fbevnts Luigi Benvenuti, PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’, DIRITTI SOCIALI E WELFARE RESPONSABILE. UN CONFRONTO TRA CULTURA SOCIOLOGICA E CULTURA GIURIDICA

Principio di sussidiarietà, diritti Sociali e welfare responsabile. Un confronto tra cultura sociologica e cultura giuridica

28.10.2018

Luigi Benvenuti

Professore ordinario di Diritto amministrativo, Università Ca’ Foscari di Venezia

Principio di sussidiarietà, diritti sociali e welfare responsabile. Un confronto tra cultura sociologica e cultura giuridica*

Sommario - 1. Premessa. - 2. Brevi riflessioni intorno ai concetti di sussidiarietà orizzontale e amministrazione condivisa. - 3. La giustiziabilità dei diritti sociali tra prassi e teoria. - 4. Segue: Il mondo dei diritti e il ruolo della giurisdizione. - 5. Il paradigma dello sperimentalismo democratico. - 6. L’Unione Europea come ordinamento composito. - 7. La prospettiva globale. - 8. Per un Welfare responsabile. - 9. Soggetto e persona nel dispositivo biopolitico. - 10. Welfare responsabile e cultura giuridica. - 11. Una appendice in tema di sanità. - 12. Conclusioni.

 

1. Premessa

Con le note seguenti si intende dar conto dei contenuti del dibattito, attualmente in corso, circa la possibile revisione dei sistemi di Welfare, conseguente alle innovazioni e ai cambiamenti determinati dall’emergere di bisogni di sicurezza sociale, oltre che dall’affermarsi di nuove esigenze provenienti dalla società civile.

In effetti, la complessità dei fattori che generano i bisogni sociali, la velocità dei cambiamenti, la intervenuta liquidità dei rapporti intercorrenti tra privati, Stato ed istituzioni, pongono nuovi interrogativi inducendo risposte diversificate, mentre entrano in crisi sia il paradigma razionalistico, fondato sull’approccio razionale assoluto, sia le forme tradizionali di rappresentanza democratica.

Laddove, sempre più spesso, si tira in ballo il concetto di poliarchia, sottolineando la necessità di considerare che ogni attore fa parte di un sistema composito, nel quale sono presenti norme in contrasto tra loro, il che produce un aumento di discrezionalità, oltre che lo svuotamento progressivo della logica della gerarchia[1].

Con attenzione alle modalità di approccio al tema del Welfare da parte della scienza giuridica, si intende indugiare sul concetto di sussidiarietà, per poi trattare del tema dei diritti sociali, declinato tenendo conto sia dei contributi da parte della cultura giuridico-filosofica, sia di un particolare orientamento della dogmatica civilistica (par. 2-4).

Di seguito vedremo di discutere intorno ad altri modelli di Welfare, operando un confronto sul piano del metodo e dei contenuti, tra due recenti proposte provenienti dal versante sociologico, da un lato, e la cultura del più recente diritto amministrativo dall’altro (par. 5-7 e 8-11).

2. Brevi riflessioni intorno ai concetti di sussidiarietà orizzontale e amministrazione condivisa

Prendendo le mosse dal principio di sussidiarietà, esso come noto è stato declinato ora in termini verticali, in conformità ad una evoluzione normativa che contempla l’intervento circostanziato degli enti territoriali superiori rispetto a quelli minori; ora in termini orizzontali, trovando allora riscontro in precise norme interne e costituzionali, volte a enfatizzare il ruolo precipuo dei privati e delle formazioni sociali nella costruzione dell’ordinamento.

Specie con riferimento a quest’ultima prospettiva, come ben si è detto, la formula sintetica dell’art. 118, 4° comma della Costituzione si è prestata “a una gamma amplissima di interpretazioni (di cui pochissime obiettive), a cui hanno fatto seguito pratiche e applicazioni non soltanto diverse, ma a tratti anche confliggenti”[2].

Da tale punto di vista un posto a sé va riconosciuto all’indirizzo che, sottolineando “il valore aggiunto” della cittadinanza attiva, ha prospettato un possibile cambiamento di paradigma, incentrato sull’idea di una “amministrazione condivisa”, che possa essere in grado di rispondere alle istanze provenienti dall’alto e dal basso di miglioramento della qualità di quel bene comune rappresentato dalla democrazia[3].

Quel che colpisce di tale proposta interpretativa è innanzitutto la lente antideologica con cui viene ricostruita la vicenda evolutiva del sistema di Welfare.

Se per un verso si dà atto della portata innovativa del dettato costituzionale conseguente alla riforma del 2001, favorevole ad un allargamento di una sussidiarietà del pubblico non troppo intrusiva, ma destinata a garantire pre-condizioni di crescita diffuse e di assunzione autonoma di responsabilità solidali da parte dei cittadini, per altro verso si ritiene di non aderire a molte delle critiche rivolte alla riduzione neoliberista dei compiti di intervento pubblico, troppo spesso volte a demonizzare in modo pregiudiziale qualsiasi investimento finanziario privato, con l’accusa di piegare il carattere non profit a interessi meramente corporativi.

A fronte di una possibile declinazione della sussidiarietà in senso pubblicistico o in senso meramente privatistico, quel che si afferma è piuttosto la necessità di cercare una linea mediana che miri a conciliare le diverse istanze provenienti dall’alto e dal basso[4].

A conclusione di un’analisi che si avvale di ricerche empiriche che tengono conto del ruolo delle istituzioni e delle concretazioni intervenute in modi diversi ad opera della normativa regionale, la proposta è quella di un diverso modello di amministrazione, nel quale politica, amministrazione e cittadini convergono nel perseguimento dell’interesse generale.

Volendo utilizzare una concettuologia che troviamo specie in ambito sociologico, e su cui avremo modo di tornare più avanti, gli interventi di Welfare vengono immaginati non più come rispondenti alla logica dell’aut-aut, bensì a quella dell’et-et.

A tal fine, se la rivisitazione del ruolo della cittadinanza attiva non può non significare assunzione di responsabilità, l’idea di appartenenza ad una comunità induce ad interrogarsi sulla stessa formulazione di “un diritto ad avere diritti”.

I cittadini attivi sono autonomi e responsabili e un nuovo schema orizzontale e paritario, incentrato sul binomio “potere-responsabilità”, si sostituisce all’altro, verticale e gerarchico “diritto-dovere”, superando l’idea che il fatto di essere cittadini di uno Stato possa comportare pretese garantite a priori.

