicazione dei pani), per altro verso, metafore, che lo stesso Gesù utilizza per significare il senso della sua missione (6, 35 – 38 passim). Quindi l’Acqua e il Pane sono il Cristo stesso, in quanto operano come un’energia purificatrice e salvifica che Gesù possiede in quanto datagli dal Padre per realizzare la sua missione[17].

A conferma della omologia tra il “pane” e l’ “acqua”, nei loro significati metaforici, basti ricordare le fin troppo note parole di Gesù in 7, 37 – 38: “Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la scrittura: fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno”.

Nel vangelo di Giovanni emerge con chiarezza un altro profilo legato all’Acqua; non solo vista come simbolo della potenza salvifica del Cristo, ma anche segno dell’indigenza umana. Essa è la risposta a quella arsura dello spirito che nasce dalla lontananza da Dio; è ciò che placa la “sete”, che spinge l’uomo a cercarLo: “τί ζητεϊτε?”. E’ un verbo dal significato potente nel Vangelo di Giovanni, poiché esso ricorre ogni qual volta la ricerca lega l’uomo alla figura di Gesù, dalla Maddalena all’orto degli ulivi. E attraverso questa ricerca si conferma la divinità della figura del Cristo. Vale la pena di ricordare anche, in questa chiave, le parole che Gesù rivolge alla Samaritana, sicuramente stupita dell’attenzione ricevuta da un giudeo (4, 10 – 15 passim).

4. Qualche ragionamento conclusivo

Credo di aver reso in modo sufficientemente chiaro e convincente cosa rappresenti l’acqua nel pensiero antico; per quel pensiero che si formò e visse nel bacino del Mediterraneo attorno al mondo che condusse all’avvento del Cristianesimo, da quello sumerico e babilonese a quello ebraico - profetico.

Essa rappresenta sicuramente un bene.

E’ su tale affermazione che intendo proporre qualche riflessione.

Porre un interrogativo come avvio del ragionamento può essere un modo per entrare, fin da subito, dentro la questione. La qualificazione di “bene” riferita all’acqua ha una valenza epistemologica di tipo descrittivo o è un’attribuzione di valore? La questione è tutta raccolta nelle risposte che si possono dare all’interrogativo; risposte dal contenuto diverso, ma, questo è il punto, entrambe possibili, per la ragione che la loro diversità deriva da differenti modelli di pensiero che sono, a loro volta, il prodotto di differenti formae mentis

Quell’interrogativo, articolato nell’alternativa epistemologica “bene” in senso descrittivo o valoriale, può tradursi, secondo un linguaggio abbastanza comune, in due termini: “oggettivo”, che rinvia al “descrittivo” e “soggettivo” che evoca il “valoriale”.

Si tratta di una distinzione epistemologicamente scorretta, e questa notazione la si può fare se si tiene conto che ogni forma mentis è a sua volta il prodotto di stratificazioni “mentali” di natura ed origine diversa.

Mi spiego. Al “modello”, in quanto prodotto pensato, si può applicare la distinzione “oggettivo” – “soggettivo”; una medesima distinzione non si può applicare, invece, a quelle variegate stratificazioni che via via vanno a configurarlo.

Queste seconde, infatti, mostrano che anche ciò che nel detto comune si definisce come “oggettivo” in realtà ha la sua origine nella rappresentazione che l’uomo, come singolo o come “insieme”, si fa della propria condizione esistenziale. E’ questa “rappresentazione” che dà luogo a quel materiale magmatico del quale sono formati la mentalità, il senso comune dell’uomo che vive in una determinata epoca della storia. Quindi l’ “oggettività” che si riscontra nel modello non è che la stabilizzazione intellettuale di una determinata rappresentazione umana del mondo. Intendo dire che anche ciò che comunemente definiamo “oggettività” ha origine esclusivamente dal pensiero umano; dunque ha origine nella capacità di pensare del soggetto. Quindi, in senso epistemologicamente corretto, anche ciò che crediamo oggettivo dipende da una rappresentazione soggettiva del mondo.

