fbevnts Il ruolo svolto dalle fonti bilaterali in tema di patrimonio archivistico ecclesiastico nella “comunicazione della conoscenza”

Il ruolo svolto dalle fonti bilaterali in tema di patrimonio archivistico ecclesiastico nella “comunicazione della conoscenza”

03.02.2016

di Isabella Bolgiani
Ricercatore di diritto canonico ed ecclesiastico nell’Università Cattolica del Sacro Cuore
in JusOnline, Vol. II, N. 2, Giugno 2016

SOMMARIO: 1. Osservazioni introduttive - 2. Gli archivi ecclesiastici di interesse storico nell’Accordo di Villa Madama - 3. La centralità della collaborazione nell’Intesa del 2000 - 4. I contenuti della Convenzione del 2015 - 5. Problematiche aperte in tema di gerarchia delle fonti - 6. L’importanza della circolazione del sapere: dall’inventariazione alla consultazione delle carte della Chiesa - 7. Considerazioni conclusive.

 

1. Osservazioni introduttive

Per lungo tempole vicende legate agli archivi della Chiesa sono rimaste confinate in un ambito per così dire «intra-ecclesiale»[1]. Solo di recente, l’imporsi di un nuovo sistema di relazioni tra Stato e Chiesa cattolica, caratterizzato dal principio di collaborazione introdotto dall’Accordo di revisione concordataria (art. 1)[2], ha saputo progressivamente aprire la via ad una giusta attenzione per una materia che risulta porsi “a cavaliere” tra diritto civile e canonico[3]. Una condizione che deriva in primo luogo dalla natura stessa di tali archivi, i quali costituiscono testimonianza e documento di un ordinamento «indipendente e sovrano», regolato in quanto tale dal diritto canonico[4].

Si è così determinato un singolare sviluppo di disposizioni su questi temi, anche in considerazione dell’evoluzione tanto della scienza archivistica quanto della disciplina dei “beni culturali” in generale[5]. Gli archivi di interesse storico della Chiesa, infatti, appartengono di regola a quest’ultima categoria[6].

Di qui, dunque, l’importanza dell’art. 12 dell’Accordo di revisione concordataria, in tema di «patrimonio storico ed artistico», per gli “impegni” assunti dalle Parti nel segno di una sua «migliore [il corsivo è mio] salvaguardia, valorizzazione e godimento»[7] ed il rilievo delle fonti bilaterali, che ne sono derivate e che saranno oggetto del presente studio.

In particolare, tre appaiono dunque i fili conduttori che questa analisi si propone di percorrere. Anzitutto, occorre evidenziare il “ruolo” svolto dalla collaborazione per quanto concerne nello specifico il patrimonio archivistico ecclesiastico e la riconducibilità a tale ratio delle fonti bilaterali che se ne occupano. In secondo luogo si intende sottolineare come il paradigma strutturale dell’Accordo di Villa Madama (definito da una parte della dottrina come «Concordato quadro»[8]) abbia contribuito a determinare - anche con riferimento a questi temi - una sorta di “effetto a cascata”, in forza del quale dopo la definizione di una prima serie di intese si sono aggiunti ulteriori nuovi accordi[9], sia pure dal valore giuridico differente rispetto ai precedenti. Infine, occorre rilevare il “peso” di queste scelte nel quadro più generale della “comunicazione della conoscenza”, avendo particolare riguardo al tema del giusto bilanciamento tra una adeguata tutela della proprietà del patrimonio archivistico ecclesiastico e la sua effettiva fruibilità da parte dei possibili utenti a ciò interessati.

Proprio il riferimento a quest’ultimo profilo rende necessaria un’ultima precisazione circa l’ampiezza della “nozione” di archivi ecclesiastici. Si tratta di questione su cui in dottrina si riscontrano posizioni differenziate, ma rispetto alla quale occorre offrire sin da subito una chiave di lettura valida per una migliore comprensione delle considerazioni che seguiranno. A questo proposito, occorre anzitutto chiarire come, a fronte dei vari momenti che caratterizzano la “vita” di un archivio nel diritto canonico[10], la scelta attuata dalle Parti contraenti – e questo qui particolarmente interessa – sia stata quella di dedicare la propria attenzione nello specifico agli “archivi ecclesiastici di interesse storico”, stante il loro rilievo tanto per l’ordinamento statale quanto per quello confessionale. Il valore della locuzione “interesse storico” sarà meglio chiarito nel paragrafo dedicato alla Intesa del 2000, mentre preme già ora evidenziare quali siano i requisiti soggettivi e oggettivi che, secondo una parte della dottrina, attraggono un “bene d’archivio” nella «categoria connotata dal carattere dell’ecclesiasticità»[11].

