La delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale dopo la riforma del processo matrimoniale canonico
Mario Ferrante
Professore associato di Diritto ecclesiastico e canonico, Università degli Studi di Palermo,
La delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale dopo la riforma del processo matrimoniale canonico
Sommario: 1. Il M.P. Mitis Iudex Dominus Iesus e la riforma ancora in itinere del processo canonico di nullità matrimoniale. - 2. Conseguenze dell'abrogazione del M.P. Qua cura del 1938 sul sistema concordatario italiano in materia di delibazione. - 3. Considerazioni sulla funzione filtro del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. - 4. La riforma alla prova del principio del giusto processo (art. 111 della Costituzione). - 5. Sull'attuale sistema di diritto processuale italiano. - 6. Analogie e differenze tra processo matrimoniale canonico e processo civile. - 7. Su alcune possibili specifiche conseguenze negative della riforma sulla delibazione per violazione del diritto di difesa. - 8. Sulla natura giuridica del processus brevior. - 9. Sulla funzione degli indicatori previsti dall’art. 14 delle Regole procedurali. - 10. Inammissibilità dell'appello “non “manifestamente dilatorio" e sua compatibilità con l'ordine pubblico processuale italiano. - 11. Conclusioni.
1. Il M.P. Mitis Iudex Dominus Iesus e la riforma ancora in itinere del processo canonico di nullità matrimoniale
La riforma del processo matrimoniale canonico, introdotta con il M.P. Mitis Iudex Dominus Iesus dell'8 settembre 2015, nonostante siano trascorsi oltre due anni dalla sua promulgazione, appare, ad oggi, essere ancora in itinere[1].
La promulgazione della riforma ha dato luogo ad una sequela di interpretazioni molto controverse che hanno richiesto prima alcuni interventi del Pontificio Consiglio per l'Interpretazione dei Testi Legislativi e, successivamente, un nuovo diretto intervento normativo del Pontefice con l'emanazione del Rescritto ex audientia del 7 dicembre 2015[2].
Ulteriormente, nel gennaio del 2016, vi è stata la pubblicazione da parte della Tribunale Apostolico della Rota Romana di un "Sussidio applicativo"[3], una sorta di vademecum per una più corretta applicazione della riforma di cui, però, non è ancora del tutto chiaro il valore nella scala delle fonti normative[4].
Nonostante questo proliferare di interventi normativi ed interpretativi di vario genere, volti a chiarire i molteplici punti oscuri della riforma, risulta evidente che ancora diversi aspetti restano da decifrare.
A riprova di quanto asserito, basti ricordare che la Conferenza Episcopale Italiana (CEI), in occasione dell'Adunanza Generale del mese di maggio del 2016, non ha assunto una posizione chiara e definitiva sugli aspetti amministrativi della riforma, preferendo rinviare ogni specifica determinazione dopo ulteriori approfondimenti[5].
In conseguenza di questo marasma che investe in particolare la Chiesa italiana, il 9 giugno 2016, il Papa ha costituito un tavolo di lavoro - coordinato dal segretario generale della CEI - per la definizione delle principali questioni interpretative e applicative di comune interesse, relative alla riforma del processo matrimoniale al quale sono stati chiamati a partecipare il Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, il Decano del Tribunale della Rota Romana ed il Presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi[6]. Nel successivo mese di luglio è stato emanato un comunicato della CEI in base al quale si sono chiariti alcuni aspetti applicativi ed amministrativi della riforma[7].
Tuttavia, ad oggi, non sono state ancora ufficialmente emanate le nuove "Norme circa il regime amministrativo dei Tribunali Ecclesiastici italiani" elaborate in seguito ai lavori del Consiglio Permanente della CEI nella sessione del 23-25 gennaio 2017.
Da ultimo, il 25 novembre 2017, in occasione dell’udienza ai partecipanti al Corso promosso dal Tribunale della Rota Romana, il Pontfice “Al fine di rendere l’applicazione della nuova legge del processo matrimoniale, a due anni dalla promulgazione, causa e motivo di salvezza e pace per il grande numero di fedeli feriti nella loro situazione matrimoniale”, ha ritenuto “di precisare definitivamente alcuni aspetti fondamentali dei due Motu proprio, in particolare la figura del Vescovo diocesano come giudice personale ed unico nel Processo breviore” [8].
Nonostante, il ricordato quadro normativo ancora in divenire, si proverà, comunque, a trarre delle conclusioni circa i possibili effetti di questa riforma epocale dell’ordito giudiziario matrimoniale previgente (ve ne sono state tre nel diritto universale in epoca moderna: quella di Benedetto XIV, quella di Pio X ed ora quella di Francesco), analizzando i possibili riflessi di essa sulla delibazione delle sentenze di nullità matrimoniale emesse in conformità al M.P. Mitis Iudex[9].
2. Conseguenze dell'abrogazione del M.P. Qua cura del 1938 sul sistema concordatario italiano in materia di delibazione
Per quanto riguarda nello specifico la Chiesa italiana, una delle principali conseguenze della riforma voluta da Papa Francesco è stata quella di avere abrogato il M.P. Qua cura con cui nel 1938 Papa Pio XI aveva deciso la costituzione dei Tribunali ecclesiastici regionali, sottraendo la competenza sulla declaratoria di nullità matrimoniale alla storica e naturale giurisdizione del vescovo diocesano[10].
Le motivazioni di questo radicale cambiamento sono spiegate con chiarezza nel Proemio del M.P. Mitis Iudex Dominus Iesus[11].
Il ritorno alla valorizzazione del ruolo del Vescovo quale giudice naturale e precostituito (iure proprio et nativo) - in aderenza a quanto dichiarato dal Concilio Vaticano II[12] - non è però, a ben vedere, una novità assoluta nel panorama legislativo della Chiesa. In merito, basti pensare che già con la Costituzione Apostolica Divinus perfectionis Magister di San Giovanni Paolo II (del 25 gennaio 1983) - con la quale si è provveduto ad una complessiva ristrutturazione della procedura delle cause di canonizzazione dei santi - si è valorizzata la potestà propria del Vescovo[13], assegnando ai Vescovi diocesani ed a quanti in iure vengono ad essi equiparati (cf. can. 381, § 2) la responsabilità e il compito di condurre, entro i limiti della propria giurisdizione, l'inchiesta e la raccolta delle prove che viene condotta con potestà propria (auctoritate propria)[14].
In ogni caso, con il progressivo (ma non automatico)[15] venire meno in Italia dei Tribunali ecclesiastici su base regionale si è ampliata la competenza giudiziale dei Vescovi diocesani - che era stata compressa dal M.P. del 1938 - i quali sono ora chiamati a giudicare direttamente (ove ne ricorrano i presupposti) anche sulle cause di nullità matrimoniale incoate dai propri fedeli[16].
Fin qui, in breve, i termini della riforma.
