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Note sul regime successorio dei dediticii Aeliani in Gai. 3.74-76

26.02.2018

Maria Antonietta Ligios

Professore Associato di Diritto Romano, Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”

Note sul regime successorio dei dediticii Aeliani in Gai. 3.74-76*

Sommario: 1. Premessa. - 2. Gai. 3.74-76: la lex Aelia Sentia e il problema della successione dei liberti Aeliani. - 3. Gai. 3.56: la disciplina successoria dei liberti Latini (Iuniani). - 4. Le lacune della lex Aelia Sentia in materia successoria e l’intervento dell’interpretatio giurisprudenziale. - 5. Un confronto con Frg. Berol. 1.2. - 6. Gai. 1.29 e il problema della successione cronologica tra lex Iunia e lex Aelia Sentia. - 7. Il dibattito giurisprudenziale sul destino dei bona dei liberti dediticii: Gaio e i plerique. - 8. Le fictiones di piena cittadinanza e di latinità e le loro conseguenze sul piano successorio nell’ottica di Gaio.

 

  1. Premessa

Nell’ampia trattazione che Gaio dedica alla materia dei bona libertorum[1] (Gai. 3.39-76) trova spazio, proprio in conclusione (Gai. 3.74-76), un approfondimento specifico dedicato al regime successorio dei beni dei liberti che rientrano nel novero dei dediticii Aeliani[2]. Come ricorda lo stesso Gaio nella pars delle sue Istituzioni dedicata alle personae (Gai. 1.13-16), questa categoria di liberti era stata creata dalla lex Aelia Sentia[3] (4 d. C.),la quale aveva stabilito[4] che gli schiavi che fossero stati messi in catene dai proprietari per punizione o che fossero stati marchiati o messi alla tortura e condannati per aver commesso un delitto, oppure che fossero stati destinati a combattere con le armi o con le fiere o che fossero stati gettati in carcere, una volta liberati dal proprietario - proprio in ragione della loro turpitudine[5] - avrebbero conseguito la stessa condizione dei peregrini dediticii, vale a dire di quegli stranieri che avevano combattuto contro i Romani e poi, sconfitti, si erano arresi[6].

Inoltre, per quanto è possibile ricostruire dalla trattazione gaiana, sembra che la stessa lex Aelia Sentia avesse, più in generale, posto dei limiti all’efficacia delle  manomissioni sul piano dell’acquisibilità della cittadinanza per lo schiavo manomesso, prevedendoche lo schiavo divenisse cittadino Romano soltanto in presenza di tre requisiti: essere maggiore di trent’anni, che il proprietario avesse su di lui il dominium ex iure Quiritium e che lo avesse liberato con una manomissione ‘iusta ac legitima[7](vale a dire con una manumissio censu o vindicta o testamento); se mancava uno solo di questi tre requisiti non acquisiva la cittadinanza romana, ma diventava Latino. È chiaro che, pur in presenza dei tre requisiti, lo schiavo manomesso che si fosse trovato nella condizione di ‘turpitudine’ sopra menzionata, non diventava neppure Latino, ma si trovava, come detto, nella condizione giuridica di peregrinus dediticius[8].

Gaio, sempre nella pars dedicata alle personae, ricorda anche le disposizioni della lex Iunia[9] - che è incerto se sia anteriore o successiva alla lex Aelia Sentia[10] -, che era intervenuta per chiarire la posizione giuridica degli schiavi manomessi in modo informale dai loro padroni; essi, com’è noto, godevano della protezione pretoria, ma la loro libertà era meramente di fatto, con una duplice conseguenza: sul piano successorio, al momento della morte i loro beni ritornavano al vecchio proprietario manomissore ʽiure peculiiʼ; sul piano del diritto pubblico, non acquisivano mai la cittadinanza romana, sicché il loro status civitatis era del tutto incerto. Detta lex, affrontando il problema, li aveva equiparati[11], sia pure con dei profili di differenziazione[12], ai Latini coloniarii, pur mantenendo, tramite la fictioac si lex lata non esset’, il principio secondo cui, al momento della morte, i loro beni sarebbero spettati ai manomissori ʽiure quodammodo peculiiʼ[13].

Ora, anche solo la breve sintesi sopra proposta mostra come la materia delle varie condizioni giuridiche dello schiavo liberato, cui davano luogo le manomissioni, e delle correlative conseguenze successorie fosse, al tempo di Gaio, costituita da un complesso intreccio di norme di distinta provenienza[14]: ius civile, editto del pretore, leggi, interventi imperiali, senatoconsulti, avevano in tempi diversi e con approcci e scopi diversi contribuito a disegnare un quadro articolato e non semplice, entro cui si era anche mossa l’interpretazione giurisprudenziale, affrontando problemi che la stratificazione multiforme della normativa non aveva mancato di creare nel corso del tempo. Proprio l’attenzione che Gaio nelle sue Istituzioni dedica al tema della successione dei liberti Aeliani (Gai. 3.74-76), pur nella sua concisione, è una buona testimonianza di come l’interpretazione giurisprudenziale sia intervenuta per tentare in particolare di colmare le lacune della legge – lacune esplicitamente rilevate dallo stesso Gaio –, per cui sembra di un certo interesse sottoporre ad un rinnovato esame il passo gaiano in questione, per tentare di comprendere meglio il rapporto tra le disposizioni di legge e l’interpretatio prudentium in questo specifico e limitato settore del diritto successorio.

 

  1. Gai. 3, 74-76: la lex Aelia Sentia e il problema della successione dei liberti Aeliani

Leggiamo dunque il tratto gaiano che si occupa della successione dei liberti Aeliani:

Gai. 3.74-76: 74. Eorum autem, quos lex Aelia Sentia dediticiorum numero facit, bona modo quasi civium Romanorum libertorum, modo quasi Latinorum ad patronos pertinent. 75. Nam eorum bona qui, si in aliquo vitio non essent, manumissi cives Romani futuri essent, quasi civium Romanorum patronis eadem lege tribuuntur. Non tamen hi habent etiam testamenti factionem; nam id plerisque placuit, nec inmerito: nam incredibile videbatur pessimae condicionis hominibus voluisse legis latorem testamenti faciendi ius concedere. 76. Eorum vero bona qui, si non in aliquo vitio essent, manumissi futuri Latini essent, proinde tribuuntur patronis, ac si Latini decessissent. Nec me praeterit non satis in ea re legis latorem voluntatem suam verbis expressisse.