Non è questo il luogo per ulteriori incursioni in questo campo[18]. Definire, allora, l’acqua un “bene” in senso oggettivo significa far riferimento alla rappresentazione mentale, che l’uomo antico aveva di quella “cosa” materiale, che entrava nella sua esperienza, formata da due molecole di Idrogeno ed una di Ossigeno.

Tale “idea” non solo prescindeva da un’ attribuzione di valore; al contrario era ciò che di per sé dava significato e valore alla vita, come è emerso nella ricognizione operata nelle pagine precedenti.

L’uomo antico, come dimostrano i suoi miti e i documenti che ne testimoniano la cultura, aveva una rappresentazione del mondo dominata dall’idea misteriosa dell’Inizio, dell’Origine, che comportava una distinzione tra “Cielo” e “Terra”. In tale distinzione archetipica, la Terra era in rapporto di adeguatezza – inadeguatezza, di conoscenza e mistero, di materiale e immateriale, di mito e vicenda umana, con il “Cielo”. Le relazioni che ho nominato contengono una tensione tra l’”armonioso” del Cielo e la dismisura che inquina la natura umana, quale si manifesta nel mito di Prometeo o nel vitello d’oro della Bibbia; tensione, che costituisce la ricchezza teoretica del “modello” che può definirsi “ontologico-metafisico”.

All’interno di un tale modello, che affonda le sue radici nell’umano, l’Acqua rappresenta dunque un “bene” in sé (con la A maiuscola), e svela proprio i significati “ontologico-metafisici” che mettono in forma l’intera vicenda dell’esistere al mondo: dalla sopravvivenza del corpo, alla purificazione dello spirito, dalla punizione del diluvio alla glorificazione del Tempio.

La rappresentazione del mondo ed il relativo paradigma intellettuale mutano con l’avvento della figura umano-divina di Gesù, il Cristo: è quel mutamento che fonda il pensiero “moderno”, in quanto è all’origine del paradigma “razionalista”.

Detto in sintesi schematica, la figura di Gesù – Cristo pone in continuità “Cielo” e “Terra”. Il senso meta-fisico, proprio in quanto “direzione”, dell’esistenza umana viene rivelato ad ogni uomo, nella sua singolarità; ed ogni uomo, nella sua singolarità, è in grado di comprenderlo (il “senso” metafisico della vita, non Dio) e di assumersene la responsabilità.

Dal punto di vista intellettuale, la questione, che attraversa prima il Medio Evo e poi la “modernità” in senso stretto, ruota attorno ad un punto centrale: come tenere assieme, in continuità tra loro, due polarità “epistemologiche”, l’originario e fondante orizzonte “ontologico-metafisico” e la “mente” terrena della persona umana che, pur originariamente illuminata dalla Spirito Santo, va a costituire il “soggetto” come ente empirico, individuale e razionale. Percorso nel quale il piano “razionale”, per la sua stessa struttura originaria, inevitabilmente diviene autosufficiente, finendo per inglobare l’orizzonte “ontologico-metafisico”. Lo stesso “illuminismo” filosofico si può dire che porti a compimento, secondo il suo proprio paradigma, il messaggio che trova il suo Inizio, figurato e anche ontologico, nel tema della “Luce” proiettato dal Vangelo di Giovanni.

Per cui, l’oggettività che gli “antichi” ritenevano custodita nell’orizzonte ontologico-metafisico, la modernità la ritiene determinabile attraverso l’opera investigativa della “Ragione”, dove la bipartizione “fenomeno – essenza” comprende sia l’ambito scientifico che quello antropologico teoretico. Con un’aggiunta; la scissione teoretico-epistemologica operata da Kant tra mondo empirico-fenomenico e dimensione noumenica sarà decisiva per l’epistemologia del ‘900.

Le questioni che ho schematicamente ricordato sono analiticamente assai complicate dal punto di vista teoretico. Qui basti sottolineare che la rappresentazione antica e medievale del mondo e quella “moderna” differiscono per il diverso peso, le diverse articolazioni e tensioni che il pensiero istituisce tra profilo “ontologico-metafisico” e profilo individuale “soggettivo”.