Resta ora da chiarire se tale riforma strutturale dell'organizzazione giudiziaria della Chiesa con la conseguente modificazione del riparto di competenze interno al sistema processuale canonistico possa avere una qualche ricaduta sul piano dei rapporti Stato-Chiesa, potendo costituire un ostacolo alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche emanate dal Vescovo diocesano.
In effetti, tra i primi commentatori della riforma, vi è stato chi ha insinuato il dubbio che la ricordata modifica del riparto di competenze giurisdizionali in àmbito canonico possa essere in contrasto con quanto pattuito nell'Accordo di Villa Madama. Si è, cioè, sostenuto che "i tribunali ecclesiastici avuti presenti dalle Alte Parti in sede di Accordo sono quelli, per dir così, 'ordinari', costituiti con questa specifica funzione di terzietà dall’ora abrogato m.p. Qua cura, di composizione collegiale e presieduti dal vicario giudiziale...". Ne conseguirebbe che l'innovazione apportata dalla riforma di Francesco non potrebbe essere considerata indifferente "alla stregua della clausola rebus sic stantibus nei rapporti con lo Stato"[17]. Risultando, quindi, potenzialmente pregiudizievole ai fini della delibazione.
Non si ritiene di potere convenire con tale conclusione per le seguenti ragioni.
Innanzitutto, l'Accordo di Villa Madama non ha fatto alcuno specifico riferimento ai Tribunali Ecclesiastici regionali, limitandosi a parlare di "Tribunali ecclesiastici" tout court (cfr. Art. 8, n. 2 Accordo).
Inoltre, il fatto che la variazione interna all'ordinamento canonico del riparto di competenze nell'àmbito di una riorganizzazione degli uffici giudiziari sia del tutto irrilevante e non operi - come sostenuto dalla dottrina in commento - a livello del diritto internazionale come un'alterazione della "clausola rebus sic stantibus nei rapporti con lo Stato" è comprovato dalla oggettiva circostanza storica che già una volta nel passato il diritto concordatario italiano si è trovato di fronte ad una situazione analoga a quella che stiamo oggi vivendo[18]. Infatti, quando nel 1929 venne stipulato il Concordato Lateranense, il sistema giudiziario canonico in Italia era basato su quanto previsto dal Codice Piano-benedettino del 1917 in materia e, cioè, su di un principio di ripartizione di competenze del tutto simile a quello oggi di nuovo vigente e cioè basato sulla centralità della figura del Vescovo diocesano[19].
In altri termini, quando, nel lontano 1929, vennero firmati i Patti Lateranensi le cause matrimoniali venivano giudicate dal Vescovo diocesano o con l'aiuto di un vicario giudiziale, ovvero anche quale giudice unico, qualora il Presule avesse deciso di riservare a sé tale giudizio.
Questo, dunque, il quadro normativo canonico vigente al momento della stipula del Concordato.
Sennonché, quando nel 1938 venne emanato il M.P. Qua Cura, con cui, derogando al diritto universale, vennero appositamente creati per l'Italia i tribunali ecclesiastici regionali, tale modifica non ha comportato una denuncia del Concordato in parte qua o la necessità di un'immediata rinegoziazione degli accordi presi, a riprova del fatto che la modifica della struttura dei tribunali avvenuta ex parte Ecclesiae non venne vista - e né poteva esserlo - come una modifica idonea a integrare un'alterazione della "clausola rebus sic stantibus nei rapporti con lo Stato".
Ne discende che gli impegni concordatari assunti dalla Santa Sede nei confronti dello Stato non impediscono - neanche oggi - in alcun modo di modificare il riparto interno di competenze tra i giudici ecclesiastici nell'ambito del diritto canonico, trattandosi di un atto che ricade nell'autonomia e nell'ordine proprio della Chiesa (cfr. art. 7 Cost., 1° comma)[20].
Ulteriormente, dalla circostanza che nel Concordato del 1929 il Vescovo diocesano fosse stato ritenuto un giudice affidabile, connotato dal carattere di terzietà rispetto alla parti del giudizio costituisce un significativo precedente normativo pattizio di cui tenere adeguatamente conto allorquando si pone oggi in dubbio l'imparzialità del Vescovo quale giudice[21].
Conseguentemente, non si possono ricavare elementi ostativi alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche sol perché queste siano state emesse dal Vescovo diocesano quale giudice monocratico e non da un tribunale ecclesiastico regionale in forma collegiale.
3. Considerazioni sulla funzione filtro del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica
Una volta chiarito che il ripristino della storica competenza del Vescovo diocesano a giudicare della validità del matrimonio non inficia di per sé la possibilità di procedere alla delibazione, occorre ora vedere quale ruolo può essere attribuito al Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica nel contesto del mutato assetto dell'ordinamento giudiziario interno alla Chiesa cattolica.
Come è noto, in base all'art. 8, n. 2 dell'Accordo, possono essere delibate soltanto quelle "sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo", cioè della Segnatura Apostolica.
Si tratta di un presupposto indefettibile per potere attivare il processo di delibazione, in quanto esso assurge a condizione di procedibilità per il giudice italiano.
In merito, deve segnalarsi una rilevante modifica tra il testo dell'art. 34 del Concordato del 1929 in base al quale "provvedimenti e le sentenze relative, quando siano divenute definitive, saranno portate al Supremo Tribunale della Segnatura, il quale controllerà se siano state rispettate le norme del diritto canonico relative alla competenza del giudice, alla citazione ed alla legittima rappresentanza o contumacia delle parti" e il testo vigente dove non si fa più riferimento a tale attività di previo controllo e filtro da parte della Segnatura.
Si tratta di una rilevante differenza che sembrerebbe ridurre l'attività della Segnatura ad una mera e burocratica attestazione dell'intervenuta esecutività della sentenza in base al diritto canonico.
Tuttavia, nonostante la ricordata modifica intervenuta nel diritto concordatario, non sembra che sia possibile considerare in termini tanto riduttivi il ruolo del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, specie in un momento particolarmente delicato dei rapporti Stato-Chiesa in materia di delibazione come quello attuale.
Invero, al di là degli impegni assunti in sede pattizia, la Segnatura apostolica deve, comunque, farsi carico - in base allo stesso diritto canonico - di tutte le funzioni di vigilanza sull'operato dei tribunali ecclesiastici (ormai diocesani) e ciò proprio in quanto "superiore organo ecclesiastico di controllo".
A riprova di quanto ora asserito, basti citare la lettera circolare a tutti i tribunali ecclesiastici italiani su talune questioni riguardanti la tutela del diritto di difesa nel processo di nullità del matrimonio del 14 novembre 2002, emessa in seguito ai clamori suscitati dall'ormai celeberrima sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nel caso Pellegrini contro Italia[22]. In tale Lettera circolare la Segnatura ha esplicitamente dichiarato che "interverrà, con tutti gli strumenti consentiti dalla sua natura di Tribunale Supremo, cui è affidata la sorveglianza sulla retta amministrazione della giustizia nella Chiesa (cf. art. 124, 1° Cost. Ap. Pastor bonus), in caso di eventuali abusi di cui giunga a conoscenza, al fine di riparare, per quanto è possibile, provate violazioni dei diritti delle parti in causa".