3. La giustiziabilità dei diritti sociali tra prassi e teoria

La prospettiva della sussidiarietà mira ad attenuare la nozione chiusa ed escludente della cittadinanza, potendosi argomentare riguardo al ruolo di un nuovo cittadino del mondo.

La questione si sposta allora su un piano ben più generale, quello del concetto stesso di diritto sociale, anch’esso oggetto di un ampio dibattito, che questa volta vede indirizzi importanti della cultura giuridico-filosofica dialogare con i settori più sensibili della dogmatica.

E il pensiero va subito al dibattito svoltosi nell’ambito della scuola italiana di filosofia analitica del diritto, che registra posizioni contrastanti in ordine all’approccio alla tematica della giustiziabilità dei diritti sociali.

Così, se da taluno i diritti fondamentali vengono intesi come regole e ad essi corrispondono obblighi o divieti di comportamenti determinati[5], per altri, che si pongono in linea con la prevalente dottrina costituzionalistica, essi sarebbero principi direttivi, per se stessi oggetto di ponderazione[6].

Inoltre, le direttive costituzionali risulterebbero prescrittive e non programmatiche, potendo fungere da parametro per il controllo di costituzionalità[7].

La questione è allora quella di definire con esattezza i differenti presupposti che renderebbero giustiziabili i diritti da parte del giudice, chiedendosi quali possano essere le eventuali ricadute del punto di vista teorico sul piano concreto.

Secondo un primo orientamento, la teoria del diritto avrebbe una struttura formale, essendo ad essa demandato il compito di costruzione di un sistema concettuale per il tramite di definizioni prestabilite, individuando le relazioni sintattiche relative[8].

Per tale orientamento, che vorrebbe essere espressione di un garantismo rigoroso, incentrato sul principio di separazione dei poteri, e in particolare sulla separazione fra legislativo e giudiziario, al giudice sarebbe precluso invadere la sfera della legittimazione politica, né giurisprudenza e dottrina sono ritenute vere fonti del diritto.

Alla teoria del diritto, nel solco di una tradizione strettamente positivistica, spetterebbe soprattutto un compito normativo, quello di garantire la tutela dei diritti ed eventualmente di prendere posizione circa la loro violazione, ovvero di sollecitare il legislatore a colmare le lacune[9].

Si tratta di una posizione assai rigida, che per un verso vorrebbe tenere separata la sfera del legislativo da ogni indebita incursione da parte della giurisprudenza; per altro verso demanda alla teoria del diritto (formale) il compito di una tutela allargata dei diritti, al fine di non lasciare in toto a dogmatica e giurisprudenza il bilanciamento degli interessi in gioco.

Il giudice troverà pertanto circoscritto il proprio campo di azione, e potrà argomentare esclusivamente a partire dal rigoroso confronto tra fattispecie normativa e caso concreto; e diverse potranno allora risultare le applicazioni, soprattutto in presenza di fattispecie controverse o in presenza di nuovi diritti.

Per contro, per altro indirizzo esplicitamente ispirantesi alle dottrine del realismo, la teoria deve limitarsi a conoscere sia il diritto che gli orientamenti di giurisprudenza e dottrina, assumendo un’autentica finalità descrittiva, senza accedere a compiti propriamente normativi[10].

Da tale punto di vista, quel che si constata è come spetti sia al giudice che al legislatore di bilanciare diritti spesso tra loro fortemente contrastanti; più in generale ogni decisione, sia essa legislativa, costituzionale, giudiziale, risulta essa stessa frutto di una sorta di bilanciamento tra vari interessi.

Di qui il superamento di una troppo rigida distinzione tra il piano legislativo e quello giudiziale; laddove tutti i principi (anche quelli costituzionali), essendo per definizione più deboli delle regole, esigerebbero di venir ponderati e ulteriormente specificati anche per il tramite di uno strumento argomentativo ragionevole.

Quel che muta in concreto è la percezione della normatività, e soprattutto il ruolo assegnato alla teoria dell’interpretazione, che, rientrando a pieno titolo nell’ambito della teoria del diritto, diviene vera attività di produzione di norme, che finisce per pervadere e condizionare lo stesso concetto di divisione dei poteri.

4. Segue: Il mondo dei diritti e il ruolo della giurisdizione

Ho detto più sopra, come si sia intrecciato un dialogo tra taluni settori sensibili della dogmatica e le due richiamate declinazioni della teoria del diritto, quella giuspositivistica e quella giusrealista.

E al proposito mi vengono in mente le pagine dense e profonde di un civilista, Stefano Rodotà, che negli ultimi scritti si è confrontato proprio con la tematica dei diritti sociali, operandone una rilettura e una rivisitazione che, mettendo al centro la formula arendtiana del diritto ad avere diritti, delinea con precisione i rapporti tra legislazione e giurisdizione, il ruolo dei diritti fondamentali, i presupposti per un diverso costituzionalismo dei diritti[11].

Il punto di partenza è, ancora una volta, il ruolo delle Corti, e lo spazio lasciato ad una sfera di indecidibilità, che peraltro non viene ricavata solo sul piano astratto della teoria, bensì calata nella storia, nella convinzione dell’avvento di una nuova era, l’età dei diritti.

Pur consapevole dell’esistenza di tesi critiche rispetto a un costituzionalismo irenico favorevole alla difesa della insaziabilità dei diritti fondamentali, quel che si sottolinea è la necessità di una politica internazionale destinata ad incorporarli, e che superi ogni rigurgito nazionalistico, affrontando le sfide di un nuovo mondo ove a maggior ragione andrebbe tutelata soprattutto la dimensione sociale.

L’estremo appello è a una diversa concezione della politica, mentre solo una corretta argomentazione giurisprudenziale potrà evitare situazioni di blocco, che deligittimerebbero lo stesso legislatore.

Riprendendo le tesi di Bobbio sull’età dei diritti, vi è implicitamente una presa di distanza da una concezione della teoria del diritto quale quella da ultimo richiamata dai contenuti meramente conoscitivi (giusrealismo)[12].

Per altro verso, anche la tesi del primo dei due orientamenti visti più sopra, che assegna alla teoria un ruolo normativo, viene sposata ma nel contempo calata nella lente della storia, nella ricerca di un cambio di paradigma che superi una divisione esclusivamente meccanicistica tra potere legislativo e potere giudiziario.

Solo così il diritto ad avere diritti finisce per assumere un nuovo significato, in grado di attingere a un diverso costituzionalismo dei bisogni, e a una politica intesa come politica dei diritti.