Gaio avverte subito che il regime successorio dei beni dei liberti dediticii non è uniforme, poiché dipende dalla presenza o, correlativamente, dall’assenza dei requisiti previsti dalla lex Aelia Sentia al fine della concessione della cittadinanza allo schiavo manomesso:

- nel caso in cui i liberti avrebbero potuto conseguire la cittadinanza romana, ‘si in aliquo vitio non essent’, la legge stabilisce che i loro beni spetteranno al patrono come se fossero stati beni di liberti cittadini Romani, con la conseguenza che al patrono medesimo potrà spettare una quota dell’eredità del liberto, a seconda della presenza o meno di figli naturali e dell’entità del patrimonio caduto in successione[15]; si tratta di una vera e propria finzione[16]quasi civium Romanorum patronis eadem lege tribuunturʼ), finzione che è necessaria perché i peregrini, sia che abbiano una loro cittadinanza sia che siano nullius civitatis (e tanto più se sono dediticii), non possono avere eredi tra i Romani[17], salvo casi specifici[18], che esulano però da questa ipotesi. In proposito, Gaio nota altresì che plerique – pronome anonimo che dovrebbe fare riferimento a una maggioranza di giuristi – avrebbero precisato come i liberti dediticii fossero comunque privi di testamenti factio[19], parendo loro ‘incredibile’, ʽnec inmeritoʼ secondo Gaio, che la legge avesse voluto attribuire il diritto di fare testamento a persone di tale pessima condizione[20];

- nel caso in cui, invece, i liberti siano stati manomessi con modalità tali che avrebbero fatto conseguire loro la condizione di liberti Latini, ‘si non in aliquo vitio essent’, trova applicazione, sempre con una fictioac si Latini decessissentʼ), il regime previsto per i beni di tali liberti e quindi il patrimonio spetterà ai patroni ‘iure peculii[21]. La sintesi che Gaio propone del regime successorio dei beni dei liberti Aeliani è chiusa, assai significativamente, dalla constatazione che la lex Aelia Sentia è, in materia, lacunosa: ʽNec me praeterit non satis in ea re legis latorem voluntatem suam verbis expressisseʼ. La frase mi pare centrale per comprendere meglio il contenuto della sintesi gaiana e l’apporto interpretativo della giurisprudenza a cui Gaio stesso allude poco prima[22].

Va detto tuttavia che alcuni Autori, soprattutto nella prima metà del secolo scorso, hanno aspramente criticato la genuinità di alcuni punti del brano di Gaio, appuntando la loro attenzione in particolare sulla locuzione ‘legis lator[23] e sull’aggettivo ‘incredibile[24]. Per quanto non si possa escludere che la trattazione gaiana possa aver subito una qualche sunteggiatura, vi sono buone ragioni per ritenere che il brano sia sostanzialmente genuino[25]. Si deve infatti osservare come ‘legis lator[26] compaia, oltre che in Gai. 3.75 e in Gai. 3.76, anche in Gai. 3.56[27] e in Gai. 3.218[28], passi esenti da critiche in letteratura, nonché in testi del Digesto ritenuti genuini[29] e che già Cicerone richiami la ‘voluntas legis latoris’ come criterio ermeneutico[30]. Per quanto concerne l’aggettivo ‘incredibile’, si possono richiamare le considerazioni di Renato Quadrato[31], il quale, in termini generali, osserva come Gaio partecipi “al lavoro giurisprudenziale con un suo apporto più o meno consistente, anche se non sempre identificabile nel colloquio, ora espresso ora tacito, con la comunità dei prudentes”, con un panorama lessicale ricco e variegato e riporta, tra i numerosi esempi, anche l’espressione ‘incredibile videbatur’di Gai. 3.75. D’altro canto, l’aggettivo ‘incredibile’ è frequente anche nelle fonti letterarie[32] e non si comprende per quale ragione Gaio non possa averlo impiegato, per giunta in un contesto nel quale esso risulta appropriato al ragionamento giuridico svolto dai plerique, forse in opposizione ad altri giuristi propensi a riconoscere il ius testamenti faciendi ai dediticii Aeliani.

Ma la prova forse più significativa della sostanziale genuinità dei punti segnalati – e di conseguenza dell’intero tratto gaiano qui studiato – è data dal fatto che sia in Gai. 3.75 sia nel successivo Gai. 3.76, Gaio rimarchi proprio la lacunosità e la poca chiarezza della lex Aelia Sentia[33] in ordine all’attribuzione ai patroni dei beni dei dediticii Aeliani e richiami l’attività interpretativa dei giuristi, che sembra volta sia a colmare le lacune della legge sia, soprattutto, a mettere in consonanza le sue disposizioni con quelle della lex Iunia[34]. Quest’ultimo aspetto mi pare particolarmente probante, perché mostra l’esistenza di una coerenza di fondo, interna alle stesse Istituzioni gaiane, tra la parte dedicata al regime successorio dei dediticii Aeliani e così pure tra quello previsto per i liberti Latini Iuniani,con la parte in cui Gaio, nel primo libro, si occupa delle misure introdotte dalle due leggi, Aelia Sentia e Iunia, in tema di manomissioni e dei loro effetti sull’acquisto o meno della cittadinanza in capo allo schiavo liberato.

 

  1. Gai. 3,56: la disciplina successoria dei liberti Latini (Iuniani)

Per sondare meglio questa prospettiva, è utile esaminare Gai. 3.56, in cui è esposta la disciplina successoria dei liberti Latini (Iuniani):

Quae pars iuris ut manifestior fiat, admonendi sumus, id quod alio loco diximus, eos qui nunc Latini Iuniani dicuntur olim ex iure Quiritium servos fuisse, sed auxilio praetoris in libertatis forma servari solitos; unde etiam res eorum peculii iure ad patronos pertinere solita est; postea vero per legem Iuniam eos omnes, quos praetor in libertate tuebatur, liberos esse coepisse et appellatos esse Latinos Iunianos: Latinos ideo, quia lex eos liberos perinde esse voluit atque si essent cives Romani ingenui qui ex urbe Roma in Latinas colonias deducti Latini coloniarii esse coeperunt; Iunianos ideo, quia per legem Iuniam liberi facti sunt, etiamsi non essent cives Romani. Legis itaque Iuniae lator cum intellegeret futurum, ut ea fictione res Latinorum defunctorum ad patronos pertinere desinerent, quia scilicet neque ut servi decederent, ut possent iure peculii res eorum ad patronos pertinere, neque liberti Latini hominis bona possent manumissionis iure ad patronos pertinere, necessarium existimavit, ne beneficium istis datum in iniuriam patronorum converteretur, cavere voluit, ut bona eorum proinde ad manumissores pertinerent, ac si lex lata non esset; itaque iure quodammodo peculii bona Latinorum ad manumissores ea lege pertinent.

Gaio, con un brevissimo excursus storico, che fa espresso rinvio per maggiori particolari a quanto già detto alio loco (vale a dire in Gai. 1.22[35]), ricorda che coloro che al suo tempo, ʽnuncʼ, erano Latini Iuniani, godevano ʽolimʼ di una mera libertà di fatto tutelata dal pretore (ʽauxilio praetoris in libertatis forma servari solitosʼ), continuando ad essere considerati schiavi in base al ius Quiritium[36], con la conseguenza che i loro beni solitamente spettavano ai patroni ʽpeculii iureʼ (ʽunde etiam res eorum peculii iure ad patronos pertinere solita estʼ). Successivamente era intervenuta la lex Iunia, che aveva riconosciuto a costoro lo status di liberi (ʽper legem Iuniam liberi facti suntʼ), ma li aveva esclusi dalla cittadinanza romana, concedendo loro la latinità coloniaria, cioè come se fossero cittadini Romani che avessero perso la cittadinanza romana e contestualmente acquistato la latinità per aver partecipato alla deduzione di una colonia latina. In base a tale disposizione di legge essi sono per l'appunto qualificati come Latini Iuniani. In questo modo si realizzava una vera e propria fictio legis, giacché la latinità coloniaria era acquisita da costoro senza che fossero propriamente nella predetta condizione dei cives Romani divenuti Latini coloniarii. Ma il gioco delle fictiones non si ferma qui.