In altri termini, indipendentemente da ogni obbligo di derivazione pattizia, la Segnatura continuerà, comunque, a farsi carico alla luce della sua funzione di vigilanza sulla retta amministrazione della giustizia nella Chiesa - ribadita dall'art. 35 della Lex propria Supremi Tribunalis Signaturae Apostolicae, promulgata da Benedetto XVI con Motu Proprio del 21 giugno 2008 - del controllo sul rispetto dei princìpi fondamentali della procedura canonica[23].
Detta rivalutazione del ruolo di filtro operato dalla Segnatura Apostolica appare vieppiù rilevante ove si consideri che, in seguito al venire meno del principio della doppia sentenza conforme (cfr. can. 1679), è venuto anche di conseguenza meno il controllo che era, in ogni caso, effettuato dal giudice ecclesiastico di secondo grado chiamato a ratificare l'operato dei tribunali di prima istanza in base al vecchio can. 1682[24].
Invero, specie nel caso di processus brevior, dove è meno probabile la presentazione di appelli, l'intervento della Segnatura rappresenterà l'unico momento di verifica formale circa la regolarità della procedura di emanazione della decisione di nullità matrimoniale in sede canonica prima dell'attivazione del giudizio civile.
Verifica che, dunque, è lecito attendersi vada al di là della semplice segnalazione di sviste o errori materiali (ad esempio correzione di date o di cognomi e nomi di battesimo per sollecitare decreti di correzione della sentenza da parte dei tribunali interessati). Come è noto, infatti, la Segnatura Apostolica ha il potere di impedire l'esecutività della sentenza e può commettere la causa alla Rota Romana affinché accerti la nullità della sentenza, così come può "sollecitare la promozione della querela nullitatis da parte del difensore del vincolo presso il tribunale che ha emanato la sentenza"[25].
Un positivo segnale in tal senso è dato dalla Lettera circolare del 30 gennaio 2016 con cui il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica si è attivato per adeguare la concessione del decreto di esecutività in vista della delibazione di sentenze emanate in applicazione del M.P. Mitis iudex Dominus Iesus[26].
In altre parole, il decreto di esecutività costituisce, oggi più che in passato, una sorta di "certificazione di qualità", garantendo ufficialmente l'idoneità della sentenza canonica a dichiarare la nullità del matrimonio e ciò esclusivamente in vista dell'eventuale delibazione, in quanto la sentenza canonica - una volta divenuta definitiva in quanto non più impugnabile in via ordinaria - è di per sé esecutiva[27].
Si tratta, pertanto, di una sorta di self-restraint ex parte Ecclesiae volto a favorire una corretta applicazione degli accordi concordatari che - se correttamente svolto - costituisce un'ulteriore garanzia specie in vista della delibazione delle sentenze di nullità emanate, anche tramite un processus brevior, in applicazione della riforma.
4. La riforma alla prova del principio del giusto processo (art. 111 della Costituzione)
Passiamo ora ad occuparci della parte tradizionalmente più complessa ed articolata dei rapporti Stato-Chiesa in materia di delibazione: il controllo da effettuarsi da parte della Corte di Appello per la verifica del rispetto delle condizioni richieste dall'Accordo del 1984, con particolare riferimento al sindacato di non contrasto con l'ordine pubblico sia sostanziale, sia, soprattutto, per quanto qui ci interessa, processuale, in base a quanto stabilito dall' art. 8, 2.b dell'Accordo.
In merito, occorre, preliminarmente, ricordare che l'ampiezza del controllo demandato alla Corte d’Appello in sede di delibazione è stata da tempo chiarita dalla Corte Costituzionale che ha qualificato il diritto alla difesa come appartenente al novero dei princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale solo “nel suo nucleo più ristretto ed essenziale” e, pertanto, “non può certo estendersi ai vari istituti in cui esso concretamente si atteggia”.
In altri termini, non potrà rilevare qualsiasi forma di diversa regolamentazione processuale sussistente tra il diritto processuale canonico e quello statale, ma soltanto eventuali concrete, specifiche e gravi violazioni del diritto di difesa che devono essere puntualmente accertate[28].
Sul punto diversi sono gli aspetti che meritano attenzione sotto il profilo della compatibilità tra i princìpi che caratterizzano il processo matrimoniale canonico - specie in seguito alla riforma di Francesco - e quelli che reggono il diritto processuale italiano.
A tal fine appare preliminarmente opportuno operare un breve raffronto, sia pure meramente sistematico, tra l'attuale configurazione del processo di nullità matrimoniale in foro ecclesiastico ed il vigente sistema processuale italiano.
Vedremo, infatti, che alla luce di siffatta comparazione molte delle presunte anomalie ed incongruenze giuridiche di cui è accusata la riforma di Francesco - se proprio non si elidono e svaniscono del tutto - risultano, quantomeno, fortemente ridimensionate, anche in vista delle possibili implicazioni in sede di delibazione.
Come dianzi ricordato, il problema di maggiore rilievo che viene in considerazione nel nostro caso è quello di verificare se "nel procedimento canonico sia stato garantito il diritto di agire e resistere in giudizio delle parti in modo non difforme dai princìpi fondamentali dell'ordinamento italiano", cioè occorre verificare che sia stato rispettato il c.d. ordine pubblico processuale che oggi trova la sua consacrazione nel concetto di giusto processo di cui all'art. 111 della Costituzione (nel testo riformato con la legge cost. n. 2/1999).
Con l'espressione "giusto processo" si indica l’insieme delle forme processuali necessarie per garantire, a ciascun titolare di diritti soggettivi o di interessi legittimi lesi o inattuati, la facoltà di agire e di difendersi in giudizio. I princìpi costituzionali del giusto processo sono stati tradizionalmente tratti dagli artt. 2, 3, 24 ed oggi dal novellato art. 111 della Costituzione[29].
I cardini del giusto processo in base alla citata normativa costituzionale sono: il principio del contraddittorio;il principio dell’imparzialità del giudice;il principio della ragionevole durata del processo[30].
Per quanto di nostro specifico interesse, soffermeremo la nostra attenzione esclusivamente sul profilo del rispetto del diritto alla difesa e del contraddittorio che, tradizionalmente, ha sempre suscitato maggiori problemi per la delibazione.
Non ci occuperemo della ragionevole durata del processo in quanto la riforma canonica è tutta nel senso di velocizzare al massimo la conclusione dei procedimenti di nullità come è, ampiamente, dimostrato dall'abolizione del principio della doppia sentenza conforme (can. 1679) e dall'introduzione del processus brevior davanti al Vescovo diocesano (cann. 1683-1687). Neppure prenderemo in esame il tema dell'imparzialità del giudice, atteso che si è già chiarito che il Vescovo può e deve essere considerato un giudice adeguato ed imparziale.