Ne è testimone il pensiero politico e giuridico grazie al quale l’idea di “contratto”, fin dal tardo medioevo e poi in misura fondativamente sistematica nella modernità, orienta il rapporto tra la “soggettività” individuale e l’ “oggettività” del potere.

Per questa via si arriva a comprendere come nel contesto “moderno” l’ “oggettività” sia rappresentata dal soggetto “pubblico” in contrapposizione al soggetto “privato”, che si forma attraverso la sequenza individuo – società – politica – diritto che sfocia nell’istituto della proprietà.

E’ in questo specifico contesto storico-culturale che l’Acqua, proprio perché connaturata all’esistenza umana, è pensabile in base a quelle medesime caratteristiche categoriali che ora individuano l’uomo: la soggettività e i suoi “diritti”. In altre parole, si può istituire un percorso che accomuna la vicenda della “categoria” soggetto a quella dell’acqua: così come viene istituita la soggettività ed il suo diritto (il “diritto soggettivo”), l’acqua, in quanto entra nella vicenda della vita, è assorbita dalla categoria del “diritto soggettivo”, che trasforma l’idea stessa di “bene”. Il “bene” da categoria “oggettiva”, in quanto “ontologico-metafisica”, diviene produzione della soggettività e della sua affermazione giuridica.

La costituzione giuridica del bene-acqua, dipendente dall’affermarsi della categoria della soggettività, ne subisce poi la medesima scissione: soggettività “pubblica” e “privata”. Conseguentemente, quindi, la dialettica politica e la formalizzazione giuridica, che investono tale scissione nella storia della modernità, inevitabilmente si riverberano anche sulla configurazione del bene-acqua, in quanto oggetto del diritto soggettivo di proprietà oppure oggetto di interesse pubblico ed in questo caso sottratto alla appropriazione privata e demandato alla gestione dell’Ente pubblico per antonomasia, lo Stato.

Il dibattito attuale, al quale ho fatto un rapido cenno all’inizio di questo testo ruota ancora oggi attorno al modello giuridico e politico costituitosi con il razionalismo “moderno”, nel quale l’idea di “pubblico” era ciò che traduceva in termini laici l’antica tradizione dell’Acqua, come bene dotato di una propria “oggettività”, secondo il significato ontologico-metafisico sopra ricordato. La categoria del “pubblico”, infatti, era il mezzo che la Ragione dei “moderni” aveva allestito per sottrarre il “bene” a quella appropriazione “privata”, dunque soggettivamente esclusiva, quale si configura nell’istituto della proprietà di un bene tanto indispensabile alla vita.

Il dibattito attuale si sforza, anche, però, di trovare un via innovativa, che sganci la questione dalla alternativa “pubblico” / “privato”, per condurla su di un piano che riprende l’idea antica dell’Acqua come bene in sé, ovviamente nei modi consentiti dalle attuali categorie intellettuali, almeno quelle che, nella ispirazione di fondo, sono ancora debitrici alla “modernità”.

Nei termini attuali, tale idea può essere allora reinterpretata dalla categoria del “bene” sociale, dove la figura del “sociale” è pensata oltre la dicotomia classica pubblico / privato e, in questo senso, può essere apprezzata come il luogo ove si radicano ed hanno vigore i bisogni primari della vita, in sé considerata, come dato fondamentale dell’esistenza.

Rispetto alla tradizione “antica” non v’è dubbio che il “sociale” non ha alcun legame teoretico con l’ “ontologico-metafisico” di quella, poiché la sua origine nella soggettività empirica esclude quell’ “oggettività”, che è correttamente riconducibile, sotto il profilo epistemologico, ad una origine “totalmente altra”.

Tuttavia, la categoria del “sociale”, così come entra nel dibattito attuale, sia come argomenti che come finalità, può contenere due caratteristiche. Innanzitutto quella di mettere in forma una soggettività non solo meta, ma anche trans-individualistica, sottraendola al primato di quelle categorie politiche, che, attraverso l’identificazione con la sfera “pubblica”, ne circoscrivono l’identità ad un determinato ambiente. In secondo luogo, si può trovare nella emancipazione della soggettività “moderna” dalla dicotomia pubblico / privato, una inedita interpretazione del sociale alla stregua di quella soggettività in universale, che era la chiave di volta del razionalismo critico ancora una volta kantiano.