Il legis lator[37]della lex Iunia, comprendendo come la fictio che assimilava questi manomessi ai Latini coloniarii[38] avrebbe fatto sì che i beni di costoro non sarebbero potuti andare ai patroni, poiché i liberti, ovviamente, non sarebbero morti come schiavi, sancì che tali beni dovessero appartenere ai manomissori[39], come se la lex Iunia non fosse stata promulgata (ʽac si lex lata non essetʼ)[40], facendo così ricorso a una seconda fictio[41]. In questo modo, su questo punto specifico, viene lasciata in piedi la disciplina anteriore alla lex Iunia[42], con la conseguenza che i beni dei suddetti liberti, Latini Iuniani, sono considerati alla stregua di peculium, e quindi di pertinenza dei manomissori (ʽitaque iure quodammodo[43] peculii bona Latinorum ad manumissores ea lege pertinentʼ).Ciò implica la mancanza di testamenti factio attiva in capo a questi liberti[44]. Per tale seconda finzione, i beni dei manomessi, alla loro morte, sarebbero perciò spettati ʽiure peculiiʼ al manomissore, poiché costui, per il ius civile, continuava ad essere dominus ex iure Quiritium[45]. Gaio propone anche una motivazione di questa scelta del legislatore; egli fa riferimento ad un attento contemperamento degli interessi tra schiavi liberati e patroni: il beneficium che la legge introduce a favore dei primi, concedendo loro la piena libertà (pur attenuata dal riconoscimento della sola latinità coloniaria), non doveva produrre un danno (iniuria) a carico degli ex padroni, ora patroni; di qui la scelta di mantenere i rapporti patrimoniali precedenti alla legge, privando della libertà di testare i liberti e riconoscendo ai patroni il diritto di ottenere i loro beni come se si trattasse di un peculio[46]. Si noti l’uso del termine ‘iniuria’ per designare lo svantaggio che ai patroni sarebbe potuto conseguire dalla mancata correzione del beneficium concesso agli schiavi liberati senza rispettare le formalità manomissorie. Il termine sembra infatti denotare non solo e non tanto un danno economico puro e semplice, ma anche – e forse soprattutto – una sorta di offesa morale inferta ai patroni, i quali potevano anche aver deciso di manomettere il loro schiavo informalmente, contando anche sulla futura possibilità di ottenere appunto il patrimonio lasciato dal loro ex schiavo al momento della sua morte[47].

Un’ultima considerazione: nel passo esaminato Gaio sembra presentare la legislazione iuniana come piuttosto precisa e, soprattutto, attenta ai diversi interessi in gioco. Il legislatore, con un espediente tecnico complesso e raffinato, come la duplice fictio di cui s’è detto, sembra essersi posto carico di una serie di problematiche, anche applicative, derivanti dal riconoscimento concesso agli schiavi liberati con manomissioni informali; sullo sfondo stanno probabilmente problemi e tendenze sociali, forse anche tensioni sociali, che possono aver suggerito di formalizzare in qualche misura la libertà di tali soggetti, evitando però che essi acquisissero la piena cittadinanza romana ed evitando altresì di compromettere gli interessi economici dei loro ex padroni.

Sappiamo peraltro che il testo legislativo non affrontava tutti i problemi astrattamente prospettabili. Lo stesso Gaio (Gai. 3.63 ss.) ci ricorda che dovette intervenire un senatoconsulto, oggetto di dibattito giurisprudenziale, (Gai. 3.64, che menziona in particolare l’opinione espressa in merito da Pegaso), per precisare alcuni aspetti strettamente successori del destino dei beni dei liberti Latini o Iuniani che dir si voglia. Tuttavia la lex Iunia ci è presentata da Gaio come piuttosto precisa ed attenta nell’affrontare i nodi, per così dire, più ‘socialmente sensibili’ della libertas e dello status civitatis concesso. Diverso è il caso, come già abbiamo visto e come vedremo ora meglio, della lex Aelia Sentia.

 

  1. Le lacune della lex Aelia Sentia in materia successoria e l’intervento dell’interpretatio giurisprudenziale

Che la lex Aelia Sentia non avesse adeguatamente disposto in materia successoria, risulta, sia pure in maniera implicita, dalla precedente trattazione gaiana relativa alla condizione giuridica dei dediticii Aeliani riportata in Gai. 1.25:

Hi vero qui dediticiorum numero sunt, nullo modo ex testamento capere possunt, non magis quam quilibet peregrinus, nec ipsi testamentum facere possunt secundum id quod magis placuit.

Gaio enuncia due princìpi strettamente correlati tra loro: i soggetti ricompresi nel novero dei dediticii non possono in alcun modo ricevere per testamento, così come avviene per qualsiasi straniero[48], né, secondo l’opinione prevalente, fare essi stessi testamento. Tra i due princìpi, tuttavia, emerge un evidente profilo di distinzione: la statuizione sancita dal primo pare indiscussa e priva di alcun margine di incertezza; il secondo, invece, parrebbe il risultato di una disputa di carattere giurisprudenziale (come denota la locuzione‘id quod magis placuit[49]), conclusa con il prevalere dell’opinione secondo la quale i dediticii Aeliani sarebbero privi anche della capacità di fare testamento, come ribadito nel successivo Gai. 3.75. Il fatto che all’affermazione di tale principio si sia giunti dopo lo svolgimento di un dibattito giurisprudenziale nel corso del quale, come si può chiaramente dedurre dalla trattazione gaiana, l’opinione riferita avrebbe prevalso, conferma quanto verrà ribadito due volte in Gai. 3.75-76: vale a dire che il legis lator della lex Aelia Sentia non si fosse preoccupato di disporre su tale punto o che, comunque, non fosse stato chiaro ed esauriente[50].

Ciò posto, la riflessione giurisprudenziale volta a colmare tale lacuna dovette confrontarsi anche con quanto disposto dalla lex Iunia, la quale aveva attribuito ‘iure peculii’ai patroni i beni dei Latini Iuniani, mediante la fictioac si lex lata non esset, proprio per evitare che il beneficio dato agli schiavi liberati non si trasformasse in un’iniuria per i manomissori (ʽne beneficium istis datum in iniuriam patronorum convertereturʼ)[51]. Gaio, in precedenza (Gai. 1.23), aveva peraltro già notato che la lex Iunia non permetteva ai Latini Iuniani né di fare testamento[52], né di ricevere per testamento[53]: ʽNon tamen illis permittit lex Iunia vel ipsis testamentum facere, vel ex testamento alieno capere, vel tutores testamento dariʼ. Non è chiaro se tali restrizioni o incapacità che dir si voglia fossero espressamente previste dalla legge, oppure dipendessero dalla menzionata fictio in base alla quale i beni dei Latini Iuniani appartenevano ai manomissori ʽac si lex lata non essetʼ e, dunque, come se fossero morti schiavi. Se fosse corretta questa seconda ipotesi, si potrebbe pensare, anche in questo caso, ad una sorta di applicazione interpretativa della legge – a cui ben avrebbero potuto partecipare i giuristi – che, partendo dalla fictio, aveva condotto alla predetta affermazione gaiana secondo cui la stessa legge escludeva la testamenti factio sia attiva che passiva appunto dei Latini Iuniani. Sul punto non pare che si possa giungere ad una conclusione certa, anche se è suggestivo individuare, sia pure induttivamente, una traccia di un possibile intervento dell’interpretazione giurisprudenziale, che trae da una disposizione normativa come quella in esame, basata sulla fictio e assai circostanziata, più generali conseguenze in ordine ai limiti della capacità testamentaria di tali soggetti. Si aggiunga che dal discorso gaiano non paiono sussistere dubbi in merito, eventualmente dipendenti da un contrasto o anche solo da un dibattito giurisprudenziale. Diverso è invece il caso dei dediticii Aeliani, ove il dibattito è invece testimoniato da Gaio in modo esplicito ed è fatto dipendere, come si è visto, da una lacuna della legge.