Delineato il senso ed il significato del concetto di giusto processo in astratto, vediamo adesso come esso trovi concreta attuazione nell'ambito del processo civile italiano.
Si tratta di un'analisi indispensabile al fine di verificare differenze ed analogie tra il vigente sistema processualistico civile italiano e quello canonico, al fine di cogliere eventuali difformità tra i due ordinamenti di tale rilevanza da superare persino "il margine di maggiore disponibilità che l'ordinamento statuale si è imposto rispetto all'ordinamento canonico", causando l'impossibilità di procedere alla delibazione delle sentenze di nullità matrimoniale per contrarietà all'ordine pubblico processuale[31]. E ciò specie ove si consideri, come dianzi accennato, che, proprio con riguardo al profilo dell'ordine pubblico processuale, la Cassazione ha affermato che compito della Corte d'Appello è quello di "accertare che risultino rispettati gli elementi essenziali del diritto di agire e di resistere nell'ambito dei princìpi supremi dell'ordinamento costituzionale dello Stato (e che sono rispettati quando risulti che le parti abbiano avuto la garanzia sufficiente per provvedere alla propria difesa) e non anche riscontrare se siano state rispettate puntualmente tutte le norme canoniche e se queste diano le stesse garanzie offerte dal nostro ordinamento"[32].
- Sull'attuale sistema di diritto processuale italiano
Come è noto, l'attuale legislazione italiana (a partire dal D.lgs. 150/2011) prevede solo tre modelli processuali applicabili: il rito del lavoro; il processo ordinario di cognizione ed il processo sommario di cognizione.
Tale organica scelta di politica legislativa - adottata nel corso degli ultimi anni (a partire dalla prima riforma del 2009) - si pone nell'ottica di velocizzare e snellire il gravoso contenzioso civile ed è in netta controtendenza con il trend normativo prodottosi dal 1940 ai nostri giorni che ha visto addirittura vigere contemporaneamente fino a 33 diversi riti previsti da varie leggi speciali[33].
Con tale riforma il Legislatore nazionale ha voluto introdurre una sorta di "doppio binario", dividendo i vari processi in due fondamentali e logiche categorie: quelli complessi che richiedono maggiori approfondimenti istruttori e formalismi probatori; e quelli più semplici, caratterizzati dalla possibilità di una concentrazione delle attività processuali ed una de-formalizzazione dell'istruttoria[34].
In tale ottica - per quanto strettamente di nostro interesse - con la legge 69/2009, è stata introdotto nel titolo I del libro IV del Codice di procedura civile il capo III bis, composto dagli artt 702bis, 702ter e 702quater i quali disciplinano un nuovo procedimento sommario di cognizione di natura non cautelare (in quanto non condizionato dal requisito del periculum in mora) esperibile nelle controversie in cui il tribunale giudica in composizione monocratica[35]. Ossia un procedimento utilizzabile in quelle controversie che non necessitano di un'istruttoria complessa, consistente in un giudizio sommario di primo grado che, nel rispetto del contraddittorio, è destinato a concludersi - sulla base di un'istruttoria semplificata ed accelerata - con un'ordinanza provvisoriamente esecutiva idonea ad assumere l'efficacia di giudicato (ai sensi dell'art. 2909 cod. civ.)[36].
In altri termini, il rito “sommario” si pone come “alternativo” al rito ordinario, ed è caratterizzato dalla funzione di consentire l’accelerazione dell’esercizio dei poteri cognitivi decisori, con la formazione di un accertamento idoneo al giudicato sostanziale, previa selezione, da parte del giudice, della singola controversia ritenuta, caso per caso, compatibile con la decisione semplificata.
La sommarietà del rito in esame deve essere, dunque, intesa come mera semplificazione di ogni fase del processo successiva a quella introduttiva (l’unica disciplinata direttamente dall’art. 702 bis c.p.c.); il legislatore, cioè, pensando alle controversie più semplici, ha voluto introdurre un modello di procedimento dalla disciplina piuttosto scarna, che il giudice può, in certa misura, forgiare a propria discrezione[37].
Il procedimento sommario di cognizione ex art. 702 bis e ss. c.p.c. deve considerarsi, a dispetto del suo nome e della sua collocazione sistematica, come un processo a cognizione piena. Va, quindi, condivisa l’interpretazione di chi, in dottrina, ha precisato che l’espressione “procedimento sommario” andrebbe interpretata alla stregua di “procedimento semplificato”, appartenente all’area della cognizione piena, che si caratterizza per l’oggetto delle controversie che con esso sono trattate e decise, laddove il carattere semplificato del procedimento corrisponde al carattere semplificato della controversia che ne è oggetto[38].
In altri termini, nel caso di specie la “sommarietà” non è riferita alla cognizione, bensì al procedimento, con ciò evidentemente sottolineandosi che la semplificazione e de-formalizzazione attengono all’iter procedimentale e non alla cognizione decisoria finale che ne consegue. Esso deve essere considerato come uno strumento idoneo a favorire una rapida definizione delle controversie che appaiano mature per la decisione (art. 187, 1° comma cod. proc. civ.) fin dall'udienza di comparizione (art. 702 bis, 3° comma).
Da un punto di vista procedurale, per ottenere questo risultato sarà necessario che l'attore opti per il rito sommario quando ritenga - evidentemente adoperandosi in tale senso, e perciò curando la raccolta delle prove (precostituite) prima di dare inizio al processo - di poter offrire al giudice una causa già matura per la decisione.
Al fine di stabilire se il procedimento possa proseguire col rito sommario, ovvero debba continuare secondo quello ordinario (art. 702 ter, 3° comma), sarà poi indispensabile che il giudice esamini molto attentamente le difese svolte dalle parti (convenute), sceverando quelle che, evidenziando una certa consistenza, comportino la necessità di atti d'istruzione incompatibili con la cognizione sommaria, da quelle che appaiano meramente dilatorie ovvero che, pur non manifestamente infondate, esigano accertamenti non complessi od esauribili in tempi brevi.
Ancora più di recenteil D.L. 12 settembre 2014, n.132 convertito dalla L. 10 novembre 2014, n. 162 (c.d. riforma sulla de-giurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato) ha introdotto nel codice di rito l'art. 183 bis, così ampliando le ipotesi di applicabilità del rito sommario di cognizione (art. 702 bis e ss.).
