Il nuovo regime probatorio nei giudizi canonici di nullità del vincolo: riflessioni a prima lettura
Antonio Ingoglia
Professore associato di diritto canonico all’Università degli Studi di Palermo
Marco Dell’Oglio
Docente di diritto ecclesiastico all’Università degli Studi di Palermo
SOMMARIO: 1. Una riforma dai risvolti problematici. - 2. Variazioni concernenti la norma sul valore probatorio delle confessioni e delle dichiarazioni delle parti - 3. Le ricadute sulla questione delle cosiddette “nullità di coscienza”. - 4. L’apprezzamento delle dichiarazioni confessorie e il supporto dei testi de credibilitate. - 5. Conclusioni di sintesi.
1. Una riforma dai risvolti problematici.
La riforma del processo canonico introdotta contestualmente dai motu pr. Mitis Iudex Dominus Iesus e Mitis et Misericors Iesus del Dicembre 2015[1], salutata a caldo con positiva enfasi da ampi settori dell’opinione pubblica e dei media, non ha mancato tuttavia di suscitare giudizi critici, talora anche vistosamente polemici, fra i canonisti per alcune incoerenze disciplinari in una materia tanto delicata e così strettamente legata alla salus animarum[2]. I rilievi più ricorrenti hanno riguardato in particolare le modalità del processus brevior, che sembra godere di un vero e proprio favor da parte del Legislatore della riforma, atteso che ad esso dedica una parte considerevole dei nuovi canoni, i quali nondimeno appaiono talora asimmetrici rispetto ad un impianto codicistico marcato dalla centralità del processo contenzioso ordinario: processo, quest’ultimo, inteso come modello generale, da cui derivano per successiva specificazione, secondo un rapporto da genus a species, anche i procedimenti speciali sulla nullità del vincolo[3].
Tra tali asserite aporie si segnala l’assenza nel nuovo processo più breve coram Episcopo d’un contraddittorio anche solo formale che, rappresentando l’anima di ogni giudizio, sembra determinare una palingenesi del processo matrimoniale, il quale si discosterebbe dal modello generale del processo contenzioso e sarebbe incline invece all’idea di una giurisdizione volontaria, molto simile a quella seguita in alcuni ordinamenti secolari, la cui logica non è però consentanea alla diversa e specifica fisionomia delle azioni dichiarative di nullità, quali si reggono secondo l’ordinamento canonico[4]. E sempre a proposito della suddetta palingenesi, viene poi evidenziata l’ampia discrezionalità lasciata alle parti nella scelta del processus brevior che sembra revocare in dubbio la tradizionale indisponibilità del matrimonio inteso quale bonum publicum, come pure un’eccessiva indulgenza nel rendere meno lunga la durata dei processi di nullità, attraverso l’elaborazione di una procedura che non appare proporzionata alla particolare complessità ed alla delicatezza del suo oggetto[5].
Il favore della riforma verso la maggiore speditezza del giudizio e la semplificazione delle formalità procedurali porta con sé certamente problemi ricostruttivi che spetterà alla dottrina canonistica affrontare, non sulla base di opinioni marcatamente polemiche, ma partendo dal riferimento alla dinamicità tipica della disciplina canonica sul processo[6], la quale appare segnata, nelle diverse versioni succedutesi nel suo plurisecolare sviluppo storico, da una continua tensione dialettica tra l’esigenza di maggiore celerità ed il rigoroso rispetto delle solennità rituali dettate dalla consapevolezza di trattare una materia così delicata, qual è quella sacramentale.
Tale tensione si ritrova, ad esempio, nel passaggio dal Codex pio-benedettino a quello novellato che ha dimezzato i tempi di trattazione introducendo un processo più snello e celere rispetto a quello solenne o ordinario[7]; ed ancor prima, all’interno del Corpus Iuris Canonici, mediante l’estensione della procedura sommaria, implicante la facoltà di procedere «simpliciter et de plano», nonchè «sine strepitu iudicii seu figura», anche a taluni giudizi matrimoniali[8].