Un primo elemento è senz’altro rappresentato dall’inscindibile legame esistente tra tale materiale documentale ed un soggetto facente parte dell’ordinamento canonico; inoltre, come è stato rilevato[12], necessita «la soggezione dei beni d’archivio alla attività di vigilanza e controllo della autorità ecclesiastica», così come prevedono in particolare i cann. 487, 488 e 535 del Codex iuris canonici del 1983; tra i requisiti oggettivi utili per la classificazione suddetta, occorre poi rilevare la “funzione pubblica” di questi beni nell’ordinamento della Chiesa, che «trascende l’individuo nella tutela di un interesse non particolare». In sintesi, il carattere di “ecclesiasticità” di un archivio deriva, secondo tale orientamento, dal «collegamento con il diritto canonico e con la realtà ecclesiale» così come ricavabile dal combinato e «dalla esistenza dinamica»[13] dei suddetti requisiti soggettivi ed oggettivi, i quali sono comunque accostabili nella sostanza ai più generali elementi qualificanti (ma non esaustivi) della titolarità e della destinazione[14].


[1] In questo senso, cfr. A. Zanotti, Prefazione a G. Boni, Gli archivi della Chiesa cattolica. Profili ecclesiasticistici, Giappichelli, Torino 2005, p. V, il quale precisa come gli archivi ecclesiastici siano stati a lungo considerati solo come una sorta di «deposito» di dati «concernenti le vicende dei fedeli, […], nonché gli inventari dei beni patrimoniali» ecclesiastici.

[2]Più in generale sul ruolo del principio di collaborazione, si veda G. Lo Castro, Ordine temporale, ordine spirituale e promozione umana. Premesse per l’interpretazione dell’art. 1 dell’Accordo di Villa Madama, in Il Diritto ecclesiastico, n. I, 1984, p. 508 ss.; P. Consorti, Collaborazione e intese tra Stato e Chiesa, in Nuovi studi di diritto canonico ed ecclesiastico, a cura di V. Tozzi, Edisud, Salerno 1990, p. 310, il quale ha sottolineato come il principio di collaborazione rappresenti «un superamento oggettivo» del principio di bilateralità; A.G. Chizzoniti, Le certificazioni confessionali nell'ordinamento giuridico italiano, Vita e Pensiero, Milano 2000, p. 124 ss., che ricorda come detto principio in realtà trovi attuazione non solo nella fase di «costruzione legislativa», ma anche nella «fase dell’esecuzione» attraverso un’azione amministrativa partecipata; G. Dalla Torre, La “filosofia” di un Concordato, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1, 2004, p. 81, il quale ha rilevato come nell’art. 1 vengano precisati «valori e principi condivisi, cui entrambe le parti intendono improntare non solo l’applicazione nel tempo di quanto concordatariamente convenuto, ma anche più in generale le proprie reciproche relazioni»; in questo senso, si veda inoltre O. Fumagalli Carulli, “A Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio”. Laicità dello Stato e libertà delle Chiese, Vita e Pensiero, Milano 2006, pp. 70-73, la quale sottolinea come la peculiarità dell’Accordo di Villa Madama consista nel suo porsi «non tanto come regolamento di competenze o gelosa definizione dei confini della propria sovranità, (…), ma come impegno di reciproca collaborazione, assunto e condiviso da entrambi i contraenti», in funzione del bene comune; ed ancora più di recente Ead., Lo Stato italiano e la Chiesa cattolica: indipendenza, sovranità e reciproca collaborazione (a proposito dell’art. 1 dell’Accordo di revisione concordataria), in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 3, 2014, in particolare pp. 6-9.

[3] Sul punto si veda in particolare G. Dammacco, La natura giuridica degli archivi ecclesiastici, in Archivi ecclesiastici e legislazione concordataria dopo il nuovo Accordo tra Stato e Chiesa: atti del Seminario di Studi di Bari (Bari 23-24 marzo 1988), a cura di Id., in Archivi per la storia: rivista della Associazione nazionale archivistica italiana, n. 2, 1989, Le Monnier, p. 41 ss.; nonché A. Roccella, Conservazione consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche degli enti e delle istituzioni ecclesiastiche tra ordinamento canonico ed ordinamento statuale, in Le carte della Chiesa. Archivi e biblioteche nella normativa pattizia, a cura di A.G. Chizzoniti, Il Mulino, Bologna 2003.