Esso attribuisce al giudice il potere discrezionale di disporre, nell'udienza di trattazione, il passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione, "valutata la complessità della lite e dell'istruzione probatoria". In tal modo, limitatamente alle controversie di competenza del tribunale in composizione monocratica (come previsto anche dall'art. 702 bis co.1 c.p.c.), si configura una modalità di mutamento di rito speculare a quella delineata nell'art. 703 ter, 3° co., c.p.c. Quest'ultimo stabilisce che il giudice, se ritiene che "le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non sommaria", fissa, con ordinanza non impugnabile, l'udienza di cui all'art. 183 c.p.c., mentre la norma di nuovo conio stabilisce che il giudice nell'udienza di trattazione, "valutata la complessità della lite e dell'istruzione probatoria", può disporre con ordinanza non impugnabile, previa attivazione del contraddittorio sul passaggio di rito, anche mediante trattazione scritta, che si proceda ex art. 702 ter c.p.c. [39].
In altri termini, a seguito della citata riforma del 2014, divengono tre le modalità di accesso al procedimento sommario di cognizione: a) per iniziativa dell'attore ex art. 702 ss.; b) per iniziativa del giudice ex art. 183 bis; c) per determinazione normativa (d.lgs. 150/2011) [40].
Ovviamente la ricordata innovazione legislativa non ha mancato di sollevare molteplici dubbi di legittimità costituzionale.
In merito pare opportuno segnalare una recente sentenza della Corte Costituzionale la n. 10 del 2013 (estensore l'attuale Presidente della Repubblica Mattarella)[41] che ha avuto modo di chiarire alcuni dubbi inerenti il processo sommario di cognizione[42].
La sentenza ha affermato la legittimità costituzionale delle norme sul processo di cognizione sommaria, precisando che la scelta di trattare con il procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702bis ss., cod. proc. civ. "è stata motivata, nella relazione illustrativa al decreto impugnato, dalla «accentuata semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa, rivelata, spesso nella maggior parte dei casi, dal richiamo della procedura camerale prevista e disciplinata dagli artt. 737 ss., cod. proc. civ.".
Inoltre, si è sottolineato che: "il presupposto della semplificazione della trattazione è stato altresì rinvenuto in quei procedimenti che, nel loro pratico svolgimento, sono caratterizzati dal thema probandum semplice, cui consegue ordinariamente un’attività istruttoria breve, a prescindere dalla natura delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte o delle questioni giuridiche da trattare o decidere" e ciò anche "a fronte di questioni giuridiche spesso non altrettanto semplici".
Ciò posto, la Corte ha concluso affermando che: "nel quadro descritto, deve pertanto escludersi che le disposizioni impugnate siano manifestamente irragionevoli, ponendosi invece nell’ambito di un chiaro disegno riformatore, orientato alla semplificazione dei procedimenti civili in esame".
Da quanto esposto si evince che anche la Corte Costituzionale ha riconosciuto la possibilità di prevedere giudizi semplificati e, per così dire, "destrutturati" al fine di favorire una maggiore celerità dei processi, ritenendo che tale soluzione sia conforme al dettato costituzionale.
6.- Analogie e differenze tra processo matrimoniale canonico e processo civile
Occorre adesso, alla luce di quanto sin qui esposto, verificare se la riforma intervenuta nel processo matrimoniale canonico possa effettivamente considerarsi compatibile con i "princìpi fondamentali dell'ordinamento italiano", cioè se essa sia conforme al già descritto ordine pubblico processuale sancito dall'art. 111 della Costituzione.
In realtà, già ad un primo ed epidermico confronto tra il nuovo sistema canonico e l'altrettanto nuovo sistema processuale italiano, dianzi descritto, tale preoccupazione sembra, se non venire meno, quantomeno attenuarsi parecchio.
Invero, come è noto, l'attuale processo canonico, al pari di quello civile si struttura sulla base di tre possibili modelli processuali applicabili: il processo documentale; il processo ordinario; ed il processo brevior.
Tale similitudine appare talmente evidente da sembrare non casuale. In particolare il processus brevior appare, se non proprio modellato su quello a cognizione sommaria dianzi descritto, certamente ad esso ispirato.
Volendo analizzare le analogie tra le due procedure, basti dire che in entrambi i casi si è in presenza di un giudice monocratico (per il diritto canonico il Vescovo); che la decisione di utilizzare tale processo dipende dalla domanda dell'attore la quale deve fornire al giudice degli elementi anche probatori tali da evidenziare che non è necessaria una particolare e complessa attività probatoria, essendo bastevole un'istruttoria semplificata, dando così al giudice agio di potere stabilire di procedere col rito sommario di cognizione.
Ancora, se è vero che nel processo a cognizione sommaria civile non è richiesto l'accordo delle parti quale condizione indefettibile per potere utilizzare tale tipo di processo, è, però, possibile che il giudice, pur in presenza di una richiesta attorea di rito sommario non ritenga, alla luce della posizione processuale della parte convenuta (la quale si opponga adducendo elementi di prova che richiedano un'attività istruttoria più complessa ed articolata) di potervi accedere ritendo necessario adottare il rito ordinario e ciò in piena analogia con quanto previsto dal can. 1676, § 2.
Ulteriormente, è anche possibile, in entrambi gli ordinamenti, che avvenga un mutamento del rito inizialmente prescelto e cioè che un procedimento inizialmente incoato con rito sommario/brevior, possa essere tramutato in ordinario (cfr. can. 1687,§ 1 e art. ) e viceversa (cfr. art. 183 bis cod. proc. civ. e art. 15 delle Regole procedurali per la trattazione delle cause di nullità matrimoniale)[43].
Ancora, entrambi i processi si caratterizzano per un'attività istruttoria estremamente de-formalizzata e concentrata e per il fatto che il carattere semplificato del procedimento corrisponde al carattere semplificato della controversia che ne è oggetto.
Il processo sommario di cognizione si chiude non già sentenza ma con ordinanza cioè con un provvedimento che è succintamente motivato analogamente a quanto accade nel processo brevior dove è sufficiente che la sentenza "esponga in maniera breve e ordinata i motivi della decisione" (art. 20, §2 delle regole procedurali per la trattazione delle cause di nullità matrimoniale).
L'unica differenza di rilievo è costituita dal fatto che il giudizio di cognizione sommaria si può chiudere con una decisione di rigetto nel merito, senza che questa eventualità comporti la necessità per il giudice di disporre il mutamento del rito (analogamente a quanto previsto per l'ormai abrogato rito sommario societario ex art. 19 d.legisl. 5/2003).
Viceversa, tale possibilità, in modo certo più garantista, è contemplata dal nuovo processo brevior, laddove si prevede che qualora il Vescovo diocesano non dovesse raggiunge la certezza morale sulla nullità del matrimonio, non potrà pronunciarsi negativamente ma dovrà rimettere la causa al processo ordinario (cfr. can. 1687 § 1.). Si tratta, come ovvio, di una norma che è volta a tutelare il diritto alla difesa delle parti che risulterebbe compresso qualora venisse respinta la richiesta di nullità solo per il fatto di avere scelto un rito in cui - proprio per il carattere sommario che lo caratterizza - non è stato possibile fornire una prova adeguata al necessario raggiungimento della certezza morale da parte del Vescovo (ex can. 1608).