5. Il paradigma dello sperimentalismo democratico

Al termine del breve excursus su taluni itinerari della cultura giuridica più recente, e dopo aver indugiato dapprima su una peculiare declinazione della nozione di sussidiarietà, e poi sulla natura stessa del concetto di diritto sociale, quel che ora proverei a fare è di operare un confronto, per così dire sul piano del metodo e dei contenuti, tra due recenti proposte provenienti dal versante sociologico, da un lato, e la cultura del più recente diritto amministrativo dall’altro.

Una scienza del diritto amministrativo che, come vedremo, ha abbandonato sia i condizionamenti provocati da un eccesso di statalismo politicizzante (lo Stato gestore, interventista, redistributore), sia i retaggi di uno Stato di diritto attento a proteggere la propria dimensione minima, attribuendo al mercato l’autoregolazione dell’economia. Mentre diviene oggetto di discussione problematica la tematica dello Stato regolatore.

E inizio tale confronto partendo da una prima impostazione, che, devo dire, mi ha intrigato non poco, suscitando più di un interrogativo.

Si tratta della prospettiva, più volte richiamata anche da taluni scritti di Sabino Cassese, che passa con il nome suggestivo di “sperimentalismo democratico”[13].

Si tratta di un indirizzo che, esplicitamente ispirandosi al pragmatismo politico e filosofico di Dewey, opera una critica radicale nei confronti di vari paradigmi ben conosciuti, quale quello rappresentato dal modello principale-agente, ovvero altri affermatisi nel passato, quale quello del combinato disposto governo-controllo (tipico dell’epoca del New Deal).

Venendo al nucleo della proposta, come ben sintetizza Riccardo Prandini, “le istituzioni centrali attribuiscono autonomia a quelle locali, per perseguire scopi generali espliciti. Il centro monitora le prestazioni locali, colleziona informazioni di tipo comparativo e crea pressioni e opportunità per un miglioramento continuo a tutti i livelli. Il dispositivo […] si adatta a contesti connotati dall’incertezza e da contingenze che non possono essere calcolati in termini attuariali. Esso implica: 1. Una decentralizzazione con un contestuale coordinamento della loro valutazione, 2. La considerazione dei segnali di deviazione dalle norme come sintomi di problemi e opportunità di miglioramento, 3. La ricerca di trasparenza, 4. Una partecipazione degli stakeholder non obbligata normativamente”[14].

Tralascio altre caratteristiche della proposta, così come di indugiare su talune ricerche di Welfare verificate sul campo[15], e vengo a quelle che mi sembrano le applicazioni più interessanti.

L’una investe infatti l’Unione Europea, l’altra addirittura la dimensione globale.

Quanto alla prima, si dice che l’Unione Europea sarebbe l’esempio più tipico di sperimentalismo democratico.

Se per taluni essa mancherebbe innanzitutto di un demos unitario, omogeneo e definito da una storia comune, e mancherebbe di legittimazione democratica, sarebbero proprio queste, viceversa, per Sabel, le caratteristiche che dovrebbero indurre a definire l’Unione Europea come una poliarchia direttamente deliberativa e democratica, ma non basata sul principio della rappresentanza.

Si tratterebbe, per lui, di un processo sperimentale, di una nuova governance poliarchica (a più voci) e direttamente deliberativa (espressione di autonomia a livello locale).

La libertà portata dal mercato comune, infine, non sarebbe la prima fase di un processo di depoliticizzazione dell’Europa, bensì un processo di ripoliticizzazione secondo logiche diverse dal passato.

Una delle prove concrete a sostegno della tesi, è ad esempio la presenza della rete di comitati, in cui si confronterebbero e scontrerebbero interessi eterogenei, in cui un processo sperimentale di discussione avrebbe una funzione maieutica, alla luce di sempre nuove esperienze.

E naturalmente le caratteristiche della governance europea andrebbero integrate soprattutto includendo temi come quello del Welfare, dedicati alla salute, alla sicurezza pubblica, alla protezione sociale.

Qui mi fermo nella breve sintesi di questa parte del lavoro di Sabel che si occupa dell’Unione Europa, sottolineando come in una chiave per certi versi complementare è svolta la parte ulteriore dedicata all’emergere di un demos globale, anch’esso letto come espressione di una sorta di sperimentalismo democratico di cui si sottolineano vari esempi comparati con la prassi dell’Unione Europea.

A differenza di quest’ultima, non sarebbe possibile riscontrare una polity in senso proprio; né potrebbero avere effetto esperimenti di costituzionalizzazione a livello globale, pur se l’effettività delle norme ormai coinvolge la vita quotidiana delle persone, collegate in rete in modo stabile e continuativo.

6. L’Unione Europea come ordinamento composito

Ho anticipato come la lettura dell’opera complessiva di Sabel mi abbia posto più di un interrogativo, inducendomi a un confronto specie con lo stato dell’arte della cultura giuridica amministrativistica.

E il riferimento va innanzitutto a un noto lavoro del 2003 di Giacinto della Cananea, dedicato appunto proprio all’Unione Europea[16].

Quello che mi pare interessante è qui la convergenza con alcune delle tesi appena esposte di Sabel.

L’Unione Europea rappresenta infatti il luogo di uno costruzione di nuovo conio, di cui è necessario segnalare, per linee interne, il disegno dirompente rispetto al passato (che tiene conto anche della comitologia e delle prassi informali).

Vari gli elementi di vicinanza con la proposta sociopolitica di Sabel.

Un elemento non secondario di differenza è il tentativo riuscito di svolgere una sorta di analisi storico-comparata di Stati e ordinamenti ultrastatali.

I tratti distintivi di vari modelli di ordinamento composito proiettano l’intera ricerca su un piano più generale, operando un distacco dalla mera prospettiva pragmatistica (tendenzialmente caratterizzante l’opera di Sabel), provando a spiegare corsi e ricorsi di altrettanti sperimentalismi riscontrabili nel passato (forse si potrebbe parlare, per così dire, di uno sperimentalismo storicizzato).

7. La prospettiva globale

Per chiudere il confronto con la prospettiva sociologica di Sabel, un cenno va fatto alle sue riflessioni sulla dimensione globale.

Se specie dal livello globale giungono segnali inequivocabili dell’esistenza di formule innovative, non si possono allora non ricordare, in una dimensione per alcuni versi parallela, i contributi più recenti di Sabino Cassese, fondatore di una scuola che ha posto, a mio avviso, la cultura del diritto amministrativo su basi diverse dal passato, e le cui riflessioni hanno preso spunto negli ultimi anni proprio dall’osservazione dei fenomeni della mondializzazione[17].