 

  1. Un confronto con Frg. Berol. 1.2

Alla luce delle considerazioni svolte, possiamo ora porre a confronto il tratto delle Istituzioni di Gaio che si occupa dei bona dei dediticii Aeliani con Frg. Berol.1.2 (FIRA 2², 625 s.)[54]:

Sed cum lege de bonis rebusque eorum hominum ita ius dicere iudicium reddere praetor iubeatur, ut ea fiant, quae futura forent, si dediticiorum numero facti non essent, videamus, ne verius sit quod quidam senserunt et de universis bonis et de singulis.

Il frammento, pur sintetico ed allusivo, sembra riportare un breve e parziale tratto di un provvedimento legislativo che, per la materia di cui si occupa, potrebbe essere, sia pure con incertezza, identificato con la lex Aelia Sentia. Il tratto in questione è ʽde bonis rebusque eorum hominum ita ius dicere iudicium reddere praetor iubeatur, ut ea fiant, quae futura forent, si dediticiorum numero facti non essentʼ, il cui stile e il cui contenuto, con iterazioni e precisazioni particolareggiate, pare comunque compatibile, anche con un certo grado di probabilità, con lo stile legislativo della fine del I secolo a.C. Sembra particolarmente rilevante l’accenno alla fictio in base alla quale il pretore deve ʽius dicereʼ e ʽiudicium reddereʼ in ordine ai bona e alle res di non meglio precisati homines: ʽsi dediticiorum numero facti non essentʼ. Il collegamento con la lex Aelia Sentia viene spontaneo (o meglio, con quanto noi sappiamo di tale legge da Gaio) – anche se, ovviamente, non può dirsi certo – tanto più se si confronta il frammento in esame con il passo gaiano dedicato ai dediticii Aeliani. La fictio suddetta va infatti raffrontata con quanto Gaio afferma in ordine ai bona di tali dediticii (Gai. 3.75-76), e cioè:

- che sarebbero spettati ai loro patroni come se fossero beni di cittadini Romani – sottointeso liberti –, qualora, i manomessi, avessero potuto ottenere la cittadinanza romana, per non essersi macchiati di alcun vizio (ʽeorum bona qui, si in aliquo vitio non essent, manumissi cives Romani futuri essent, quasi civium Romanorum patronis eadem lege tribuunturʼ);

- che sarebbero spettati sempre ai loro patroni, ma come se i manomessi fossero morti Latini, qualora essi avrebbero ottenuto la latinità Iuniana se non si fossero macchiati di qualche vizio (ʽbona, qui, si non in aliquo vitio essent, manumissi futuri Latini essent, proinde tribuuntur patronis, ac si Latini decessissentʼ).

Le espressioni ʽquasi civium Romanorum (sottointeso bona) patronis eadem lege tribuunturʼ e ʽac si Latini decessissentʼ, alludono a fictiones, rispettivamente di cittadinanza romana e di latinità; il dato pare compatibile con la fictio si dediticiorum numero facti non essent[55] di Frg. Berol. 1.2 e si presenta, anzi, come una sua ulteriore precisazione, dipendente dal diverso status in astratto acquisibile dai servi manomessi, ovviamente ʽsi in aliquo vitio non essentʼ:

- la cittadinanza romana, se fossero stati rispettati i tre requisiti previsti per la piena validità delle manomissioni dalla lex Aelia Sentia;

- la latinità Iuniania in base sia alla stessa lex Aelia Sentia, sia alla lex Iunia, se fosse mancato anche uno solo dei predetti requisiti.

Resta aperto il dubbio, ammesso che Frg. Berol. 1.2 sia riferibile alla lex Aelia Sentia, se quest’ultima abbia analiticamente previsto le due fictiones di cui sopra o se si sia limitata a disporre la fictio si dediticiorum numero facti non essent’. In questo secondo caso le altre due, più precise, fictiones non sarebbero che conseguenza diretta, ma implicita, della prima e presupporrebbero verosimilmente un lavoro interpretativo sul testo della legge. Non sembra sia possibile sciogliere il dubbio dalla lettura di Gai. 3.74-76: Gaio, in questo tratto delle sue Istituzioni, pur richiamando le lacune della lex Aelia Sentia, menziona infatti il dibattito giurisprudenziale solo in merito all’eventuale concessione della testamenti factio ai dediticii,che sarebbero divenuti cittadini Romani ʽsi in aliquo vitio non essentʼ(in sintonia, del resto, con Gai. 1.25). Quanto alla fictio (o alle fictiones), Gaio si limita ad affermare che i bona di tali dediticii sono attribuiti ai loro patroni dalla legge, come se fossero beni di liberti cittadini Romani: ʽquasi civium Romanorum patronis eadem lege tribuunturʼ; l’espressione ʽeadem lege tribuunturʼ, in effetti, sembra poter alludere sia ad una fictio direttamente ed esplicitamente prevista ed enunciata dalla legge, sia ad un effetto dipendente da una disposizione normativa più generale, quale la fictio si dediticiorum numero facti non essent’.

Al di là del problema di quale fosse l’esatto tenore della fictio (o delle fictiones) della lex Aelia Sentia, occorre notare come proprio tale tecnica accomuni, significativamente, quest’ultima alla lex Iunia. In entrambi i provvedimenti viene impiegata la fictio allo scopo di garantire che il patrimonio degli schiavi liberati ritorni al momento della loro morte ai loro manomissori. Si può aggiungere che il dato ricavabile da Frg. Berol.1.2, nella misura in cui la legge ivi menzionata sia davvero la lex Aelia Sentia, se posto a confronto con Gai. 3.74-76, potrebbe rafforzare l’ipotesi che la lex Iunia sia anteriore alla lex Aelia Sentia[56]: quest’ultima sembrerebbe infatti presupporre la già avvenuta concessione della latinità agli schiavi liberati con manomissioni informali, intervenendo, non solo per prevedere la figura dei liberti dediticii o Aeliani, ma anche per introdurre il requisito per lo schiavo di avere almeno trent’anni per ottenere la cittadinanza romana, in mancanza del quale egli, ancorché liberato con una legitima manumissio, diventa Latino[57] proprio in base alla lex Iunia.

 

  1. Gai. 1.29 e il problema della successione cronologica tra lex Iunia e lex Aelia Sentia

In relazione al suddetto requisito dell’età possediamo un passo di Gaio che illustra il beneficio specifico dell’acquisto della cittadinanza romana concesso a certe condizioni dalla lex Aelia Sentia allo schiavo manomesso prima dei trent’anni, passo che pare alquanto significativo in merito al problema della successione cronologica tra le due leggi, Gai. 1.29:

Statim enim ex lege Aelia Sentia minores triginta annorum manumissi et Latini facti si uxores duxerint vel cives Romanas vel Latinas coloniarias vel eiusdem condicionis cuius et ipsi essent, idque testati fuerint adhibitis non minus quam septem testibus civibus Romanis puberibus, et filium procreaverint, cum is filius anniculus esse coeperit, datur eis potestas per eam legem adire praetorem vel in provinciis praesidem provinciae, et adprobare se ex lege Aelia Sentia uxorem duxisse et ex ea filium anniculum habere; et si is apud quem causa probata est, id ita esse pronuntiaverit, tunc et ipse Latinus et uxor eius, si et ipsa eiusdem condicionis sit, et filius, si et ipse eiusdem condicionis sit, cives Romani esse iubentur.