Più che l’analisi di tale evoluzione diacronica, che non potrà che confermare l’evidenza della singolare dinamicità che connota il diritto processuale, sarà dunque utile soffermarsi su quest’ultimo (e più remoto) precedente, realizzato per dare una soluzione positiva agli inconvenienti che l’applicazione rigorosa delle formalità dell’ordo iudiciarius solemnis, già previste dal diritto romano e applicate al processo canonico, implicava[9]. Ci limitiamo a richiamare l’attenzione su alcuni connotati del rito sommario che possono valere ad evidenziare l’entità dei mutamenti che per tale via furono introdotti nei processi canonici matrimoniali, e nei quali è pure possibile scorgere taluni prodromi dell’attuale processo più breve: a differenza del comune processo, ad es., il contraddittorio veniva contenuto sotto il moderamen del giudice; la petitio poteva farsi sia in forma scritta che orale (“sive scripte sive verbis”); la procedura aveva inizio con la semplice citazione; la litis contestatio veniva semplificata mediante l’abolizione dei termini; e potevano essere respinte in limine sia le eccezioni sia gli appelli manifestamente dilatori[10].
E’ noto comunque come questa procedura andò lentamente declinando verso un certo lassismo che provocherà l’intervento di Benedetto XIV, il quale intese restituire alla disciplina processuale l’antico rigore, senza che ciò tuttavia comportasse una definitiva estinzione del rito sommario che continuò a convivere e ad essere applicato congiuntamente a quello ordinario o solenne: tanto che il modus procedendi restò ancora a lungo caratterizzato, in taluni casi, dalla omissione delle solennità tipiche del processo contenzioso comune[11].
2. Variazioni concernenti la norma sul valore probatorio delle confessioni e delle dichiarazioni delle parti.
Se dunque il quadro generale degli interventi introdotti dal nuovo processo, pur nella sua discontinuità rispetto alle regole ed ai principi dell’attuale assetto codicistico, non risulta del tutto estraneo alla tradizione canonica del ius vetus, è invece sul versante probatorio ed in virtù d'un singolare mutamento che esso sembra registrare un sicuro progresso. Il riferimento è ovviamente alla norma contenuta nel nuovo can. 1678, § 1, volta a valorizzare molto più che in passato la confessione e le dichiarazioni delle parti corroborate da testi de credibilitate, prevedendo che esse possano «avere valore di prova piena»[12] («da valutarsi dal giudice considerati tutti gli indizi e gli amminicoli»), sempre che «non vi siano altri elementi che le confutino»[13].
La diffidenza con la quale sin da epoca medievale s'è guardato alla confessione e alla dichiarazione delle parti come mezzi di prova nei processi matrimoniali era stata solo in parte superata dal Codex j.c. del 1983: l’avere condizionato infatti il ricorso alle stesse solo quando non si avesse «da altra fonte pienezza di prova», aveva finito per sminuire la potenzialità innovativa della formula contenuta nella precedente versione del nuovo can. 1678 circa il loro intrinseco valore probativo, tanto da avere alimentato non poche resistenze sia in ambito dottrinale sia in quello giurisprudenziale[14].
Il tema dell’eventuale forza probatoria da attribuire alle dichiarazioni e confessioni delle parti sembra registrare ora invece un ulteriore e certo sviluppo, in quanto affrontato non più in termini condizionati e negativi[15]. Rispetto al precedente intervento di riforma che assegnava al giudicante la facoltà di attribuire loro forza di prova piena nella impossibilità di reperimento di prove superiori a quella derivante dall’apporto privato delle parti, il motu pr. M.I. indica invece positivamente che «possono avere valore di prova piena» (can. 1678 § 1), ossia anche in assenza di altre prove ordinarie e purchè siano corroborate oltre che dalle attestazioni di credibilità, anche dal concorso di indizi ed ammenicoli di particolare evidenza.
Anche tale previsione, com’era immaginabile, è stataoggetto di varie obiezioni, che sembrano però restare ancorate al pregiudizio di diffidenza sull’apporto delle parti proprio della legislazione pregressa e che il Codex novellato, come s’è detto, aveva cercato senza però sempre riuscirvi di sradicare[16]. Tale pregiudizio, peraltro, aveva ingenerato talora la prassi, indotta dalla giurisprudenza più restrittiva, tendente a configurare una vera e propria proibizione di decidere la causa valendosi unicamente della confessione giudiziale anche se suffragata da elementi indiretti di riscontro[17].
A ben osservare la ragione della modifica sembra stare propriamente negli inconvenienti cui dava luogo la prassi invalsa di dover in ogni caso affiancare con altri mezzi ordinari e diretti la confessione o le dichiarazioni delle parti, ancorchè fossero state per sé concludenti e confermative rispetto al thema probandum. Sul piano pratico sembra restare ora eliminata anche quest’ultima limitazione e paiono superate le questioni che sorgevano in relazione alle dichiarazioni e confessioni prive di altri riscontri diretti di prova, le quali potranno avere, sebbene non ex lege ma secondo il prudente apprezzamento del giudice, efficacia pressocchè pari a quelle rese nell’ambito delle cause private, sempre che non ricorrano elementi contrari che portino a dubitare seriamente di quanto è stato giudizialmente riferito o ammesso[18].