E’ senz’altro un’operazione a mio avviso finalisticamente meritoria, ma praticamente e ancora teoricamente ardita, poiché deve fare i conti con quello che si presenta come l’attuale “orizzonte di senso” dell’umano. Esso è popolato dall’individuo solo “empirico”, definito dal paradigma “pragmatista” e totalmente privo, quindi, di quella “soggettività” sicuramente empirica, ma aperta al metafisico ed allo storico, che, in vario modo, la Ragione dei “moderni” aveva cucito addosso all’ente uomo.

E’ probabilmente questa la ragione che induce Rodotà ad essere scettico circa una qualificazione essenzialistica del “bene”-Acqua e ricondurre una tale qualificazione ad una configurazione più tradizionalmente tipica, quale quella di “diritto fondamentale”. Se questa può essere una interpretazione possibile, allora credo che occorra sottolineare una distinzione.

La qualificazione come “diritto fondamentale” se, per un verso,  è una via efficace per rispondere alla necessità di istituire una tutela reale, in termini di “azionabilità”, per un diritto comune quale è l’accesso all’acqua, in quanto “bene” non suscettibile di appropriazione privata in nessun caso e sotto nessuna forma; per altro verso, trascura, e forse anche fraintende, il significato di quel profilo “esistenziale” originario, che, proprio nella sua qualificazione teoreticamente pregiuridica e prepolitica, può dar voce a quella esigenza di umanesimo integrale che attraversa l’attuale rivoluzione degli assetti del pianeta,non solo dal punto di vista politico e normativo, ma anche da quelli lato sensu meteorologici e ambientali.

All’interno del contesto che ha ispirato questa mia riflessione e che oggi la tematizzazione socio-politica torna opportunamente mettere in luce, voglio ricordare la posizione ancora di un privatista, attento per formazione, alle implicazioni politiche del diritto moderno, Mario Barcellona: un giurista che ben comprende come il diritto sia la rappresentazione ed interpretazione dottrinaria e normativa di un mondo “culturale”, che prende forma attraverso i registri intellettuali ed il “senso comune” di diverse epoche storiche.

Mario Barcellona in poche, ma efficaci righe, con gli occhiali del giurista “sensibile” (come si usa dire malamente), disegna con chiarezza lo scenario capace di interpretare l’Acqua come “bene” dell’umanità.

Nello scritto al quale mi riferisco, pensato in relazione al dibattito promosso da Maria Rosaria Marella che ho ricordato in precedenza[19], l’A. colloca la questione giuridica all’interno dell’orizzonte più ampio della “crisi dei significati nucleari della Modernità”[20].

Il punto che attraverso le parole di Mario Barcellona emerge, e che va sottolineato proprio nel contesto di una “globalizzazione” che mette in diretto contatto il mercantile e finanziario con mondi culturalmente assai disomogenei tra loro, consiste nel porre in continuità il sociale con l’antropologico. Continuità che ritengo sia un esercizio indispensabile della mente per la sopravvivenza dell’umano, almeno così come la cultura dell’occidente europeo lo ha coltivato, al di là delle tragedie politiche che pure lo hanno nei secoli segnato.


[1] “Oggi, si diceva – scrive con ironia acuta Silvano Petrosino – , nel nostro tardo capitalismo consumistico, gli chef sono chiamati ‘maestri’, in quanto tali, o supposti tali, essi si occupano del corpo, ma solo per appagare l’anima;..” (Pane e spirito, Vita e Pensiero, Milano 2015, p. 42).

[2] M.R. Marella, Per un diritto dei beni comuni. Introduzione a Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Ombre Corte, Verona 2012, p. 9.

[3] Ivi, p. 11.

[4] Lettera b della proposta di articolato.

[5] S. Rodotà, Postfazione, in M.R. Marella, op.cit., p. 329.

[6] Ivi, p. 328.

[7] Ibidem.

[8] Cfr. il testo di gradevolissima lettura di C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Cortina, Milano 2014, p. 17 e ss.