Gaio ricorda una disposizione della legge Aelia Sentia in base alla quale il liberto manomesso prima dei trent’anni e divenuto perciò Latino, può acquisire la cittadinanza romana se abbia avuto un figlio che abbia raggiunto l’età di un anno, da matrimonio contratto con una donna cittadina Romana o Latina coloniaria o della sua stessa condizione (il che parrebbe dire ex schiava manomessa in maniera irregolare e quindi appartenente allo stesso status di latinità del marito). L’acquisto della cittadinanza avviene a seguito di un procedimento da svolgersi innanzi al pretore o, nelle province, al preside, che hanno il compito di controllare la veridicità di tale situazione familiare. Sembra qui rilevante l’affermazione di Gaio che, in base alla lex Aelia Sentia, il minore di trent’anni manomesso diventi Latino[58]: è certo possibile che la legge abbia autonomamente stabilito tale effetto nel caso di un tal genere di manomissione, ma è altrettanto possibile – e forse ancor più probabile – che la lex Aelia Sentia sia intervenuta dopo la lex Iunia, introducendo il suddetto ulteriore limite dell’età per la piena efficacia delle manomissioni sul piano dell’acquisto della civitas, ma mantenendo per i manomessi che rientravano in tale ipotesi l’acquisizione della latinità Iuniana, ormai consolidata dall’applicazione del precedente provvedimento legislativo.

All’esito di questo confronto, l’ipotesi della anteriorità della lex Iunia appare rafforzata, ma in ogni caso i dati testuali che si è cercato di valorizzare, ricavabili in particolare dalle Istituzioni gaiane, non sono ancora definitivamente probanti. È perciò prudente riassumere il complesso intreccio tra le due leggi nel modo più possibile neutrale rispetto al problema della datazione, tanto più che per Gaio l’aspetto sicuramente più rilevante era l’esposizione del diritto vigente alla sua epoca, alla luce del quale l’esatta successione cronologica delle due leggi appariva verosimilmente aspetto secondario, pur nell’ambito della tendenza gaiana di prestare sempre un’attenzione piuttosto scrupolosa alla storia degli istituti e al dato storico in genere. Tenendo conto di quest’avvertenza, si potrebbe proporre la sintesi seguente, in cui si è cercato di prescindere dalla possibile sequenza temporale intercorsa tra l’una e l’altra lex: prima della lex Aelia Sentia lo schiavo che si trovasse nelle condizioni elencate da Gai. 1.13 – e quindi che ʽin aliquo vitio essetʼ, per dirla con Gai. 3.75 –, se liberato, sarebbe diventato cittadino Romano, qualora la manomissione fosse stata legitima; non lo sarebbe diventato, ma avrebbe potuto godere della tutela pretoria, se la manomissione fosse stata informale, oppure, alla luce della lex Iunia, in questo secondo caso avrebbe acquisito la latinità Iuniana. Con l’intervento della lex Aelia Sentia, in entrambi i casi egli sarebbe diventato dediticius.

 

  1. Il dibattito giurisprudenziale sul destino dei bona dei liberti dediticii: Gaio e i plerique

Sia Gai. 3.75 sia Frg. Berol. 1.2 fanno riferimento a un dibattito giurisprudenziale sul destino dei bona dei liberti dediticii. Gaio riporta, adesivamente, l’opinione di plerique che avevano escluso che i dediticii avessero la testamenti factio, qualora al momento della manomissione si fossero trovati nella condizione di poter diventare cittadini Romani ʽsi in aliquo vitio non essent… Non tamen hi habent etiam testamenti factionem; nam id plerisque placuit, nec inmerito: nam incredibile videbatur pessimae condicionis hominibus voluisse legis latorem testamenti faciendi ius concedereʼ. Frg. Berol. 1.2, nella sua lacunosità, accenna soltanto implicitamente all’esistenza di una discussione giurisprudenziale ʽde bonis rebusque eorum hominumʼ (cioè i dediticii), ponendo il problema se l’opinione o soluzione proposta da non meglio precisati quidam sia o meno più vera (verius)[59], rispetto ad altra (o ad altre), senza però che il frammento contenga ulteriori precisazioni in merito: ʽ…videamus, ne verius sit quod quidam senserunt et de universis bonis et de singulisʼ. Allo stato, il possibile rapporto sul punto tra il passo gaiano e il frammento berlinese è assai problematico per non dire enigmatico: non è dato sapere se i quidam di Frg. Berol. 1.2 corrispondessero ai plerique di Gaio o fossero con essi in opposizione. Si può solo constatare che entrambe le fonti attestano l’esistenza di un dibattito giurisprudenziale sulle conseguenze, per così dire patrimoniali, della lex Aelia Sentia e che Gaio aderisce all’opinione maggioritaria che, come detto, negava la testamenti factio ai liberti dediticii che fossero nella suaccennata condizione.

Per comprendere meglio il problema affrontato dai plerique citati da Gaio e la soluzione da loro proposta, è utile la lettura di Tit. Ulp. 20.14:

Latinus Iunianus, item si qui dediticiorum numero est testamentum facere non potest: Latinus quidem, quoniam nominatim lege Iunia prohibitus est, is autem qui dediticiorum numero est, quoniam nec quasi civis Romanus testari potest, cum sit peregrinus, nec quasi peregrinus, quoniam nullius certae civitatis civis est, ut secundum leges civitatis suae testetur.

Il brano riguarda la capacità di fare testamento dei Latini Iuniani e dei dediticii Aeliani (pur se non è espressamente nominata la lex Aelia Sentia); in sostanza esso precisa che i Latini Iuniani non possono fare testamento perché lo vieta loro ʽnominatimʼ la lex Iunia; lo stesso è da dirsi per i dediticii, poichéqualora siano considerati alla stregua di cittadini Romani, egualmente non possono testare in quanto peregrini; inoltre la loro condizione di peregrini è qualificata dall’essere ʽnullius certae civitatisʼ, con la conseguenza che essi non possono neppure fare testamento, come se fossero peregriniquasi peregrinusʼ), secondo l’ordinamento giuridico di una civitas straniera, posto che non appartengono a nessuna di esse[60]. In modo forse un po’ faticoso e sintetico il passo conferma i dati ricavabili da Gai. 3.74-76 e, in primo luogo, che la lex Aelia Sentia non avrebbe precisato che i dediticii Aeliani fossero privi di testamenti factio[61], come invece aveva disposto ‘nominatim’ la lex Iunia in ordine ai Latini Iuniani.

Sul mero piano delle ipotesi, si potrebbe anche aggiungere che Tit. Ulp. 20.14 riporti ancora un’eco, sia pure semplificata, del ragionamento che stava alla base dell’opinione dei plerique menzionati adesivamente da Gaio. A ben guardare, infatti, Gai. 3.75 nulla dice sulle motivazioni giuridiche addotte per sostenere tale opinione; Gaio si limita, come detto, ad aderirvi richiamando motivazioni di ordine per così dire sociale ed etico, ma non di ordine strettamente giuridico (ʽnam incredibile videbatur pessimae condicionis hominibus voluisse legis latorem testamenti faciendi ius concedereʼ), come invece fa, pur entro certi limiti, il passo dei Tituli ex corpore Ulpiani. Forse anche un elemento che può aver avuto un proprio peso nel ragionamento dei plerique potrebbe esser stata la circostanza che la lex Iunia disponeva invece espressamente l’incapacità di testare, tra l’altro per schiavi liberati che non si trovavano nelle condizioni (o vitia, che dir si voglia) dei dediticii Aeliani e dunque che erano socialmente più meritevoli di questi ultimi.