Da quanto sin qui brevemente esposto pare possibile ritenere infondata l'accusa che pure è stata mossa al processo brevior di essere "al limite della degiuridicizzazione"[44].
Tale accusa pare vieppiù ingiustificata ove si consideri che, proprio in materia matrimoniale, con particolare riferimento ai procedimenti di separazione e di divorzio, negli ultimi anni si è assistito ad un trend normativo caratterizzato dall'assoluta semplificazione e dall'esplicita degiurisdizionalizzazione. In merito, basti ricordare la legge istitutiva del c.d. "divorzio breve" (legge n.55 del 6 maggio 2015) con cui si è completato il quadro delle misure acceleratorie in materia di divorzio e di separazione, già intrapreso dalla già citata legge 10 novembre 2014, n. 162 di conversione in legge del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 - recante misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile[45].
Con tale normativa si è, tra le altre cose, prevista la possibilità di evitare il procedimento di fronte al tribunale mediante la negoziazione assistita da avvocati e gli accordi di separazione e divorzio conclusi davanti all’Ufficiale dello Stato Civile.
In altri termini, si è prevista la possibilità per i coniugi di comparire direttamente innanzi all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune per concludere un accordo di separazione, di divorzio o di modifica delle precedenti condizioni di separazione o di divorzio (art. 12), dandosi così vita ad un sistema davvero "al limite della degiuridicizzazione" in un settore nevralgico e delicato come quello del diritto di famiglia.
Tuttavia, anche ammettendo, per ipotesi, che detta accusa sia fondata, da tale conclusione non potrà trarsi alcun elemento ostativo alla delibazione, dal momento che anche il sistema processuale italiano ritiene conforme al giusto processo l'esistenza di un processo a cognizione sommaria con caratteristiche del tutto analoghe a quelle del processo brevior.
Volendo evidenziare i molteplici punti di contatto ed analogie tra i due tipi di processo basti tenere conto del seguente quadro sinottico.
7.- Su alcune possibili specifiche conseguenze negative della riforma sulla delibazione per violazione del diritto di difesa
Quanto sin qui esposto ci autorizza, dunque, a ritenere che vi sia una sostanziale analogia, sia strutturale sia teleologica, tra il nuovo sistema processuale canonico e quello previsto dal vigente codice di procedura civile che consente di propendere per l'assenza di ostacoli sistematici tra i due ordinamenti giuridici in vista della delibazione.
Tuttavia ciò non significa che non vi siano alcune criticità le quali potrebbero creare dei problemi in sede di giudizio di delibazione.
Alcuni di questi dubbi emergono dal testo del M.P. Mitis Iudex, mentre altri si sono posti in seguito all'emanazione del già ricordato Rescritto ex audientia del 7 dicembre 2015.
Con riferimento a quest'ultimo, pare subito possibile notare nella seconda parte dedicata specificamente al Tribunale Apostolico della Rota romana presenta alcune norme che potrebbero essere foriere di problemi in sede di delibazione. Tra tali disposizioni vi è quella per cui "nelle cause di nullità di matrimonio davanti alla Rota Romana il dubbio sia fissato secondo l’antica formula: An constet de matrimonii nullitate, in casu". Con tale norma si è espressamente sancito il ritorno alla formula del dubbio generico così come era già previsto nelle Normae rotali del 1934 (nei tribunali inferiori rimane invece l’obbligo del dubbio specifico, come può essere per esempio l’esclusione della prole)[46].
Siffatta soluzione normativa, al di là delle pur comprensibili motivazioni pastorali che l'hanno determinata, crea non pochi problemi pratici per quanto attiene il corretto esercizio del diritto alla difesa della parte convenuta che si oppone alla richiesta declaratoria di nullità. Infatti, è di tutta evidenza che una formula del dubbio generica rischia di ledere il principio del contraddittorio che richiede, per la sua corretta attuazione, la determinazione degli esatti confini del thema probandum e del thema decidendum.
Una formulazione generica del dubbio non consente, cioè, un effettivo esercizio del diritto alla difesa, in quanto nel giudizio rotale, a causa di essa, il collegio giudicante può giungere a conclusioni anche diverse da quanto dibattuto e deciso in primo grado. Il che, combinato con il principio della c.d. conformità equivalente (vale a dire per capitoli di nullità formalmente diversi), in virtù del quale la conformità riguarda unicamente il dispositivo, darebbe luogo all'emanazione di sentenze in Rota (in seconda istanza) per motivi di nullità diversi da quelli decisi in primo grado, come già accadeva sotto la vigenza del vecchio codice (cfr. can. 1677, § 3) e dell'art. 77, § 2 delle Normae rotali del 1934[47].
Per la verità, l'attuale riforma crea ancora maggiori problemi rispetto alle disposizioni contenute nella Lex propria della Rota del 1934 in quanto l'art. 77, § 1 - proprio al fine di prevenire possibili lesioni del diritto di difesa - stabiliva che "Formula dubii referre debet ipsum controversiae meritum, cauto ne excedantur limites quaestionis applellatae vel commissae". Pare legittimo, dunque, attendersi che anche le nuove Normae di prossima emanazione richiamino questo principio, onde evitare il verificarsi di possibili lesioni del diritto alla difesa delle parti convenute che potrebbero avere delle ricadute negative anche sul piano della delibazione. Invero, la situazione sopra descritta potrebbe essere valutata criticamente dalle Corti di appello che potrebbero ritenere leso il diritto "di agire e resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali dell'ordinamento italiano" di cui all'art. 8, comma 2, lett. b dell'Accordo di Villa Madama.
Un'ulteriore criticità che è sorta da una prima applicazione del citato Rescriptum ex audientia, riguardava la norma che, nello spirito dei princìpi ispiratori della riforma, prevede che: "La Rota Romana giudichi le cause secondo la gratuità evangelica, cioè con patrocinio ex officio, ...".
In altri termini - in base al testo del Rescritto – si è, almeno inizialmente, ritenuto esservi stata l’introduzione del principio per cui in Rota, non era più possibile avvalersi di avvocati rotali di fiducia, bensì usufruire esclusivamente del gratuito patrocinio con assegnazione di un patrono d'ufficio scelto dal Tribunale tra gli iscritti all'Albo[48].
La scelta di inibire la possibilità di scegliere liberamente l'avvocato da cui farsi difendere è stata subito percepita dagli addetti ai lavori come un possibile vulnus alla delibazione. Potendosi dare il caso di una parte convenuta che, in sede di delibazione, opponga, quale causa ostativa all'attribuzione di effetti civili alla sentenza canonica di nullità, il fatto di avere subito una lesione del proprio diritto ad un'adeguata difesa tecnica non avendo potuto scegliere un avvocato di fiducia (magari lo stesso che aveva già patrocinato la causa nei precedenti gradi di giudizio), invocando la violazione del più volte citato Art. 8, n. 2 dell'Accordo di Villa Madama.