Pur senza sminuire i rischi per il favor veritatis che involge la soluzione che si è scelta, non si può pertanto a nostro giudizio che guardare con interesse alla novità introdotta dal motu pr. che peraltro era stata già auspicata dai settori più illuminati della dottrina e dei c.d. operatori pratici del diritto. Il che ovviamente non dissipa il dubbio legato in particolare alla piena compatibilità di tale innovazione con la previsione generale di cui al secondo paragrafo del can. 1536, che com’è noto esclude che nelle cause che riguardano il bene pubblico le confessioni giudiziali e le dichiarazioni delle parti che non siano confessioni possano avere valore di prova piena senza che concorrano «alia elementa» a corroborarle «in modo definitivo»[19].
Volendo considerare le implicazioni sulla predetta norma generale derivanti dall’introduzione del nuovo can. 1678, § 1, occorre intanto rifuggire dall’equivoco di ritenere che gli "alia elementa" di cui si fa menzione nel predetto can. 1536, § 2 necessariamente coincidano con altre prove tipiche, ossia con documenti e testimonianze in senso proprio[20]. A ciò si era tratti a pensare, in verità, anche sulla base della disposizione esplicativa contenuta nell’art. 180 della Instructio Dignitas Connubii, in quanto condizionava la efficacia probante delle affermazioni dei dichiaranti alla sussistenza di «elementi di prova» assunti stricto sensu[21], finendo per offrire un'interpretazione alquanto riduttiva della norma generale, in contrasto peraltro col principio della libertà dei mezzi di ricerca istruttoria comune ad ogni processo contenzioso[22].
Sennonchè, sulla scia della giurisprudenza che aveva già sollevato le criticità di tale modo di intendere la norma del processo ordinario[23], e come ora il § 1 del nuovo can. 1678 conferma, tali elementi ben possono invece essere costituiti, oltre che dalle attestazioni de credibilitate, anche da adminicula et inditia di intrinseca chiarezza[24], attraverso i quali comunque il giudice potrà dare spessore alla propria certezza acquisita in coscienza. Con ciò ovviamente non si dice che egli risulti dispensato dal ricercare se necessario altre prove, sia perché l’apporto di ulteriori elementi comunque è un limite alla discrezionalità giudiziale, sia perché è dall’acquisizione delle stesse che potrà in molti casi ricavare l’insussistenza degli elementi che - secondo la nuova norma - risultino “confutare” le dichiarazioni delle parti.
Ben diversa sarebbe la valutazione nel caso che si continuasse a far ritenere che gli «alia elementa» di cui alla norma generale coincidano unicamente con le prove rituali o tipiche, giacchè se così fosse parrebbe rendersi necessario, oltre che auspicabile, un intervento più organico del Legislatore volto ad assicurare un maggior raccordo sistematico tra i due distinti disposti codicistici in discussione.
3.
3. Le ricadute sulla questione delle cosiddette “nullità di coscienza”.
Per il canonista abituato a misurare le categorie processuali alla luce delle esigenze pastorali connesse alla salus animarum, il quadro offerto dalla nuova norma circa l’efficacia probatoria delle dichiarazioni delle parti e delle confessioni sembra destinato a fornire una soluzione anche al problema rappresentato dalle c.d “nullità di coscienza”, in cui cioè risultasse impossibile, per l’assenza di prove riproducibili in sede giudiziaria, una conformità sostanziale tra la verità soggettiva conosciuta nel foro interno e quella ricavabile attraverso il processo giudiziale[25].
In tal senso il nuovo regime probatorio diventa il banco di prova per verificare la volontà dell’ordinamento di assicurare una più agevole convergenza tra foro esterno ed interno, in relazione alla speciale materia dedotta in giudizio. La generale figurazione dei due fori come aree tutt'altro che "mutuamente separate e senza alcun rapporto tra loro"[26], appare, infatti, in questi casi messa in discussione, a motivo del conflitto di coscienza tra la fondata convinzione della nullità e la possibilità della sua dimostrazione giudiziaria[27], che poteva essere indotta proprio dalla carenza nei singoli casi di prove rituali o tipiche a sostegno della dichiarazione o della confessione delle parti, così come richiesto dalla precedente versione dell’attuale can. 1678.