In Cassese, vorrei dire, trovano concretezza sul piano normativo, ma con una punta di scetticismo critico, taluni degli spunti riscontrabili nell’opera di Sabel (non a caso a più riprese richiamata).

Enumero brevemente i caposaldi dell’analisi cassesiana, che ovviamente include in modo esplicito temi riguardanti il Welfare (quali quelli della salute, della sicurezza e protezione sociale).

Innanzitutto, la vicinanza tra scienza politica e diritto: global polity sostituisce l’espressione global governance, ponendo domande sul “reggimento politico”.

Esistono molti regimi settoriali, non gerarchicizzati, una sorta di costituzione globale composita, con molti signori feudali (in uno dei significati di poliarchia), che sono il prodotto di un processo frammentato e potremmo aggiungere sperimentale.

In senso verticale i governi, ad esempio, sarebbero mandanti e nel contempo mandatari.

In senso orizzontale, vi sarebbe una interconnessione, chiamata regime complex, ossia un insieme di regimi che si sovrappongono e che non sono ordinati gerarchicamente.

Punti precipui dell’analisi di Cassese sono, peraltro, le modalità concrete e diversamente innovative, in cui avverrebbe il rispetto delle norme (i surrogati al potere hobbesiano).

E poi l’affermarsi di un “giusto procedimento” anche a livello globale, effettivo, pur se ancora meno efficace di quello nazionale, consistente in “apertura, partecipazione, consultazione, trasparenza, obbligo di motivazione e controllo giurisdizionale”, con la conseguenza che la Rule of Law nell’arena globale sarebbe ancora sperimentalmente in via di completamento[18]. Qui andrebbe segnalata la quinta delle direttive Ocse del marzo 2018, che nell’elaborazione di nuove strategie per la lotta alla corruzione bypassa i governi facendo esplicito riferimento alla necessità di continui adattamenti e di nuovi sperimentalismi desumibili dalla prassi[19].

Norme sociali e norme giuridiche spesso appaiono contigue. Basti pensare alla nozione di raccomandazione o di consiglio, secondo una linea che potrebbe rifarsi all’opera di Christian Thomasius (1655-1728), e che arriva fino a Bobbio, ma che ora resta in attesa di verifiche empiriche sul piano normativo e delle prassi sociali a livello globale[20].

Respinta l’idea di una troppo semplicistica governance multilivello, l’analisi di Cassese è incentrata sui rapporti tra diritto pubblico e diritto privato.

A differenza di altri Autori (penso a Teubner) che valorizzano le esperienze privatistiche (Teubner è come noto sociologo con formazione giusprivatistica)[21], in Cassese prevale l’idea di una ibridazione che porta alla costruzione di un nuovo diritto amministrativo, che pur tiene esplicitamente conto dei materiali e del lessico fondativo del diritto privato, ma che viene letto come un esperimento sui generis, che valorizza altrettanto gli strumenti e le tecniche pubblicistiche, in linea con talune dottrine recenti presenti ad esempio in Francia[22].

Infine, peculiare attenzione è rivolta al profilo giudiziario in ambito globale.

Volendo trarre una conclusione, va sottolineato come proprio l’attenzione analitica per i profili di ordine giudiziario, fa emergere tutta la complessità dell’operato di arbitrati, Corti, panels, ancora alla ricerca di assestamento.

Anche il modello statunitense di tipo adversarial, con un ruolo creativo degli avvocati, dà l’impressione tuttora di mancata efficienza, anche per l’assenza di vere forme di accountability.

Il diritto globale, da vari punti di vista, è soprattutto un diritto amministrativo in via di costruzione.

Diversa è da tale punto di vista la prospettiva maggiormente statualistica di Nagel, ma anche quella di Sabel.

In particolare, se nell’analisi di quest’ultimo finisce per prevalere una sorta di ottimalismo, che lo porta ad enfatizzare ad esempio i caratteri di flessibilità e di adattamento ai cambiamenti di istituzioni globali quali il WTO, emerge viceversa dall’analisi di Cassese una sorta di distacco critico, che lo porta proprio con riferimento al WTO a registrare “la mancanza di trasparenza nei processi decisionali; la presenza di ostacoli alla partecipazione dei gruppi interessati; l’assenza di un corpo politico che siano collegati sia all’organizzazione sia ai suoi sostenitori”[23].

Quanto al diritto di partecipazione dei privati nei confronti delle amministrazioni nazionali, esso sarebbe spesso oggetto di norme globali, quali le linee guida della Banca mondiale per una valutazione congiunta del personale sulla strategia della riduzione della povertà, che rivolte ai paesi poveri, richiedono appunto il coinvolgimento dei privati soprattutto per la elaborazione di politiche pubbliche appropriate e volte al sociale[24].

8. Per un Welfare responsabile

Il mondo in cui viviamo non vive di logiche univoche e mi propongo dapprima di discutere della recente proposta di un Welfare responsabile, prospettata da parte di un autorevole orientamento sociologico, che vorrebbe valorizzare soprattutto le istanze solidaristiche incentrate su una diversa idea di persona[25].

Successivamente, focalizzando l’attenzione sul piano dei contenuti e del metodo, vedremo di operare un confronto tra tale indirizzo e taluni recenti svolgimenti della scienza giuridica.

La proposta di cui si discute appare in linea con il superamento dello schema classico incentrato sulla mera logica dell’aut-aut, sostituita ora da quella dell’et-et; inoltre tra scala macro e scala micro prevarrebbe una dimensione mediana, flessibile e non aprioristica (c.d. meso), in cui finisce per emergere in tutta la sua importanza l’integrazione tra pubblico, mercato e terzo settore, nonché l’affermarsi di ambiti quali l’educazione e l’ambiente, da intendersi come moltiplicatori di responsabilità.

A livello meso campeggia “una concezione delle relazioni sociali basate sul dialogo, sul confronto, pure sul conflitto se necessario, ma destinate a costruire intermediazione e quindi coesione sociale, valorizzando spazi sociali di prossimità”[26].

Pur assumendo come strategico il livello meso, l’ipotesi del Welfare responsabile valorizza anche gli altri livelli, quello macro e quello micro.

Quanto al primo, l’idea di uno Stato regolatore viene accolta, pur sottolineandosi la necessità di una assunzione di responsabilità tramite modalità partecipate, ad esempio nella stesura di leggi quadro.