[4] In questo senso, A. Zanotti, Prefazione a Gli archivi della Chiesa cattolica. Profili ecclesiasticistici, cit., p. V. Sugli archivi nell’ordinamento canonico, si veda A. Turchini, Archivi della Chiesa ed archivistica, La Scuola editore, Brescia 2011; E. Boaga, Gli archivi ecclesiastici nel diritto canonico, in Archivi e Chiesa locale. Studi e contributi. Atti del “Corso di archivistica ecclesiastica” (Venezia, dicembre 1989 – marzo 1990), Studium cattolico veneziano, Venezia 1993, p. 62 ss.; M. Grossi, Gli archivi della Chiesa cattolica, in Storia d’Italia nel secolo ventesimo. Strumenti e fonti, III, Le fonti documentarie, Pubblicazione degli Archivi di Stato, Roma, 2006, p. 333 ss. Per una panoramica sulle diverse tipologie di archivio nel diritto della Chiesa, si rinvia a G. Badini, Archivi e Chiesa. Lineamenti di archivistica ecclesiastica e religiosa, Il Mulino, Bologna 1989; nonché A. Lauro, Gli archivi ecclesiastici nel nuovo Codice di diritto canonico, in Archiva Ecclesiae, n. 28-29, 1985-1986, p. 26 ss.; e R. Maceratini, La legislazione canonica e gli archivi ecclesiastici, in Archivio Giuridico Filippo Serafini, CCXII, 1992, p. 523 ss. Sul punto, sia pure senza pretesa di completezza, occorre in ogni caso sottolineare come il “nucleo” delle disposizioni in materia di archivi si trovi nel Libro II, Titolo III, Art. 2 del Codice di diritto canonico del 1983 (in particolare, si vedano i cann. 486-491). Detti canoni stabiliscono anzitutto come presso ogni curia sia istituito un archivio diocesano (can. 486 § 2) destinato a custodire tutti i documenti e le scritture che riguardano «le questioni temporali e spirituali della diocesi» (c.d. archivi comuni o correnti); il can. 491 § 2 stabilisce inoltre che il Vescovo diocesano abbia cura che nella diocesi vi sia un «archivio storico», nel quale confluiscono gli atti che abbiano acquisito appunto «valorem historicum». Le modalità che presiedono al trasferimento dall’uno all’altro, non previste nel Codice del 1983, sono enunciate per la Chiesa italiana dallo «Schema-tipo di Regolamento degli Archivi ecclesiastici italiani» (al riguardo si v. infra nota 39), il quale dispone che in linea di principio i suddetti atti entrino a fare parte dell’archivio storico esaurita la loro funzione specifica e «superato il limite convenzionale alla consultabilità (70 anni)». Per quanto concerne i documenti che per loro natura o per disposizione di legge devono rimanere riservati, essi sono custoditi invece nell’«archivio segreto» (can. 489, § 1), che può essere costituito in un ambiente distinto da quello dell’archivio corrente o situato al suo interno, purché siano adottate particolari misure di sicurezza dirette a garantirne l’inviolabilità. Il can. 491 § 1 contiene, infine, un espresso richiamo al fatto che il Vescovo diocesano «abbia cura che anche gli atti e i documenti degli archivi delle chiese cattedrali, collegiate, parrocchiali e delle altre chiese presenti nel suo territorio vengano diligentemente conservati» e che se ne compilino in due esemplari, di cui uno viene conservato nella rispettiva chiesa e l’altro nell’archivio diocesano.

La dottrina sopra elencata ha poi provveduto ad una serie di classificazioni riguardanti nello specifico i diversi tipi di “archivi ecclesiastici”. Al riguardo si veda per tutti, A. Turchini, Archivi della Chiesa ed archivistica, cit., pp. 28-29, che si richiama a propria volta ad E. Boaga (Gli archivi ecclesiastici nel diritto canonico, cit., pp. 140 ss), il quale distingue due principali categorie: gli «archivi ecclesiastici pubblici» ovvero «gli archivi delle persone giuridiche pubbliche, che agiscono a nome della Chiesa»; e gli «archivi ecclesiastici privati», che comprendono a propria volta gli archivi «di enti ed istituti con regole sottoposte al controllo della autorità ecclesiastica» e gli archivi ecclesiastici in «senso lato», cioè gli archivi di associazioni o enti privi di personalità giuridica pubblica nell’ordinamento canonico.