Com’è noto, tale questione aveva sospinto già in precedenza taluni teologi ad ipotizzare una gradazione della responsabilità di quei fedeli che, certi soggettivamente nella loro intima coscienza della invalidità del proprio matrimonio ma costretti dalla oggettiva impossibilità di fornirne la prova nei termini indicati dalla legge processuale, si trovassero in situazioni matrimoniali irregolari. E sulla base di ciò, la stessa canonistica si era proiettata ad ipotizzare financo l’eventualità che pur continuando ad essere valido tale matrimonio in foro esterno, le parti potessero accedere sia pure illecitamente ad una seconda unione matrimoniale, senza incorrere nell’impedimento dirimente determinato dal vinculus prioris matrimonii[28].
E’ altresì noto però come tale indirizzo sia stato poi oggetto di particolare riprovazione da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede che, pur senza sminuire l’autorità della coscienza individuale nelle questioni riguardanti i fedeli in situazioni irregolari, nondimeno sottolineava che «il giudizio della coscienza sulla propria situazione matrimoniale non riguarda solo un rapporto immediato tra l'uomo e Dio, come se si potesse fare a meno di quella mediazione ecclesiale, che include anche le leggi canoniche obbliganti in coscienza» e auspicava una più adeguata valorizzazione delle possibilità offerte dalla normativa processuale circa la forza probante delle dichiarazioni delle parti nei giudizi ecclesiastici di invalidità del loro matrimonio[29].
A fronte di queste sollecitazioni, pur fra le resistenze di quanti in dottrina ne sostenevano la totale inopportunità, il nuovo can. 1678 cui ci siamo più volte richiamati, sembra rifuggire da formalismi ed interpretazioni restrittive, come quelle di cui divenne foriera la norma esplicativa di cui all’art. 180 della Dignitas Connubii, che finivano per implementare gli ipotetici conflitti tra la convinzione soggettiva della nullità del matrimonio da parte del fedele e la pronuncia ottenibile in foro esterno. Riesce ora difficile supporre infatti altre situazioni che per le specifiche ed eccezionali circostanze di fatti e di persone, possano non rientrare nell’applicazione della nuova norma sul valore probatorio delle dichiarazioni che siano sostenute da testi di credibilità sui dichiaranti e da presunzioni di fatto.
4. L’apprezzamento delle dichiarazioni confessorie e il supporto dei testi de credibilitate.
Non si può non chiedersi, a questo punto del nostro discorso, senza spostare i termini del problema, ma volendo approfondirlo, quale sia la portata ed il significato secondo il motu pr. della previsione concernente i testi de credibilitate, il cui contributo risulta, come s’è avuto modo di sottolineare, di capitale importanza ai fini della qualificazione della confessione e delle dichiarazioni. Non appare chiaro, infatti, se ad essi sia necessario ricorrere ogniqualvolta l’accertamento di determinanti elementi de facto non sia altrimenti supportato da prove tipiche, ovvero se, prescindendo da ciò, si tratti d'un vero e proprio onere da mettere in relazione alla attività che il giudice e le parti devono comunque porre in essere per poter ritenere le dichiarazioni o le confessioni come sufficienti a supportare la certezza morale desumibile dal positivo convergere di altri elementi, quali indizi chiari ed ammenicoli.
Su quest’ultimo aspetto, infatti, la situazione normativa circa le attestazioni di credibilità sui dichiaranti appare solo relativamente focalizzata, in quanto il nuovo canone 1678 non qualifica più il ricorso a tale mezzo di prova con la clausola «si fieri potest» come appariva invece nella versione ora abrogata: lasciando così supporre che il legislatore abbia inteso renderlo necessario, ovvero perlomeno incentivarne un più frequente ed ampio utilizzo (non solo, dunque, in presenza d'un contesto fattuale incerto e non ben definito[30]).
L’esito che appare in ogni caso da scongiurare è il ritorno alla vetusta norma che onerava le parti di addurre i testes septimae manus[31], secondo una logica a suo tempo definita della «aritmetica della credibilità» che finirebbe per concentrarsi «soltanto sul numero dei testi a favore di ogni posizione processuale, indipendentemente dalla qualità dei contributi resi»[32]. Ed, ancora, sembra da evitare una interpretazione rigorista che imponga al giudice un tale compito, rendendolo tassativo in tutti i casi, ed a prescindere dall’apporto ricavabile da altri mezzi istruttori, anche maggiormente probanti perché riguardanti il merito della fattispecie dedotta.