Così pure il livello micro resta anch’esso in attesa di una diversa valorizzazione accanto alle altre dimensioni, e di integrazione “tra cura formale (dei servizi professionali) e cura informale (delle reti di prossimità), tra saperi professionali (degli operatori) ed esperienziali (degli utenti e dei loro familiari caregiver)”[27].

Esplicitando in termini empirici la proposta, diventano oggetto di studio sia il Welfare comunitario, che quello aziendale e municipale.

Quanto al primo, esso si basa sulla solidarietà e vorrebbe coinvolgere forme di domiciliarità allargata e servizi di prossimità, con la creazione di interconnessioni e di un tessuto reticolare che investe ad esempio i rapporti di vicinato.

Quanto al secondo, quello aziendale, esso rivolgendosi alle imprese, presuppone il potenziamento della capacità di innovazione, nonché la struttura reticolare delle agenzie di Welfare, con un coinvolgimento attivo degli attori, al di là di ogni logica burocratico-gerarchica.

Infine, vi è il Welfare municipale che vede le istituzioni pubbliche locali in partnerariato con cittadini e altri attori, secondo diverse figurazioni.

Un discorso a sé stante va fatto con attenzione all’idea di persona, che è un po’ al centro dell’intera ricerca.

Va infatti senz’altro rimarcato come essa viene contrapposta al concetto di individuo, considerato troppo astratto e generale, in quanto finirebbe per “astrarre l’essere umano dal suo contesto relazionale” cogliendolo “nella sua generalità (cioè uno dei tanti), piuttosto che nella sua unicità”[28].

Al proposito va precisato come tale posizione appare singolarmente vicina al punto di vista – analizzato nel paragrafo 4 – di quella parte della cultura giuridica che si dimostra attenta, pur per finalità dettate prevalentemente dalla narrazione dei diritti, a mettere al centro la categoria della cittadinanza e il processo di costituzionalizzazione per un “allargamento dei diritti dell’uomo nel passaggio dall’uomo astratto all’uomo concreto”[29].

9. Soggetto e persona nel dispositivo biopolitico

La questione merita peraltro qualche riflessione ulteriore, e va subito detto come l’intero dibattito tagli trasversalmente settori diversi del pensiero contemporaneo.

Per un verso, infatti, vi è chi si chiede se proprio il richiamo alla persona serva davvero “a riattivare la dinamica inceppata dei diritti dell’uomo”, a fare “dell’uomo il soggetto naturale del diritto e del diritto l’attributo irrevocabile dell’uomo”[30].

Rispondendo negativamente, tale orientamento sottolinea le metamorfosi e gli sdoppiamenti della nozione – ora maschera, ora entità spirituale, ora soggetto immateriale e secolarizzato – supponendo la possibilità di un superamento della stessa nella direzione della dimensione dell’impersonale, di una terza persona di cui sfuggono peraltro precisi connotati e contorni[31].

Talora specie nell’ambito di una riflessione che coinvolge il versante della biopolitica, si è creduto opportuna una riappropriazione della nozione di soggettività, considerata più autentica, come quella che finirebbe per svelare fino in fondo i meccanismi di scavalcamento tra soggezione e assoggettamento, laddove il richiamo alla persona conserverebbe una finalità edulcorante, subordinando “la funzione di una parte alla padronanza dell’altra”.[32]

Al di là di ogni ricognizione di ordine storico circa l’anteriorità dell’un concetto rispetto all’altro e circa il significato di entrambi, un fatto è certo.

Vale a dire come la ricerca di tanta parte del pensiero filosofico contemporaneo e specie di quello che più ha riflettuto sul dispositivo biopolitico, di uscire dai dilemmi intrinseci alla dialettica della soggettività, finisce per sfociare in una terra di nessuno, ove la nozione di impersonale, la “terza persona” risulta declinata in termini almeno all’apparenza venati da profili di ambiguità.

Così, accanto a chi affronta il percorso di una biopolitica al negativo, contrapponendo diritto e persona all’idea di giustizia[33], vi è chi all’estremo opposto enfatizza gli aspetti vitalistici, trovando nel senso della vita la ragione di una nuova affermatività. Ma anche qui si va da un impersonale vissuto singolarmente, tentato da pulsioni irrazionali, a una più contenuta idea di immanenza “senza giudizi né redenzioni, dove eventi pre-individuali e impersonali si intrecciano, indifferenti a barriere artificiose, con relazioni inedite e insensibili a controlli, vittorie e sconfitte”[34].

Si tratta dunque di un panorama composito, denso e sempre pronto a esiti consistenti in de-soggettivazioni impolitiche, ove il rapporto tra il singolo e il molteplice, tra le ragioni del diritto e quelle della giustizia finiscono per assumere tinte problematiche, ponendo interrogativi non secondari specie alle scienze sociali.

È qui, però, che sociologia e diritto trovano appunto un terreno di incontro.

Al diritto, che parla di solidarietà, richiamando ancora una volta l’idea di persona, fa eco la proposta di un Welfare responsabile, ove pure la persona è collocata su un piano concreto, che tiene conto della storicità dei processi reali.

Ma viene allora da chiedersi quale sia la vera cifra di differenza tra diritto e sociologia, tra il metodo della giurisprudenza e l’approccio delle scienze della società.

10. Welfare responsabile e cultura giuridica

Al proposito si vuol prender le mosse proprio dei contenuti di fondo della ricerca di un Welfare responsabile – quali delineati nel paragrafo 8 – proponendo di seguito alcune riflessioni critiche.

E va subito detto come l’idea di prendere come paradigma di tipo euristico la cosiddetta dimensione “meso” appare a chi scrive senz’altro suggestiva, anche perché, sposata la logica dell’et-et, anziché quella dell’aut-aut, essa permette di scavare in quegli spazi sociali di prossimità troppo spesso pretermessi anche dalle ricerche sul campo.

D’altra parte i raccordi necessari con le altre due dimensioni (quella macro e quella micro) appaiono indispensabili, laddove le verifiche di tipo empirico che fanno da corollario al saggio introduttivo della ricerca, confermano la stretta interconnessione tra i diversi profili.

Un altro aspetto degno di nota appare la tripartizione dello studio nella prospettiva municipale, aziendale e comunitaria, ciò permettendo una completa esposizione della tematica, all’insegna, come si è rimarcato più sopra, di una diversa idea di soggetto e di responsabilità.

Ciò precisato, è d’uopo segnalare qualche profilo problematico.

Un primo attiene soprattutto alle modalità di raccordo con il mondo del diritto, talora apparendo tra le righe una sorta di giudizio critico rivolto al mondo degli operatori e senz’altro al sistema delle norme nel suo complesso.