[5] Sull’evoluzione della scienza archivistica, si veda da ultimo Archivistica. Teorie, metodi e pratiche, a cura di L. Giuva, M. Guercio, Carocci, Roma 2014. E più nello specifico: Archivistica ecclesiastica: problemi, strumenti, legislazione, a cura di A.G. Ghezzi, ISU, Milano 2001. Con specifico riferimento agli archivi ecclesiastici, preme ricordare, secondo quanto sottolineato da una parte della dottrina, come essi rappresentino testimoni privilegiati dell’operato della Chiesa e come «nello svolgimento di tale funzione perseguano evidentemente un fine di natura strettamente giuridico-amministrativa», che poi acquista «rilievo storico» ogni qual volta la conservazione delle carte «si protrae oltre il termine di utilizzazione delle stesse» (D. Milani, La tutela dei dati personali nell’ordinamento canonico: interessi istituzionali e diritti individuali a confronto, in Commenti e Contributi di OLIR, Aracne Editore, Roma 2005, p. 149). Avvenuto tale passaggio (da amministrativo a storico) - precisa altra dottrina - il materiale documentario non modifica tuttavia la sua natura iniziale e, comunque, mantiene – anche dopo avere acquisito la qualifica di «bene culturale» – la sua vocazione originaria e «produttività di effetti giuridici» (cfr. E. Lodolini, Archivistica. Principi e problemi, Franco Angeli editore, Milano 1986, pp. 125-126).

[6] Più in generale, in ordine alla inclusione degli «archivi di interesse storico» tra i beni culturali, si veda per una attenta ricostruzione della evoluzione della normativa sul tema: A. Roccella, Conservazione consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche degli enti e delle istituzioni ecclesiastiche tra ordinamento canonico ed ordinamento statuale, cit., p. 49 ss., il quale ricorda come l’espressione “beni culturali” si sia diffusa in Italia in tempi relativamente recenti ed in particolare per effetto di una commissione di indagine nota con il nome del suo presidente ovvero la «Commissione Franceschini». Essa adoperò l’espressione «bene culturale» da intendersi come bene «che costituisce testimonianza materiale avente valore di civiltà» e propose la classificazione dei beni culturali in cinque categorie, una delle quali costituita proprio dai beni archivistici (la relazione e le dichiarazioni della Commissione sono pubblicate in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1966, p. 119 ss). Per l’attuale definizione del concetto di “bene culturale”, si veda da ultimo il D.lgs n. 42 del 2004 (c.d. Codice Urbani), il quale all’art. 2 - dopo avere affermato che il patrimonio culturale è costituito dai «beni culturali e paesaggistici» (comma 1) - precisa che sono tali «le cose immobili e mobili che, ai sensi degli artt. 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico [il corsivo è mio] e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà». Tale qualifica discende, in particolare, dalla verifica «dell’interesse culturale» degli stessi che è regolamentata dagli art. 10, 11 e 13 del Codice Urbani. Per un commento ai singoli articoli, si veda per tutti Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di A.M. Sandulli, Giuffrè, Milano, 2012.

[7] Così S. Bordonali, L’art. 12 del nuovo Concordato dieci anni dopo, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1, 1995, p. 98, il quale indica come tale norma non sia introduttiva di forme di limitazione della legislazione unilaterale in materia, ma di una disciplina, frutto della collaborazione, «migliorativa e aggiuntiva rispetto a quella che già è in vigore». Tra i primi commenti in questo stesso senso si veda in particolare G. Pastori, L’art. 12 del nuovo Concordato: interpretazioni e prospettive di attuazione, in Jus. Rivista di Scienze giuridiche, XXVI, 1989, p. 84 ss

[8] In questo senso, si veda F. Margiotta Broglio, Dalla questione romana ai Patti Lateranensi, in Un accordo di libertà: la revisione del Concordato con la Santa Sede, a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1986, p. 49.

[9] Al riguardo, si vedano i paragrafi 3 e 4.

[10]Al riguardo, si veda supra nota 5.

[11] In questo senso, G. Dammacco, La natura giuridica degli archivi ecclesiastici, cit., p. 41 ss.

[12] Ivi, pp. 44-46.

[13] In questo senso, ivi, p. 46. 

[14] In questo senso si veda inoltre S. Bordonali, L’attuazione dell’art. 12 del nuovo accordo: prospettive giuridiche della cooperazione, in Archivi ecclesiastici e legislazione concordataria dopo il nuovo Accordo tra Stato e Chiesa: atti del Seminario di Studi di Bari, (Bari 23-24 marzo 1988), cit., p. 103 il quale ricorda che, se da un lato, gli archivi possano essere di vario tipo e «raccogliere materiale eterogeneo, riflesso della attività che si intende documentare», dall’altro, la «peculiarità degli archivi ecclesiastici» consiste nel “valore” che assumono i documenti in essi custoditi, «in quanto funzionali all’esercizio del potere spirituale della Chiesa».

Bolgiani Isabella



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Bolgiani - Il ruolo svolto dalle fonti bilaterali.pdf
 

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