Un’avvertenza simile peraltro può valere, a nostro giudizio, anche con riguardo all'ulteriore norma (il nuovo § 2 del can. 1678) che, apportando un rilevante mutamento alla formula del precedente can. 1573, assegna ora una particolare efficacia probante all’apporto del teste qualificato. Pure in tal caso la norma riformata toglie ogni indugio rispetto al passato, facendo cadere il divieto di considerare la testimonianza resa da un unico teste idonea a fornire la pienezza di prova, ed invece prevedendo che una deposizione siffatta possa "fare pienamente fede" nel caso in cui si tratti di un teste qualificato che riferisca circa "cose fatte d'ufficio", o se «circostanze di fatti o persone lo suggeriscano». Di fronte ad un dato normativo di tale tenore, l’interprete non può tuttavia ritenere, come pure da taluno s’è fatto, che la presenza di un unico teste purchè qualificato renda superfluo il ricorso ad altre fonti di prova, quasi che si venga sollevati per ciò stesso dal condurre una più completa ed adeguata indagine[33]. Ciò restituirebbe un’idea del nuovo regime che non collima con il principio del libero apprezzamento delle prove che fa da guida al giudice canonico, il quale è chiamato a valutare criticamente gli apporti testimoniali, e quindi a ponderarli nel contesto degli altri risultati probatori raggiunti durante l’attività istruttoria.
5. Conclusioni di sintesi.
Ciò che traspare in modo evidente, ad una sua prima sommaria lettura, è l‘insofferenza della normativa sin qui sinteticamente esposta rispetto a prassi interpretative ingenerate da una sfiducia aprioristica nei confronti dei soggetti coinvolti nel giudizio canonico, come pure rispetto a qualificazioni rigide o formalistiche non allineate alla particolare natura anche pastorale delle cause matrimoniali.
Invero, l’attribuzione del valore di prova piena anche alle confessioni ed alle affermazioni delle parti rese pro se e non suffragate da elementi diretti di prova conferma questa netta impressione, anche alla luce delle dichiarazioni di intenti rese in occasione della promulgazione del motu pr. e puntualmente riprese dal Sussidio applicativo che ad essa ha fatto seguito[34]. Come si è detto, la direttiva implicita è stata volta, tra l'altro, a favorire una maggiore corrispondenza tra foro interno ed esterno: anche per dare una soluzione secondo giustizia alla questione dell’accesso ai sacramenti dei fedeli nei quali vi fosse la convinzione soggettiva della nullità del precedente vincolo matrimoniale.
Non appaiono confermate dunque né l’idea riduzionistica di chi osserva che in fondo la riforma in materia non assume portata innovativa (sulla base dell'assunto fallace che essa si limiti a disvelare quanto era già implicito nella precedente versione del nuovo can. 1678); né l’opinione di chi intende che tale innovazione implicherebbe una deviazione dall’assetto preesistente, foriero peraltro di inconvenienti pratici dettati dal periculum collusionis.
Nella nuova normativa si riflette insomma qualcosa in più d'una semplice modifica formale e si infrange altresì un tradizionale modo di concepire in termini negativi e pregiudiziali l’apporto probatorio delle parti al giudizio del quale esse sono principali protagoniste[35]. E non si può non notare, conclusivamente, che il passo compiuto ora dal Legislatore della riforma, segna in modo chiaro l'affermazione delle ragioni della ricerca della verità oggettiva circa la validità dell'unione matrimoniale: quelle che mirano, in altri termini, e in ultima istanza, a far sì che il cuore dei fedeli in attesa d'un chiarimento sul loro proprio stato non abbia ad essere «lungamente oppresso dalle tenebre del dubbio»[36].
(*) Il Contributo è stato sottoposto a valutazione.
** Il contributo riproduce, con l’aggiunta delle note, il testo della relazione svolta in occasione dell'Incontro sul tema “La famiglia tra misericordia e diritto. Snodi e implicazioni della riforma del processo matrimoniale canonico” (Palermo, 13 Maggio 2016) da Antonio Ingoglia (§§ 1-3) e Marco Dell’Oglio (§§ 4-5).