Da tale punto di vista, non del tutto soddisfacente appare allora la sottolineatura di un presunto atteggiamento burocratico o di una sotterranea difesa del modello gerarchico da parte del ceto dei giuristi, o almeno senza precisare se il riferimento riguarderebbe la giurisprudenza scientifica o quella pratica, il sistema normativo o le prassi consolidate.

E invece, si vorrebbe aggiungere, proprio un più stretto raccordo con la componente giuridica, definita e delineata in modo maggiormente preciso, permetterebbe alla proposta di cui si discute, non tanto di assumere le vesti di una vera e propria sociologia del diritto, ma quantomeno di porre le premesse di una sociologia nel diritto, ove l’analisi dei meccanismi produttivi della giuridicità contribuirebbe a spostare su un piano davvero concreto l’intera ricerca[35].

11. Una appendice in tema di sanità

Al fine di rendere maggiormente esplicite tali osservazioni, si vuol indugiare in via esemplificativa sulle vicende relative alla sanità, che hanno formato oggetto nel tempo di varie modifiche, che la cultura giuridica ha preso ad oggetto per formulare un giudizio critico circa il modello di Welfare proposto.

Uno dei temi più discussi è, al proposito, quello della partecipazione dei privati all’erogazione dei servizi sanitari, che, come noto, dopo la revisione dei primi anni ‘90 consta di ben quattro passaggi[36].

Vi è dapprima, a partire dal decreto legislativo n. 502 del 1992, modificato con il decreto legislativo n. 517 del 1993, e con la legge n. 724 del 1994, la messa in concorrenza di erogatori pubblici e privati; e al tradizionale modello di erogatore di assistenza sanitaria si aggiunge quella del committente.

In questa fase emerge un primo profilo critico, consistente nel mancato contenimento della spesa sanitaria, il che ha indotto alle correzioni successive intervenute con il decreto legislativo n. 229 del 1999.

A seguito di tale riforma la Regione è divenuta in grado di determinare le strutture da accreditare, di indicare il volume delle prestazioni, ricorrendo allo strumento della programmazione.

Un primo passaggio consiste nella autorizzazione alla costruzione delle strutture, un secondo riguarda l’autorizzazione all’esercizio di attività sanitaria.

Ma è a tal punto che si è perso il controllo dei contenuti, perché indeterminata appare la delibera a livello nazionale che definisce i requisiti minimi, sulla base di principi elastici e flessibili e che contempla che ciascuna Regione possa prevedere requisiti ulteriori rispetto a quelli fissati dallo Stato.

E vi sarebbe allora spazio per una analisi più approfondita allo scopo di verificare sul campo le modalità con cui si è riempito lo spazio di indeterminatezza concesso dalle norme.

Si tratta di una indagine che potrebbe darci qualche elemento in ordine al ruolo dello Stato e delle Regioni nell’intera vicenda, approfondendo dunque la dimensione macro anche dal punto di vista normativo.

A maggior ragione ulteriori questioni pongono le fasi successive, quelle cioè dell’accreditamento e degli accordi contrattuali.

Quanto alla prima, ad esempio, essa essendo legata alla programmazione regionale, risente ovviamente della politica praticata a livello di piano sanitario, venendo in evidenza oltretutto eventuali livelli locali, anche per corrispondere alle esigenze della assistenza integrativa.

Risultando il rilascio dell’accreditamento certamente discrezionale, si tratterà di verificare pure qui di che tipo di discrezionalità si tratti, facendo tesoro di quelle ricerche sociologico-giuridiche che negli ultimi anni hanno contribuito a svelare i ragionamenti intrinseci degli attori istituzionali e delle parti sociali[37].

Infine vi è la fase convenzionale, e cioè gli accordi con le strutture pubbliche e i contratti con le strutture private.

In questo caso, come noto, vari sono i contenuti di accordi e contratti che potranno essere interpretati in senso più o meno paritario, e solo una analisi empirica potrebbe essere in grado di verificare lo stato dell’arte delle prassi formali e informali, le modalità in cui gli enti pubblici intendono la programmazione[38].

Ulteriore forma collaterale è quella delle sperimentazioni gestionali, ove ancora una volta pubblico e privato si combinano in un ibrido tutto da decifrare.

Si tratta forse di un soggetto differente che potrebbe assumere nomina diversificati, e per cui resta la ricerca del rapporto intercorrente tra forma e sostanza.

Altrettanto controverso, e bisognoso di verifiche, è ovviamente il sistema di accreditamento dei servizi sociali, ove non è chiara la relazione tra sfera del pubblico e sfera del privato, che finiscono per costituire un ibrido apparentemente inestricabile[39].

In presenza di vaghezza delle norme, l’interprete dovrebbe quantomeno tener conto pure delle prassi[40].

12. Conclusioni

Il discorso appena svolto è limitato all’analisi delle normative, e potrebbe dar spazio a una ricerca che andrebbe ad integrarsi con il modello del Welfare responsabile.

Altro filone di indagine dovrebbe essere quello dedicato alle ideologie e alla posizione assunta dalla cultura giuridica italiana in ordine ai temi inerenti lo stato sociale.

Fino a che punto essa è stata in grado di superare lo schermo del purismo normativo, aprendosi verso nuovi orizzonti, che vadano al di là dei condizionamenti burocratici e di un’idea della organizzazione di tipo gerarchico.

In tal senso si vorrebbe ribadire quanto si accennava nelle pagine precedenti, vale a dire come negli ultimi anni, anche in scuole e indirizzi molto diversi tra loro, è prevalso un atteggiamento di apertura e quasi di curiosità verso studi e ricerche tipiche delle scienze sociali, il che ha portato una ventata di novità in un diritto amministrativo classico, nel passato fin troppo cristallizzato su temi tradizionali.

Perdurano peraltro tuttora talune differenze che è d’uopo rilevare, e che testimoniano circa la sussistenza di diverse sensibilità in ordine ai rapporti tra sfera del pubblico e sfera del privato, tra livello istituzionale e di governo e il mondo del terzo settore e del mercato.

Così ad esempio potrebbe rilevarsi una sorta di contrapposizione tra un indirizzo di scuola milanese, ben attento ad enfatizzare i profili solidaristici e partecipativi intrinseci e connaturati a una certa idea di Repubblica, contestando dunque un presunto eccesso di interventismo da parte del governo e delle istituzioni centrali, ed altri indirizzi, maggiormente attenti a una differente modulazione del “pubblico”, ciò specie a seguito di una rivisitazione degli apparati e dei profili di ordine organizzatorio[41].