[9] D’altra parte egli stesso sembra cogliere un profilo ulteriore, che definirei senz’altro esistenziale, quando scrive: “Ma i beni comuni si distendono anche in una dimensione più larga dove, accanto al riferimento ai diritti fondamentali,  compare quello di una governo del cambiamento inteso come salvaguardia dell’ecosistema e della stessa sopravvivenza dell’umanità” (Ivi, p. 326).

[10] Quando il termine “acqua” evoca un orizzonte “metafisico” uso deliberatamente la A maiuscola.

[11] Ivi, p.169

[12] Attorno al legame tra spirito e simbolo, così come trattato da Jung, svolge opportune sottolineature, soprattutto se rapportate alla mentalità odierna, Elena Caramazza, introducendo e curando editorialmente un ciclo di conferenze tenute da C.G. Jung a Basilea nel 1934 (Introduzione alla psicologia analitica, Moretti e Vitali, Bergamo 2015, Prefazione, in part. pp.14 – 17).

[13]Su questi temi, e sulla loro presenza come tratto comune alle più diverse culture e quindi capaci di coglierne gli aspetti unificanti, cfr. un testo nel suo genere “classico”: G.de Santillana, H. von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Adelphi, Milano 20095, in part. pp. 312 – 321.

[14] Cfr., su questo punto, S. Anthonioz, L’eau, enjeux politiques e théologiques de Sumer à la Bible, Brill, Leyden 2009,  p. 415.

[15] Al tema del nesso pane – spirito dedica pagine ricchissime di tagli di lettura S. Petrosino, Pane e spirito, cit.

[16] Per un’analisi approfondita della ricchezza “evangelica” di questo tema, sia sotto il profilo teologico-teoretico, sia sotto quello linguistico, sia sotto quello critico-bibliografico, rinvio a A.M. Lupo, CP, La Sete, l’Acqua, lo Spirito. Studio esegetico e teologico sulla connessione dei termini negli scritti giovannei, Analecta Gregoriana, Pontificia Università Gregoriana, Roma 2003, p. 57 e ss. In part., con riferimento al significato cristologico del 6, 35, cfr. p.79 e ss.

[17] Cfr. ancora S. Petrosino, Pane e spirito, cit., del quale è opportuno ricordare le parole impresse nella quarta di copertina, per la loro incisività: "Non si tratta di opporre il pane allo spirito ma neppure lo spirito al pane; bisogna piuttosto riconoscere e vivere il pane come segno dello spirito e lo spirito come urgenza della condivisione del pane. L’uomo è l’aperto, talmente aperto da riuscire ad arrivare fino alla bocca dell’altro. Da questo punto di vista la carità è forse la forma antropologicamente più aperta di apertura, forse essa è il solo luogo all’interno del quale lo stesso pane, nella mano che lo porta alla bocca dell’altro, si trova trasformato in spirito. Forse l’uomo è un essere spirituale proprio perché sa rispondere al bisogno materiale dell’altro uomo. Forse la spiritualità di quell’essere spirituale che è l’uomo rivela il suo ultimo volto proprio nel pane spezzato e condiviso con l’altro. Forse la carità è l’umanità stessa dell’umano”.

 

[18] Il tema è attualmente ampiamente trattato dalle neuroscienze con approdi sconvolgenti per il nostro comune modo di pensare; sicuramente, però, il termine che ho usato “rappresentazione” non è molto lontano dal sottolineare lo scarto che esiste tra il modo nel quale noi percepiamo comunemente noi stessi, il nostro ragionare, valutare, decidere e ciò che accade nel nostro cervello prima ancora di averne coscienza. A questo tema Giulio Giorello dedica pagine estremamente problematiche, avendo come punto di osservazione la categoria fondativa dell’umano: la libertà; cfr., Libertà, Bollati Boringhieri, Torino 2015, in part. Cap. I.

[19] M. Barcellona, A proposito dei “beni comuni”: tra diritto, politica e crisi della democrazia, in Rivista critica di diritto privato, 2013, p. 433 e ss.

[20] Ivi, p.443.

Montanari Bruno



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