[1] Le due lettere apostoliche motu proprio, rese pubbliche l’8 Settembre 2015 ed entrate in vigore l’8 Dicembre dello stesso anno, riformano rispettivamente i canoni del Codex juris canonici (Cjc) e del Codex canonum ecclesiarum orientalium(Cceo) che si riferiscono ai “Processi matrimoniali” ed introducono alcune Regole procedurali per la trattazione delle cause sotto la veste formale di articoli, il cui valore normativo è da ritenersi pari a quello dei canoni modificati. Cfr. J. LLOBELL, Alcune questioni comuni ai tre processi per la dichiarazione di nullità del matrimonio previsti dal M.P. “Mitis Iudex”, contributo on-line in www.consociatio.org/repository/Llobell_Lumsa.pdf, p. 19, ora anche in Ius Ecclesiae, 2016, I, p.14.
[2] Per una disamina critica della normativa e delle ambiguità che hanno accompagnato la fase attuativa della riforma cfr., in particolare, G. BONI, La recente riforma del processo di nullità matrimoniale. Problemi, criticità, dubbi (parte prima, seconda, terza), inStato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 7-13-21-marzo 2016; nonché R. GOMEZ BETANCUR, Los pro y los contra de una Reforma: Mitis Judex Dominus Jesus, contributo on-linein/works.bepress.com/ derecho_canonico/23, 13 Novembre 2015. Sul nuovo processo la letteratura di riferimento non risulta ancora molto ampia, per lo più prodotta in connessione con la entrata in vigore della riforma: fra altri, cfr. C. M. MORÁN BUSTOS, Retos de la reforma procesal de la nulidad del matrimonio, in Ius Canonicum, 2016, 56, p. 9 ss.; BERNARD DU PUY MONTBRUN, Analyse canonique du Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus, in Liberté politique, hiver 2015-2016, 68, p. 1 ss.; C. DOUNOT, La réforme de la procédure des nullités de mariage au regard des principes juridiques, in Catholica 1/2016, p. 56 ss. ; J. LLOBEL, Alcune questioni comuni, cit.; P. MONETA, La dinamica processuale nel M.P.“Mitis Iudex”, in Ius Ecclesiae, 2016, I, p. 39 ss.; AA. VV., La riforma dei processi matrimoniali di Papa Francesco. Una guida per tutti, a cura della Redazione di Quaderni di diritto ecclesiale, Milano, 2016; M. DEL POZZO, Il processo matrimoniale più breve davanti al Vescovo, Roma, 2016.
[3] Nella visione del Legislatore il fulcro della normativa processuale è costituito dal giudizio contenzioso ordinario da cui i processi speciali si differenziano per qualche aspetto formale. Essi pur discostandosene rimangono dunque collocati nell’ambito del processo comune, di cui continuano ad essere largamente tributari. Sul punto, in particolare, Z. GROCHOLEWSKI, Principi ispiratori del libro VII del CJC, in AA. VV., I giudizi nella Chiesa. Il processo contenzioso e il processo matrimoniale, Milano, 1988, p.22, il quale rileva che “Il processo contenzioso ordinario non soltanto appare il più elaborato, ma anche centrale nella sistematica impostazione del libro settimo, in quanto le norme che lo riguardano vengono applicate ampiamente anche in diversi processi speciali”. Anche P. MONETA, (La giustizia nella Chiesa, Bologna, 2002, p. 70) nota che nel disciplinare le procedure speciali il codice “non detta una regolamentazione completa, ma si limita a mettere in rilievo le particolarità che essi presentano, rimandando per il resto, alla regolamentazione generale prevista per il giudizio contenzioso ordinario”.
[4] Sul punto, in particolare, M. DEL POZZO, Il processo matrimoniale più breve davanti al Vescovo, cit., p.105, per il quale la totale indisponibilità dello stato coniugale canonico rende improponibile lo schema contrattualistico tipico della volontaria giurisdizione, in quanto “non si tratta di trovare un’intesa o di soddisfare le esigenze dei coniugi ma di accertare la verità del loro stato matrimoniale, dato che non rientra evidentemente nel potere degli sposi né di alcuna altra autorità”. Tale indisponibilità fa sì che anche le sentenze in materia di separazione abbiano un contenuto veritativo e non possano derivare dalla mera volontà delle parti private, implicando sempre un riscontro positivo da parte del Vescovo “della effettiva sussistenza dei motivi addotti per la separazione che devono essere in ogni caso rapportabili ad una delle ipotesi previste dal diritto” (A. INGOGLIA, La separazione coniugale in diritto canonico, Profili processuali, Milano, 2004, p. 53).