Ebbene proprio con attenzione alla tematica del diritto sanitario e dei diritti sociali, tale contrapposizione risulta ben visibile financo a livello manualistico, ove vengono in luce e si confrontano due visioni diverse della dialettica intercorrente tra sfera del pubblico e sfera del privato.

Così vi è chi, nella prima direzione, mettendo in luce le finalità solidaristiche del sistema, e l’utilità di un pluralismo istituzionale aperto al privato e al terzo settore, che possa corrispondere “flessibilmente e dinamicamente ai diversi bisogni”, ha inteso valorizzare i governi regionali e locali, così come la dimensione del privato sociale, orientandosi ad una analisi delle pratiche oltre che delle norme formali.

In tale prospettiva la stessa necessità di contenimento dei costi non dovrebbe limitare il ruolo delle Regioni e specie la valorizzazione della potestà legislativa esclusiva, troppo spesso viceversa ricalcata sul modello centralistico[42].

In una posizione diversa, ma non necessariamente antitetica, si pone viceversa l’altro indirizzo, ben attento a ricalibrare poteri e funzioni, suggerendo una riorganizzazione degli apparati, anche per il tramite di una ridefinizione del ruolo delle Province, fonti di nuove conoscenze e presupponenti un diverso coordinamento istituzionale.

Qui la Repubblica, si vorrebbe dire il concetto stesso di Repubblica, pare divenire il luogo in cui, dall’alto, vengono programmati gli interventi sia in materia di sanità che di diritti sociali[43].

Utilizzando una concettuologia che abbiamo visto caratterizzare la ricerca sociologica, forse potrebbe dirsi che per il primo orientamento pubblico e privato coesisterebbero nella ricerca di spazi di prossimità; per l’altro indirizzo, a prevalere sarebbe una pur rivisitata funzione “macro”, in cui peraltro Stato, Regioni e enti locali devono coordinarsi con un privato sociale in evoluzione.

Ciò precisato, resta comunque la sensazione che il comune richiamo a principi importanti come quello di persona, libertà e responsabilità, potrebbero restare lettera morta, mero flatus vocis, senza un ulteriore lavoro di affinamento degli stessi, anche nella loro proiezione giuridica.

Il che non dovrebbe prescindere da un cambio di paradigma di base, che miri a valorizzare le potenzialità di un nuovo Welfare davvero responsabile.

 

 

Key words: Social rights, welfare, democratic experimentalism, biopolitics.

Abstract: After a short reflection on the issue of horizontal subsidiarity and social rights, taking into account contributions from different disciplines, the essay analyzes some welfare models, making also a comparison between sociological and legal culture.


*Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review

[1] Per una sintesi approfondita delle questioni poste da una possibile revisione dei modelli di Welfare cfr. G. Bertin, Welfare regionale in Italia, Venezia, 2012; Id., Social innovation e politiche di Welfare in Salute e Società, I, 2015, p. 37 ss. Sul concetto di poliarchia vedi esemplificativamente Dahl-Lindblom, Politics, Economics and Welfare, New York, 1953, sec. rist., Transaction publishers, 1992; C.F. Sabel, Esperimenti di nuova democrazia. Tra globalizzazione e localizzazione, Roma, 2013; G. Teubner, La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione. L’emergere delle costituzioni civili, Roma, 2005.

[2] R. Bin, G. Pitruzzella, D. Donati, Lineamenti di diritto pubblico per i servizi sociali, Torino, 2014, p. 285.

[3] AA.VV., Il valore aggiunto. Come la sussidiarietà può salvare l’Italia (a cura di G. Arena e G. Cotturri), Roma, 2010; e vedi già G. Arena, Cittadini attivi. Un altro modo di pensare all’Italia, Roma-Bari, 2006.

[4] Così la scelta di esternalizzazione dei servizi pubblici di fatto può risolversi in opportunità, laddove il meccanismo delle privatizzazioni potrebbe ridurre il deficit di bilancio, contribuendo al superamento di quel modello di Stato assistenziale controbattuto dalle riforme perseguite dalla Unione Europea.

[5] L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, in Id. (a cura di) Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Roma-Bari, 2001, p. 5 ss.

[6] Cfr. R. Guastini, Il diritto come linguaggio. Lezioni, Torino, 2006; Id., Dalle fonti alle norme, Torino, 1992.

Per la dottrina costituzionalistica vedi A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali, Parte generale, Padova, 2003; C. Colapietro, La giurisprudenza costituzionale nella crisi dello Stato sociale, Padova, 1996; F. Modugno, I “nuovi diritti” nella Giurisprudenza Costituzionale, Torino, 1995.

[7] Vedi peraltro sui limiti dei diritti sociali fondamentali come pretese azionabili, esemplificativamente Corte Costituzionale sent. n. 275/2016.

[8] L. Ferrajoli, Principia juris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. II, Teoria della democrazia, Roma-Bari, 2007, p. 19 ss.

[9] L. Ferrajoli, Dei diritti e delle garanzie. Conversazione con Mauro Barberis, Bologna, 2013, specie p. 63 ss.

[10] Cfr. in generale, per l’orientamento del realismo, con attenzione alla tematica del ragionamento giuridico, G. Pino, Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, Bologna, 2010, che ponendo al centro i diritti fondamentali prova a ripensare ai rapporti tra potere legislativo e potere giudiziario. In tal senso il ragionamento giuridico è avvicinato al ragionamento morale e alla decisione politica, e si prende le distanze dal positivismo legalista ottocentesco.

[11] S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006, specie pp. 9-72; Id., Il diritto ad avere diritti, Roma-Bari, 2012, p. 41 ss.

[12] Cfr. N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, 1990, e sul punto S. Rodotà, op. ult. cit., p. 65.

[13] Il richiamo è al volume di C.F. Sabel, Esperimenti di nuova democrazia, cit., che riunisce vari saggi, ad esempio quello scritto con J. Cohen, Global democracy? in New York University Journal of International Law and Politics, vol. 37, n. 4, 2005.

[14] Cfr. R. Prandini, Esperimenti di (nuova) democrazia: come salvare l’esperienza democratica nell’epoca della sua crisi in C.F. Sabel, Esperimenti di nuova democrazia, cit., p. 23.

[15] Il riferimento è a due studi che riguardano rispettivamente i servizi per l’infanzia a rischio erogati in Alabama e nello Utah, e i servizi sperimentali in Finlandia.