 

  1. Le fictiones di piena cittadinanza e di latinità e le loro conseguenze sul piano successorio nell’ottica di Gaio

Ritorniamo ora a Gai. 3.74-76, per tentare di esplorare le conseguenze, sul piano propriamente successorio, delle due fictiones, di piena cittadinanza e di latinità Iuniana, che, come abbiamo cercato di mostrare, sembrano il frutto dell’interpretazione giurisprudenziale a partire da una ipotetica clausola legislativa ‘si dediticiorum numero facti non essentʼ.

Posto che, come detto, secondo i plerique,per i liberti dediticii, che sarebbero diventati cittadini romani in assenza di vizi, non poteva aver luogo una successione testamentaria[62], si può dedurre che, sempre per i plerique, per tali dediticii potesse trovare applicazione la successione ab intestato, che attribuiva ai patroni i beni dei dediticii Aeliani, come se fossero stati liberti cittadini Romani.

Si apre però un problema: è noto come la successione ab intestato del liberto sottostia a regole specifiche[63]; la materia, estremamente complessa, può essere qui richiamata nelle sue linee essenziali: le XII Tavole[64] chiamavano innanzi tutto i sui e, in assenza di questi – non avendo il liberto né adgnati, né gentiles – il patrono o la patrona e, in assenza anche di costoro, i discendenti adgnati del patrono, ivi compresi i figli che costui avesse diseredato e, infine, i gentiles[65]del patrono.

Anche la successione ab intestato pretoria è disciplinata da regole specifiche, che contemperano i princìpi generali stabiliti dal pretore per la successione ab intestato con le aspettative del patrono e della famiglia di questi sul patrimonio del liberto. Tale successione prevede sette ordini di chiamati[66]: I) unde liberi, i figli e i discendenti del liberto, ma se il liberto avesse avuto soltanto figli adottivi o la moglie in manu, il pretore avrebbe accordato al patrono e ai figli maschi di questi la bonorum possessio dimidiae partis; II) unde legitimi, cioè gli eredi del ius civile (sui, patrono o patrona, adgnati e gentiles del patrono); III) unde cognati, i parenti del liberto; IV) la famiglia del patrono; V) il patrono o la patrona del patrono e i loro discendenti, sul presupposto, evidentemente, che il patrono fosse a sua volta un liberto; VI) unde vir et uxor, il coniuge superstite; VII) unde cognati manumissoris.

Infine sulla materia intervenne la lex Papia Poppaea[67],ma solo nel caso in cui il liberto avesse lasciato un patrimonio pari o superiore ai 100.000 sesterzi, attribuendo ai patroni la qualifica di bonorum possessores. Inoltre tale lex distingue, in ordine alla successione del liberto, la posizione del patrono da quella della patrona; tiene fermo il principio secondo il quale, in merito alla successione della liberta, il patrono e la patrona sono preferiti rispetto ai figli della liberta; dispone in ordine alla posizione dei figli del patrono, distinguendo la posizione del figlio da quella della figlia, e in merito alla posizione dei figli della patrona.

Ora, pur con le restrizioni e i vari adattamenti che si sono succeduti, non v’è dubbio che da un punto di vista successorio la posizione dei liberti cittadini Romani fosse privilegiata rispetto ai liberti Latini Iuniani. I beni di questi ultimi, infatti, andavano al patrono iure peculii e non si poneva alcun problema di un’apertura della successione, ancorché ab intestato, in cui fossero in qualche misura tutelati i loro discendenti. Un’applicazione formalmente rigorosa della fictio di cittadinanza, avrebbe condotto ad un trattamento più favorevole per liberti la cui libertà era però qualificata ‘pessima’ (Gai. 1.26) e che erano ritenuti talmente indegni da un punto di vista sociale – Gaio parla in proposito di una condizione di turpitudo (Gai. 1.15) –, da proibire loro di vivere a Roma ed entro cento miglia dalla stessa (Gai. 1.27) e di prevedere per loro l’impossibilità di acquisire la cittadinanza romana (Gai. 1.26).

Eppure, a leggere almeno quanto dice Gaio in proposito, l’interpretazione giurisprudenziale non sembra sia andata oltre alla negazione della testamenti factio per i liberti dediticii, ʽNon tamen hi habent etiam testamenti factionem; nam id plerisque placuit, nec inmeritoʼ, con la conseguenza, però, che alla loro morte si applica la successione ab intestato prevista per i liberti cives Romani, qualora essi, prescindendo dai vitia, al momento della manomissione avessero avuto tutti i requisiti per accedere alla cittadinanza: ʽNam eorum bona qui, si in aliquo vitio non essent, manumissi cives Romani futuri essent, quasi civium Romanorum patronis eadem lege tribuunturʼ. Forse, come si è cercato prima di mostrare, questo esito dipendeva dal fatto che la lex Aelia Sentia disponeva soltanto la fictio si dediticiorum numero facti non essent’ (Frg. Berol. 1.2), da cui i giuristi (o meglio, plerique tra di loro) hanno dedotto il sistema della ulteriore e conseguente fictio che i dediticii Aeliani, quanto ai loro bona,potessero essere considerati al momento della loro morte ‘quasi cives Romani’ o ‘quasi Latini (Iuniani)’. Ne derivava, però, una evidente disparità di trattamento tra i primi e i secondi, posto che per i liberti considerati alla stregua di cives Romani si sarebbe aperta la successione ab intestato che garantiva i loro sui o, comunque, i loro liberi e poneva solo al secondo posto i patroni, mentre i beni dei liberti considerati Latini Iuniani andavano al patrono iure peculii, senza che venisse garantito alcunché ai loro discendenti.

Gaio espone in maniera sintetica, ma oggettiva, queste conseguenze della lex Aelia Sentia, ma, in linea con il suo giudizio nettamente sfavorevole sui liberti dediticii – che sembra, del resto, quello ancora di gran lunga prevalente nella società del suo tempo –, non esita, sia pure in maniera sfumata ed implicita, a manifestare le sue perplessità, sottolineando le lacune in materia (ʽin ea reʼ)presenti nella legge: ʽNec me praeterit non satis in ea re legis latorem voluntatem suam verbis expressisseʼ. Questo rilievo, più che giustificare soltanto le altercationes[68] sorte tra i giuristi, sembra piuttosto indirettamente riconoscere che l’interpretatio giurisprudenziale delle leggi ha dei limiti insiti in ciò che in esse è scritto o, come nel caso, non scritto. Sullo sfondo sta il più ampio e complesso problema del rapporto generale tra interpretazione giurisprudenziale e testi legislativi, di cui l’esempio qui studiato è una delle possibili declinazioni[69]. Nel caso specifico, così come esso è ricostruibile soprattutto tramite le Istituzioni gaiane, si è di fronte a una discussione fra i giuristi che si consolida in un’interpretazione maggioritaria che esclude la testamenti factio, cui Gaio aderisce. Il giurista, però, sembra riconoscere che lo stesso dettato legislativo è il primo e più importante ostacolo per andare verso un’interpretazione dal suo punto di vista più appagante. Di conseguenza – e del resto in sintonia con il genere letterario che sta praticando, quello appunto istituzionale – egli si limita a descrivere, per così dire, il diritto vigente, o meglio i risultati applicativi a cui si era giunti per il tramite dell’interpretazione dei plerique, aggiungendo soltanto, a mo’ forse di velata critica, la constatazione che l’incompletezza del dettato legislativo lascia in sostanza inespressa la volontà del legislatore.

* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] Gaio tratta il tema in prospettiva storica, partendo dalla disciplina decemvirale (Gai. 3.40), per poi illustrare i correttivi apportati dal pretore (Gai. 3.41) e, successivamente, dalla lex Papia (Gai. 3.42). Poi Gaio si occupa dei beni delle liberte (Gai. 3.43), delle disposizioni della lex Papia su tali beni (Gai. 3.44) e delle aspettative successorie dei discendenti del patrono nei confronti dei beni del liberto (Gai. 3.45-46), procedendo anche in ordine a tale profilo secondo l’evoluzione storica, che parte dalle XII Tavole e giunge alla lex Papia (Gai. 3.46-48), nonché delle aspettative successorie delle patrone sui beni del liberto (Gai. 3.49-50); segue la trattazione sommaria del regime successorio dei beni delle liberte e delle aspettative del figlio della patrona, con rinvio per una trattazione più approfondita della materia a commentarii appositi, purtroppo non in nostro possesso (Gai. 3.51-54). Egli prosegue, soffermandosi sui beni dei liberti Latini, categoria creata dalla lex Iunia per dare uno status giuridico definito agli schiavi liberati con le manomissioni non rientranti tra le ‘iustae ac legitimae’ (Gai. 3.55-56), le uniche che facevano conseguire, oltre alla libertà, la cittadinanza romana, passa a trattare della successione dei liberti cittadini romani (Gai. 3.57-62), ritorna ancora sui liberti Latini per illustrare le modifiche apportate alla disciplina dei loro beni dal senatoconsulto Largiano (42 d. C.) (Gai. 3.63 ss.), che diede luogo a dispute giurisprudenziali in ordine alle quali Gaio riferisce e prende posizione (Gai. 3.64; 70-71); egli si occupa, infine, della disciplina introdotta da Traiano per il caso del liberto Latino che abbia ottenuto la cittadinanza romana contro la volontà del patrono o all'insaputa di questi (Gai. 3.72-73). Sulla materia si vedano: W.W. Buckland, The Roman Law of Slavery. The Condition of the Slave in Private Law from Augustus  to Justinian, Cambridge 1908 (rist. 1970), 533 ss.; H. Lemonnier, Étude historique sur la condition privée des affranchis aux trois premiers siècles de l'empire romain, Paris 1887 (rist. Roma 1971), 117 ss.; C. Cosentini, Studi sui liberti. Contributo allo studio della condizione giuridica dei liberti cittadini, I-II, Catania 1948-1950; P. Voci, Diritto ereditario romano, 2a ed., II, Milano 1963, 26 ss.; A. Watson, The Law of Persons in the Later Roman Republic, Oxford 1967, 75 ss.; S. Treggiari, Roman Freedmen during the Late Republic, Oxford 1969, 78 ss.; B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo 1979, 81 ss.; G. Fabre, Libertus. Recherches sur le rapports patron-affranchi  à la fin de la République romaine, Rome 1981, 269 ss.;H.L.W. Nelson, U. Manthe, Gai Institutiones III 1-87. Intestaterbfolge und sonstige Arten von Gesamtnachfolge. Text und Kommentar, Berlin 1992, 112 ss. e in particolare 176 ss.;A.M. Giomaro, Spunti per una lettura critica di Gaio Institutiones, II, Schede di approfondimento. La verifica di una «nuova dogmatica» sul testo gaiano, Urbino 1994, 73 ss.;R. Astolfi, La lex  Iulia et Papia, 3a ed., Padova 1995, 194 ss.;C. Masi Doria, Bona libertorum. Regimi giuridici e realtà sociali, Napoli 1996, 15 ss.; G. Mancini, Cives Romani Municipes Latini, I, Milano 1996, 20 ss.

[2] La nozione di dediticii, di cui quelli Aeliani possono essere considerati una ‘sottocategoria’, è studiata in dottrina soprattutto in riferimento alla constitutio Antoniniana, la quale, com’è ben noto, parrebbe aver escluso dalla concessione della cittadinanza romana questo genere di peregrini; la letteratura sull’argomento è vastissima, si vedano, tra gli altri, E. Volterra, Manomissione e cittadinanza, in Studi in onore di Ugo Enrico Paoli, Firenze 1956, poi in Scritti giuridici, II, Famiglia e successioni, Napoli 1991, 402 ss.; Id., Manomissioni di schiavi  compiute da peregrini, in Studi in onore di Pietro De Francisci, IV, Milano 1956, poi in Scritti giuridici, II, 378; 391 ss.; Id., Gli πόλιδες in diritto romano, in Studi in onore di Francesco Messineo nel XXXV anno del suo insegnamento, IV, Milano 1959, poi in Scritti giuridici, II, 475 s.; M. Talamanca, Gli ordinamenti provinciali nella prospettiva dei giuristi tardoclassici, in Istituzioni giuridiche e realtà politiche nel tardo impero (III-V sec. d. C.). Atti di un incontro tra storici e giuristi, Firenze, 2-4 maggio 1974, (cur. G.G. Archi), Milano 1976, 217 ss.; P. Pinna Parpaglia, Sacra peregrina, civitas Romanorum, dediticii nel Papiro Giessen n. 40, Sassari 1995, 7 ss.; V. Marotta, La cittadinanza romana in età imperiale (secoli I-III d. C.). Una sintesi, Torino 2009, 62 ss.; 110 ss.; D. Mattiangeli, Romanitas, latinitas, peregrinitas. Uno studio essenziale sui principi del diritto di cittadinanza romano, Città del Vaticano 2010, 88; A. Torrent, La prohibicion de ius connubii a los dediticios aelianos, in RIDROM, oct. 2011, (https://dialnet.unirioja.es/descarga/articulo/376100.doc.), 96 ss.; Id., La Constitutio Antoniniana. Reflexiones sobre el papiro de Giessen 40 I, Madrid 2012, 141 ss.; 148 ss.; C. Corbo, Constitutio Antoniniana. Ius Philosophia Religio, Napoli 2013, 38 ss.