[5] Già il papa Giovanni Paolo II aveva richiamato l’attenzione sui rischi di una eccessiva speditezza nel dirimere le cause di nullità, soggiungendo che “cui mos geratur, divortio alio nomine tecto in Ecclesia tolerando via sternitur” (Alloc. alla Rota Romana, 4 febbraio 1980, in A.A.S., 1980, LXXII, p.176. Per un approfondimento sul tema si rimanda a Z. GROCHOLEWSKI, Processi di nullità del matrimonio nella realtà odierna, in AA. VV. , Il processo matrimoniale canonico, Città del Vaticano, 1988, p.11 ss.; nonché F. D’OSTILIO, I processi canonici. Loro giusta durata, Roma, 1989, p. 47 ss.; M. CALVO TOJO, Reforma del proceso matrimonial anunciada por el Papa, Salamanca, 1999, p. 65 ss.
[6] Tale dinamicità si attua nella continuità e discontinuità diacronica delle forme processuali adottate dalla Chiesa lungo i secoli per meglio adeguarle, oltre che alle cangianti esigenze dei tempi, anche alla sua specifica finalità ultramondana (sul punto, in particolare, Cfr. P. A. BONNET, Giudizio ecclesiale e pluralismo dell’uomo, Studi sul processo canonico, Torino, 1998, p. 3 ss., per il quale la normativa processuale “è sempre essenzialmente duttile e mutabile” in ragione del fine trascendente che con essa si intende perseguire onde “ogniqualvolta non realizzi un tale fine può e deve mutarsi, poiché la legalità positiva non è per se stessa, nel diritto ecclesiale, dal momento e nei limiti in cui non incarna il diritto divino, e dunque la certezza, un bene da salvaguardare”.
[7] Nel Codice latino in vigore (can. 1453) così si legge: “giudici e tribunali provvedano, salva la giustizia, affinchè tutte le cause si concludano al più presto, di modo che non si protraggano più di un anno nel tribunale di prima istanza, e non più di sei mesi nel tribunale di seconda istanza”. Il can. 1620 del precedente testo codiciale stabiliva, invece, che “Iudices et tribunalia curent ut quamprimum, salva iustitia, causae omnes terminentur, utque in tribunali primae instantiae ultra biennium non protrahantur, in tribunali vero secundae instantiae ultra annum”.
[8]In base alle costituzioni “Saepe” e “Dispendiosam”, confluite nelle Decretali di Clemente V, anche nelle cause matrimoniali era possibile procedere secondo il rito sommario da svolgersi “de plano, ac sine strepitu iudicii seu figura” (in proposito, cfr., D. BOUIX, Tractatus de iudiciis ecclesiasticis, t. II, Parisiis, 1866, p. 445).
[9] In senso analogo cfr. M. DEL POZZO, Il processo matrimoniale più breve davanti al vescovo, cit., p. 52, secondo cui “La costituzione Saepe costituisce perciò una sorta di antesignano del processus brevior e dimostra come sin ab antiquo fosse sentito il bisogno di compendiare nella giurisdizione attenzione e rapidità”. Per un utile inquadramento storico della suddetta decretale, cfr. C. LEFEBVRE, Evoluzione del processo matrimoniale canonico, in AA. VV., Il processo matrimoniale, cit., p.29 ss. ; F. SALERNO, Precedenti medievali del processo matrimoniale canonico, in AA.VV., Processo matrimoniale canonico, Città del Vaticano, 1994, p. 94 ss.
[10] “Iudex (…) necessarium libellum non exigat; litis contestationem non postulet;in tempum etiam feriarum (ob necessitates homnum indultarum a iure)procedere valeat; amputet dilationum materiam; litem, quanto poterit, faciat breviorem; exceptiones, appellationes dilatorias et frustratorias repellendo; partium, advocatorum et procuratorem contentiones et iurgia, testiumque superfluam multitudinem refrenando » (In Clem. V,11,2).
[11] Con specifico riferimento alla prassi in esame v. F. X. WERNZ (Ius Decretalium, II, Romae, 1899, p.1091) il quale osserva “Celeberrima vero post Concil.Trident. facta est reformatio processus matrimonialis per Benedicti XIV Const. ‘Dei miseratione’. At quamvis concedendum sit post. Bened. XIV in causis vinculi matrimonialis accuratae servandas esse novas solemnitates in cit. Const. praescriptas, tamen exinde non sequitur in omnibus processum solemnem in causis nullitatis matrimonii esse servandum, ut sustinet Bouix, nec alienus esse videtur Santi”.