Siffatta preoccupazione appariva vieppiù fondata alla luce del disposto dall'art. 6, comma 3, della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, a mente del quale ogni persona ha il diritto di "difendersi personalmente o avere l'assistenza di un difensore di sua scelta...".
Certamente non si deve enfatizzare il problema in quanto anche la stessa Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, in applicazione della citata norma, ha affermato che: "gli individui cui viene concesso il gratuito patrocinio non sempre scelgono il legale che viene nominato per loro. Il diritto di avere l’assistenza di un legale di propria scelta può essere soggetto a restrizioni quando lo esigono gli interessi della giustizia[49].
Sennonché, non erano abbastanza chiari quali potessero essere, nel caso dei giudizi matrimoniali davanti alla Rota, gli "interessi della giustizia" tali da giustificare l'imposizione di un difensore scelto dal Tribunale, magari contro la volontà della parte[50].
La suddetta norma non ha, infatti, mancato di suscitare forti reazioni tra cui un’interpellanza parlamentare urgente rivolta al Governo italiano, con cui si lamentava la violazione del Concordato tra Italia e Santa Sede, dell’articolo 24 della Costituzione e della Convenzione europea per i diritti dell’uomo in merito al diritto alla difesa, con pesanti conseguenze sulla possibilità di delibare le sentenze rotali di nullità matrimoniale[51].
Si trattava, come è intuibile, di una pericolosa falla nel sistema che, è stata chiusa, con una lettera del Segretario di Stato Pietro Parolin indirizzata al decano della Rota ma inviata anche alla Segnatura apostolica e al Pontificio consiglio per i testi legislativi, nella quale il Segretario di Stato comunicava che «il Santo Padre ha espresso la volontà che sia rispettato il diritto di ogni fedele di scegliere liberamente il proprio avvocato». Il cardinale Parolin, a nome del Pontefice, ha chiesto al decano della Rota di «voler modificare la prassi attuale» e corregge l’interpretazione del rescritto papale del dicembre 2015 dando modo «alle parti che lo desiderano di scegliersi un patrono di fiducia».
Con un decreto del Decano del 28 marzo 2017 (affisso nella bacheca della Rota) è stata data attuazione a quanto stabilito dal Pontefice, prevedendosi che all'inizio del processo rotale verrà data comunicazione alle parti del loro diritto di chiedere il gratuito patrocinio e che le parti possono nominare un patrono di fiducia, da retribuire secondo la tabella stabilita dal collegio rotale fermo restando l'onere, in questi casi, del pagamento delle spese processuali.
In altri termini, è stata ripristinata la possibilità di avvalersi di un avvocato di fiducia anche se, in quest’ultimo caso, la parte che decide di nominare un proprio patrono dovrà anche sobbarcarsi l’onere delle non indifferenti spese processuali che potrebbero costituire un deterrente di non poco rilievo all’esercizio di tale diritto.
In effetti, sarebbe stato preferibile adottare una soluzione simile a quella prevista dall'ordinamento giuridico italiano dove l'istituto del patrocinio a spese dello Stato (già "gratuito patrocinio") permette di farsi assistere da un avvocato e da un consulente tecnico scelti fiduciariamente e liberamente tra gli avvocati iscritti nell'apposito albo, senza dover pagare le spese di difesa e le altre spese processuali, qualora ne ricorrano le condizioni (cfr. art. 80 D.P.R. 115/2002).
8.- Sulla natura giuridica del processus brevior
Tra i primi commentatori della riforma, è emerso anche il dubbio che "il provvedimento episcopale, pur qualificato come sentenza, appare, siccome emesso senza contraddittorio ma sull’accordo delle parti, piuttosto un atto di controllo che si inserisce nel procedimento di formazione della volontà dei coniugi ricorrenti. Il che è tipico – come detto - della iurisdictio inter volentes o pro volentibus, caratterizzata appunto dalla mancanza di contraddittorio".
La dottrina citata - argomentando da tale asserita natura giuridica del provvedimento dichiarativo della nullità matrimoniale emesso dal vescovo diocesano - conclude per l’impossibilità di attribuire effetti civili a siffatti provvedimenti che avrebbero solo "il valore di una dispensa" ed in quanto tali non sarebbero delibabili in base al combinato disposto dell’art. 8.2 dell’Accordo del 1984 e dell’art. 797 c.p.c., i quali “fanno riferimento solo alle sentenze, cioè a provvedimenti che presuppongono un carattere almeno potenzialmente contenzioso e assunti quindi nel contraddittorio delle parti"[52].
Si rileva, infine, che "la partecipazione delle parti al procedimento non è idonea a integrare il più pregnante principio del contraddittorio processuale e del giusto processo, che contraddistingue i procedimenti di natura giurisdizionale"[53].
Tali considerazioni non sembrano condivisibili per una semplice ed evidente ragione. Seppure è vero che il processus brevior si basa sull'accordo indefettibile e pieno delle parti, è pur vero che tale accordo trova la sua ratio logica e giuridica nella considerazione che trattandosi di una materia (quella matrimoniale) che implica la salus animarum delle parti e la possibilità di esercitare il diritto fondamentale dello ius connubii, non si è ritenuto possibile - in modo assai più garantista di quanto accade nel processo civile sommario di cognizione - decidere una causa con un rito a istruttoria semplificata e de-formalizzata senza che entrambe le parti convenissero su tale opportunità[54].
Del resto, come ammette anche chi sostiene la tesi opposta, è sempre consentito una sorta di ius poenitendi nel senso che la parte che non ritenga più di avvalersi del rito più breve potrà o chiedere direttamente al Vescovo il mutamento di rito o anche, semplicemente assumere una condotta processuale incompatibile con la prosecuzione del processo in forma più breve.
Tuttavia, anche a prescindere da quanto ora esposto, vi sono altre due considerazioni che inducono a ritenere che l'accordo delle parti, sia sostanziale che anche formale, non costituisca un ostacolo alla delibazione per assenza di contraddittorio come si è prospettato.
In merito basti ricordare come, già con l'art. 102 dell'Istruzione Dignitas Connubii dal 2005 - una volta superata (almeno sulla carta) la tradizionale collusionis suspicio - si era data la possibilità ad entrambi i coniugi di presentare il c.d. libello congiunto costituendosi con "un procuratore o un avvocato comune".
Si trattava di una disposizione (ormai superata dalla riforma) che costituiva una valida base normativa idonea a conferire piena legittimità allo svolgimento di una procedura in forma consensuale nelle cause di nullità di matrimonio con tutta una serie di rilevanti implicazioni sul piano procedurale[55]. In realtà, già a partire da tale norma ed a maggior ragione con la riforma, pare possibile notare una sorta di simmetria tra il processo matrimoniale canonico e quello civile di separazione e divorzio, dal momento che in entrambi si aprono due vie alternative: una consensuale e una giudiziale.