[3] Sulla lex Aelia Sentia si vedano: Gai. 1.18-21; Gai. 1.25-27; Gai. 1.29-31; Gai. 1.37-41; Gai. 1.47; Gai. 1.65-71; Gai. 1.80; Gai. 1.139; Gai. 3.5; Gai. 3.73-75; Tit. Ulp. 1.11-15; I. 1.5.3; I. 1.6; I. 3.7.4; Par. Theoph. 1.5.3; D. 40.2 (De manumissis vindicta); D. 40.9 (Qui et a quibus manumissi liberi non fiunt et ad legem Aeliam Sentiam);C. 7.1 (De vindicta libertate et apud consilium manumissione); C. 7.5 (De dediticia libertate tollenda); C. 7.11 (Qui manumittere non possunt et ne in fraudem creditorum manumittatur); Svet. Aug. 40; Cass. Dio, 55.13.7. In materia si vedano E. Hölder, Zur Frage vom gegenseitigen Verhältnisse der lex Aelia Sentia und Iunia Norbana, in ZSS, 19 (1885), 205 ss.; A. Guarneri-Citati, En matière  d’affranchissement frauduleux, in Mélanges G. Cornil, I, Paris 1926, 425 ss.; F. Schulz, Die fraudatorische Freilassung im klassischen und justinianischen römischen Recht, in ZSS, 48 (1928), 197 ss.; G. Beseler, Romanistische Studien, in ZSS, 50 (1930), 18 ss.; M. De Dominicis, Il requisito dell’età per l’efficacia delle manomissioni, in AUPE, 52 (1939), 91 ss.; Id., La «Latinitas Juniana» e la legge Elia Senzia, in Mélanges A. Piganiol, Paris 1966, 1419 ss.;A. Metro, La lex Aelia Sentia e le manomissioni fraudolente, in Labeo, 7 (1961), 147 ss.; A. Wilinski, Zur Frage von Latinern «ex Lege Aelia Sentia», in ZSS, 80 (1963), 378 ss.; G.B. Impallomeni, In tema di manomissioni fraudolente, in Synteleia Vincenzo Arangio-Ruiz, II, Napoli 1964, 922 ss.; Id., Nota minima in tema di manomissioni fraudolente, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, IV, Torino 1971, 459 ss.; S. Di Paola, «Leges perfectae», in Synteleia Vincenzo Arangio-Ruiz, II, 1075 ss.; H. Wagner, Zur Freiheitserteilung an den einem Generalpfandnexus unterliegenden Sklaven, in SDHI, 33 (1967), 163 ss.; X. D’Ors, La ley «Aelia Sentia» y las manumisiones testamentarias (Una exégesis de D. 40.9.5.2 y 40.1.21), in SDHI, 40 (1974), 425 ss.; G. Zoz De Biasio, L’invalidità delle manomissioni in frode al patrono disposte «inter vivos», in Iura, 33 (1982), 131 ss.; L. Rodriguez Alvarez, Las leyes limitadoras de las manumisiones en época augustea, Oviedo 1978, 173 ss.; F. Klink, Zum Nachweis der Benachteiligungsabsicht bei fraudatorischen Sklavenfreilassungen – Im Zweifel gegen die Freiheit!, in Sklaverei und Freilassung im römischen Recht. Symposium für Hans Josef Wieling zum 70. Geburtstag, (cur. T. Finkenauer), Berlin – Heidelberg – New York 2006, 100 ss.; P. Lopez Barja De Quiroga, Historia de la manumission en Roma, Madrid 2007, 75 ss.; V. Marotta, La cittadinanza romana, cit., 64 ss.; M. Humbert, Le status civitatis. Identité et identification du civis Romanus, in A. Corbino, M. Humbert, G. Negri (a cura di), Homo, caput, persona. La costruzione giuridica dell’identità nell’esperienza romana dall’epoca di Plauto a Ulpiano, Pavia 2010, 154 ss.; A. Torrent, La prohibicion de ius connubii a los dediticios aelianos, cit., 96 ss.; S. Corcoran, “Softly and suddenly vanished away”: The Junian Latins from Caracalla to the Carolingians, in Römische Jurisprudenz – Dogmatik, Überlieferung, Rezeption. Festschrift für Detlef Liebs zum 75. Geburtstag, (cur. K. Muscheler), Berlin 2011, 129 ss.; D. Nörr, Verwerfungen im Recht der testamentarischen Freilassungen in fraudem creditorum, in Carmina Iuris. Mélanges en l'honneur de Michel Humbert, ( cur. E. Chevreau, D. Kremer, A. Laquerriére-Lacroix), Paris 2012, 599 ss.; D. Tuzov, ‘Creditorum fraudandorum causa manumissi liberi non fiant’. Intorno a dogmatizzazioni moderne  in tema di manomissioni fraudolente, in Scritti per Alessandro Corbino, (cur. I. Piro), 7, Tricase (LE) 2016, 293 ss.

[4] Gai. 1.13: Lege itaque Aelia Sentia cavetur, ut qui servi a dominis poenae nomine vincti sint, quibusve stigmata inscripta sint, deve quibus ob noxam quaestio tormentis habita sit et in ea noxa fuisse convicti sint, quive ut ferro aut cum bestiis depugnarent traditi sint, inve ludum custiodiamve coniecti fuerint, et postea vel ab eodem domino vel ab alio manumissi, eiusdem condicionis liberi fiant, cuius condicionis sunt peregrini dediticii. Si vedano anche Gai Ep. 1.1.3: Dediticii vero sunt, qui post admissa crimina suppliciis subditi et publice pro criminibus caesi sunt, aut in quorum facie vel corpore quaecumque indicia aut igne aut ferro impressa sunt, et ita impressa sunt, ut deleri non possint. Hi si manumissi fuerint, dediticii appellantur, e Tit. Ulp. 1.11: Dediticiorum numero sunt qui poena causa vincti sunt a domino, quibusve stigmata scripta fuerunt, quive propter noxam torti nocentesque inventi sunt, quive traditi sunt, ut ferro aut cum bestiis depugnarent, vel in ludum vel in custodiam coniecti fuerunt, deinde quoquo modo manumissi sunt: idque lex Aelia Sentia facit.Sugli schiavi marchiati si vedano C.P. Jones, Stigma: Tattooing and Branding in Graeco-Roman Antiquity, in JRS, 77 (1987), 139 ss.;P. Cordier, Remarques sur les inscriptions corporelles dans le monde romain: du signe d'identification (notitia) à la marque d'identité  (identitas), in Pallas, 65 (2004), 189 ss.; L. De Salvo, Marchio e marchiati nell'impero cristiano, in Atti dell'Accademia romanistica costantiniana, XVIII, Roma 2012, 261 ss.

[5] Gaio stesso giustifica le disposizioni della lex Aelia Sentia riferendosi alla ritenuta ‘turpitudine’ di tali servi: Huius ergo turpitudinis servos quocumque modo et cuiuscumque aetatis manumissos, etsi pleno iure dominorum fuerint, numquam aut cives Romanos aut Latinos fieri dicemus, sed omni modo dediticiorum numero constituti intellegemus (Gai. 1.15). A questo proposito, M. Balestri Fumagalli, Lex Iunia de manumissionibus, Milano 1985, 77, osserva che “L’eventuale concorso dei tria legitima non pone rimedio allo squallore di alcuni ‘precedenti’ di natura soggettiva, che accompagnano la sorte dei dediticii come un marchio a fuoco: considerati indegni e pericolosi senza possibilità di appello, attraverso un giudizio sulla vita pregressa che si riflette nel futuro con intenso valore prognostico, essi vengono esclusi in perpetuo dal beneficium civitatis e dal nomen Latinum”.

[6] Gai. 1.14: Vocantur autem peregrini dediticii hi, qui quondam adversus populum Romanum armis susceptis pugnaverunt, deinde victi se dediderunt.

[7] Gai. 1.17-18: 17. Nam in cuius persona tria haec concurrunt, ut maior sit annorum triginta, et ex iure Quiritium domini, et iusta ac legitima manumissione liberetur, id est vindicta aut censu aut testamento, is civis Romanus fit; sin vero aliquid eorum deerit, Latinus erit. 18. Quod autem de aetate servi requiritur, lege Aelia Sentia introductum est. Nam ea lex minores XXX annorum servos non aliter voluit manumissos cives Romanos fieri, quam si vindicta, apud consilium iusta causa manumissionis adprobata, liberati fuerint.

[8] Si argomenti da Gai. 1.16: Si vero in nulla tali turpitudine sit servus, manumissum modo civem Romanum modo Latinum fieri dicemus. Sul punto si veda, da ultimo, L. Pellecchi, “Loi Iunia Norbana sur l’affranchissement”, in J.-L. Ferrary, P. Moreau (a cura di), Lepor. Leges Populi Romani, Paris 2007 (http://www.cn-telma.fr/lepor/notice490/, 18/9/17), 3.1.1.

[9] Sulla lex Iunia si vedano: Gai. 1.22-23; Gai. 1.80; Gai. 1.167; Gai. 2.210; Gai. 2.275; Gai. 3.56-57; Gai. 3.70; Gai. 3.76; Tit. Ulp. 1.10; Tit. Ulp. 3.3; Tit. Ulp. 11.16; Ti

Ligios Maria Antonietta



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