[16] Cfr. G. Della Cananea, L’Unione Europea. Un ordinamento composito, Roma-Bari, 2003.

[17] Cfr. S. Cassese, Lo spazio giuridico globale, Roma-Bari, 2003; Id., Il diritto globale, Torino, 2009; Id., Chi governa il mondo?, Bologna, 2013. In generale vedi anche S. Battini, Amministrazioni senza Stato. Profili di diritto amministrativo internazionale, Milano, 2003; Id., L’impatto della globalizzazione sulla pubblica amministrazione e sul diritto amministrativo: quattro percorsi, Giornale di diritto amministrativo, n. 3, 2006, p. 339 ss.; L. Casini, Diritto amministrativo globale, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, 2006.

[18] Cfr. S. Cassese, Chi governa il mondo?, cit., p. 42 ss.

[19] In generale per la capacità adattiva delle procedure amministrative e circa le garanzie partecipative vedi ora, B.L. Boschetti, La de-strutturazione del procedimento amministrativo. Nuove forme adattive tra settori e sistemi, Pisa, 2018, specie p. 201 ss.

[20] Cfr. N. Bobbio, Studi per una teoria generale del diritto, Torino, 1970, p. 49 ss.

[21] Sul pensiero di Teubner vedi di recente R. Prandini, Distinguere aude! Il Grand Récit sociologico di Gunther Teubner, in Il diritto frammentato (a cura di Alberto Febbrajo, Francesco Gambino), Milano, 2013, p. 215 ss.; C. Camardi, Certezza e incertezza nel diritto privato contemporaneo, Torino, 2017, p. 197 ss.

[22] Cfr. J-B. Auby, La globalisation, le droit et l’Etat, Paris, LGDJ, 2010.

[23] Cfr. S. Cassese, Chi governa il mondo?, cit., p. 54.

[24] Cfr. S. Cassese, op. ult. cit., p. 69.

[25] Cfr. V. Cesareo, Welfare responsabile, Milano, 2017.

[26] Cfr. V. Cesareo, op. ult. cit., p. 16.

[27] Cfr. V. Cesareo, op. ult. cit., p. 15.

[28] Cfr. V. Cesareo, op. ult. cit., p. 7.

[29] Cfr. S. Rodotà, Il diritto ad avere diritti, cit., p. 101, con un richiamo a N. Bobbio, L’età dei diritti, cit.

[30] Così R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Torino, 2007, p. 91.

[31] Cfr. R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Torino, 2010, specie p. 258 ss.

[32] Cfr. R. Esposito, Pensiero vivente, cit., p. 261. In una prospettiva giuridica vedi M.R. Marella, Il fondamento sociale della dignità umana. Un modello costituzionale per il diritto europeo dei contratti, in Riv. Critica di diritto privato, 2007, p. 67 ss.

[33] Cfr. S. Weil, La persona e il sacro, in Oltre la politica. Antologia del pensiero impolitico, a cura di R. Esposito, Milano, 1996. Sul pensiero di Simone Weil, cfr. A. Putino, Un’intima estraneità, Roma, 2006.

[34] Cfr. L. Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, Roma, 2012, p. 119, che operando un raffronto tra l’opera di Deleuze e quella di Esposito, sottolinea la cancellazione nei testi di quest’ultimo “della intensificazione vitalistica e dell’enfasi sulla produttività desiderante”.

[35] Per un approccio che tiene conto di taluni aspetti delle scienze sociali, anche con attenzione al meccanismo di produzione del diritto e alla discrezionalità amministrativa, si rimanda a L. Benvenuti, Lingua e potere nel diritto dell’amministrazione pubblica, Torino, 2017, specie p. 94 e 119 ss.

[36] Per questa parte della trattazione, si rimanda al lucido lavoro di A. Pioggia, Diritto sanitario e dei servizi sociali, Torino, 2017, specie p. 116 ss.

[37] Cfr. esemplificativamente, M. Quiroz Vitale, Il diritto liquido, Milano, 2012.

[38] Quanto al contenuto degli accordi essi hanno ad oggetto esemplificativamente gli obiettivi di salute e i programmi di integrazione dei servizi; il volume massimo di prestazioni che le strutture presenti nell’ambito territoriale delle ASL si impegnano ad assicurare, distinto per tipologia e per modalità di assistenza; i requisiti del servizio da rendere, con particolare riguardo ad accessibilità, appropriatezza clinica e organizzativa, tempi di attesa e continuità assistenziale; il corrispettivo preventivato a fronte delle attività concordate ed effettivamente erogate; il debito formativo delle strutture erogatrici per il monitoraggio dei contratti ed accordi; le modalità per garantire il rispetto del tetto di spesa.

[39] Vedi sul punto A. Albanese, Diritto all’assistenza e servizi sociali, Milano, 2007, e con piena consapevolezza della problematica A. Pioggia, Diritto sanitario e dei servizi sociali, cit., p. 169, che dà conto pure dei diversi modelli della Regione Lombardia e della Regione Marche. Ulteriori problemi sorgono nell’analisi delle concrete modalità programmatorie, anche per il moltiplicarsi di fondi settoriali e per il mancato coordinamento, con un rimando alla rete della protezione e dell’inclusione sociale.

[40] Cfr. sulla vaghezza del linguaggio normativo, L. Benvenuti, Lingua e potere, cit., p. 63 ss.

[41] In generale, per i diversi orientamenti di cui al testo, si rimanda a L. Benvenuti, Diritto e amministrazione. Itinerari di storia del pensiero, Torino, 2011, specie p. 43 ss.

[42] Vedi esemplificativamente per questo orientamento il bel saggio di E. Codini, in Manuale di diritto dei servizi sociali, Torino, 2015, con prefazione di G. Pastori; e vedi pure le condivisibili riflessioni sul servizio pubblico, il principio personalistico e la libertà di scelta dell’utente, di S. Frego Luppi, Manuale di diritto dei servizi sociali, Torino, 2015, p. 33-46.

[43] Esemplificativo dell’indirizzo è il manuale di A. Pioggia, Diritto sanitario e dei diritti sociali, cit.; Id., Servizi e disservizi. Piccolo contributo alla ricerca del senso pubblico del servizio, in Costituzionalismo.it, I, 2017, ove sostituendo l’ottica del disservizio a quella del servizio, si sottolinea come l’amministrazione sia tutto sommato un intermediario debole e l’utente un consumatore egoista, aderendosi all’idea che sia la politica a dover immaginare regole diverse da quelle meramente privatistiche.

Benvenuti Luigi



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