Orbene, in ormai oltre dieci anni dalla promulgazione dell'Istruzione Dignitas Connubii, non risultano sentenze che in sede di delibazione abbiano negato efficacia civile ad una sentenza di nullità canonica sol perché emanata in esito ad un processo incoato con libello congiunto per un'asserita assenza di contraddittorio.
Infine - last but not least - non è affatto vero che il processo brevior sia caratterizzato dall'assenza di contraddittorio in quanto, al di là dell'accordo delle parti, anche in questo tipo di processo è obbligatoria la presenza del Difensore del Vincolo[56].
Senza volersi addentrare nel descrivere il ruolo e le funzioni di questo operatore del tribunale[57], basti ricordare che seppure "non tutte le caratteristiche proprie delle parti possono essere facilmente applicabili al difensore del vincolo, in quanto soggetto estraneo al rapporto sostanziale dedotto nel processo" non sembra possibile che "si possa negare che la condizione di parte convenuta spetti al difensore del vincolo"[58].
In altri termini, anche nel processo brevior un contradditorio esiste ed è garantito dalla presenza obbligatoria del difensore del vincolo il quale, dunque, assurge al ruolo "di vero contraddittore della richiesta di nullità", assumendo la qualifica non solo di parte necessaria del processo ma anche di parte pubblica dello stesso, in quanto figura professionale volta a difendere il vero ed unico "imputato" di ogni processo di nullità matrimoniale, ossia il matrimonio stesso[59].
9.- Sulla funzione degli indicatori previsti dall’art. 14 delle Regole procedurali
Si è anche arrivati a sostenere che la nullità dichiarata attraverso il processo brevior consisterebbe in una "truffa delle etichette" in quanto altro non sarebbe se non uno scioglimento del matrimonio camuffato e contrabbandato come una declaratoria di nullità.
Si argomenta in tal modo traendo spunto dall'art. 14 delle Regole procedurali contenute nel M.P. Mitis Iudex il quale elenca, in modo esemplificativo e non esaustivo, una serie di "circostanze che possono consentire la trattazione della causa di nullità del matrimonio per mezzo del processo più breve secondo i cann. 1683-1687"[60]. Si afferma, cioè, che si farebbe dipendere la nullità del matrimonio da "circostanze di fatto, sommariamente accertate, emerse successivamente all’atto di matrimonio, cioè durante il rapporto coniugale, e attinenti quindi non alla fase formativa ma a quella esecutiva del vincolo: una sorta di scioglimento del matrimonio sotto le mentite spoglie della nullità"[61].
Non è possibile concordare con tale affermazione già ove solo si consideri che le circostanze cui fa riferimento il citato art. 14 sono tutte tratte dall'esperienza giurisprudenziale della Rota Romana e rappresentano quelle che potremmo definire delle Praesumptiones Iurisprudentiae o Hominis (ovviamente iuris tantum) basate sull'id quod plerumque accidit e che costituiscono, quindi, degli indizi comuni e presumibili di nullità matrimoniale ma non certo dei nuovi motivi di nullità[62]. Ne consegue che non è possibile affermare che a causa di ciò si avrebbe "l’accostamento sostanziale alla categoria dei provvedimenti di scioglimento" cosa che determinerebbe "una disparità di trattamento quanto all’efficacia: ex nunc il divorzio, ex tunc la nullità: che nel caso del processus brevior sarebbe ottenuta, per giunta, consensualmente come una separazione coniugale (art. 711 c.p.c.) e senza il contraddittorio previsto dall’art. 5 l. n. 898 del 1970"[63].
Il ricorso agli indicatori previsti dall'art. 14 rappresenta, semmai, una cautela diretta a cercare di dare un punto di riferimento ai vicari giudiziali che saranno chiamati a decidere se, in un dato caso, si può fare ricorso al processo brevior, limitando da un lato la loro discrezionalità e, dall'altro, cercando di fornire un criterio guida per creare, sul punto, i presupposti di una giurisprudenza il più uniforme possibile.
In altri termini, altro è il fatto che il legislatore canonico abbia previsto dei parametri e dei presupposti sia pure indicativi ed esemplificativi per potere accedere al processo più breve, altro è arguire da tale norma che si sia in presenza di un divorzio sotto mentite spoglie.
Invero, i presupposti previsti dall'art. 14 delle Regole procedurali, sono solo degli indicatori utili per il giudice per comprendere se, al di là dell'accordo pur necessario delle parti, vi siano dei presupposti oggettivi per ritenere che la causa sia di facile soluzione al punto da potere essere gestita con un procedimento a carattere sommario e ad istruzione semplificata quale è il processus brevior.
Anzi, pare possibile sostenere che detta norma rappresenti una garanzia per le parti in quanto pone un parametro legislativo alla pur ampia discrezionalità residua del Vicario giudiziale, limite che, invece, non sussiste - come dianzi esaminato - in ambito civilistico quando il giudice si trova a dovere decidere in totale discrezionalità quale rito adottare, pur in presenza di un'esplicita richiesta di processo sommario di cognizione.
Ritenere che tali presupposti, peraltro tratti dalla prassi e dall'esperienza forense (e non "in via previa, e sia pure in modo non tassativo, dallo stesso m.p." [64]), trasformino il processo di nullità in uno di divorzio, con le ricordate conseguenze sul piano della delibazione, pare, francamente, eccessivo.
10.- Inammissibilità dell'appello “non “manifestamente dilatorio" e sua compatibilità con l'ordine pubblico processuale italiano
Un altro aspetto della riforma che potrebbe destare il sospetto di confliggere con il principio del giusto processo che abbiamo assurto a parametro di valutazione della delibabilità di sentenze canoniche emanate in applicazione della riforma del processo canonico è quello che concerne il filtro previo previsto per l'ammissibilità di ogni appello.
Il nuovo can.1680, § 2, con riferimento al processo ordinario, stabilisce che "il tribunale collegiale, se l’appello risulta manifestamente dilatorio, confermi con proprio decreto la sentenza di prima istanza"; nello stesso senso si esprime il novellato can. 1687, § 4 - riferito al processus brevior - secondo cui: "Se l’appello evidentemente appare meramente dilatorio, il Metropolita o il Vescovo di cui al § 3, o il Decano della Rota Romana, lo rigetti a limine con un suo decreto".
Si tratta, evidentemente di due norme volte a limitare l'abuso dell'istituto dell'appello che, nella prassi, si può tradurre in estenuanti lungaggini processuali, specie nel caso degli appelli proposti alla Rota Romana che (nonostante una recente encomiabile netta inversione di tendenza avvenuta nel corso degli ultimi anni), si era meritata per questo l'appellativo di "cimitero delle cause".
Il dubbio sulla congruità col giusto processo nasce dal richiesto requisito di ammissibilità dell'appello il quale non deve presentarsi come "manifestamente dilatorio" (appellatio mere dilatoria). Come è evid
Ferrante Mario
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