[12] Sul concetto di “prova piena” con riferimento alle dichiarazioni delle parti cfr., in particolare, M. J. ARROBA CONDE (Le dichiarazioni delle parti nelle cause di nullità matrimoniale, in AA.VV., Matrimonium et ius, Studi in onore del Prof. Avv. Sebastiano Villeggiante, Città del Vaticano, 2006, p.233), secondo cui tale espressione non coincide con la nozione di “prova legale” ma indica un valore comunque “rimesso alla discrezionalità del giudice”; nonché, M. DEL POZZO, Il processo matrimoniale più breve, cit., p. 182, ad avviso del quale “Prova piena o completa è quella che da sola è in grado di produrre la certezza morale nell’animo del giudice”. Così anche J. LLOBEL, Questioni comuni ai tre processi, cit., p.14, dove si precisa che “nell’ordinamento canonico vige il principio della libera valutazione delle prove (cfr. can. 1608 § 3; DC art. 247 § 4) per cui “prova piena” è quella che produce la certezza morale nell’animo del giudice, il quale «deve valutare le prove secondo la sua coscienza» (cfr. can. 1608 § 3; DC artt. 180, 202). Normalmente la prova piena non sarà una sola (cfr. il nuovo can. 1678), ecc., ma l’insieme di «una quantità di indizi e di prove, che, presi singolarmente, non valgono a fondare una vera certezza, e soltanto nel loro insieme non lasciano più sorgere per un uomo di sano giudizio alcun ragionevole dubbio. (...) La certezza promana quindi in questo caso dalla saggia applicazione di un principio di assoluta sicurezza e di universale valore, vale a dire del principio della ragione sufficiente».
[13] Pur riferendosi anche alle dichiarazioni delle parti non sembra dubbio che la nuova norma, come già la pregressa, si incentri sul valore della “confessione” resa dalle parti avanti al giudice, la quale discende non tanto dalla affermazione o negazione di quanto oggettivamente risulti a sé sfavorevole, ma dal fatto che ciò che viene affermato o negato risulti contrario alla validità del matrimonio (cfr. J. LLOBEL, Los procesos matrimoniales en la Iglesia, Navarra, 2014, p. 232). Sulla efficacia probatoria della confessione giudiziale e delle declarationes partium cfr. R. BURKE, La confessio iudicialis e le dichiarazioni giudiziali delle parti, in AA. VV., I mezzi di prova nella giurisprudenza rotale, Roma, 1995, p.15 ss.; P. A. BONNET, Giudizio ecclesiale e pluralismo, cit., p.260 ss.; ID, La valutazione giudiziaria delle dichiarazioni di parte, in AA.VV.,Recte sapere. Studi in onore di Giuseppe Dalla Torre, I, Torino, 2014, p. 150 ss; M. A. ORTIZ, La valutazione delle dichiarazioni delle parti e della loro crediblità, in Ius Ecclesiae, 19,2007, 157 ss.; ID., La forza probatoria delle dichiarazioni delle parti nelle cause di nullità del matrimonio, contributo on-line in didattica.pusc.it/file.php/102/14.pdf, ora anche in AA. VV., Verità del consenso e capacità di donazione. Temi di diritto canonico matrimoniale e processuale, Roma, 2009, p. 387 ss.
[14] In base al can. 1679 del Codice latino del 1983, “Nisi probationes aliunde plenae habeantur, iudex, ad partium depositiones ad normam can. 1536 aestimandas, testes de ipsarum partium credibilitate, si fieri potest, adhibeat, praeter alia indicia et adminicula”. Secondo un orientamento comune a dottrina e giurisprudenza, la citata norma consentiva di apprezzare la confessione elevandola al rango di prova completa “solamente quando gli elementi probatori diversi non ci [fossero] o non [fossero] tali da costituire piena prova”, onde “il giudice, il cui libero apprezzamento rimane pure in questo àmbito essenziale ed insostituibile", avrebbe dovuto "fondare la propria certezza morale ... sulle dichiarazioni delle parti, confortate da testi “de credibilitate” ed anche eventualmente – ma non si tratta in alcun modo di fattori necessari – da altri elementi di conferma e di riscontro” (P. A. BONNET, Giudizio ecclesiale e pluralismo, cit., p.265). In senso analogo M. A. ORTIZ (La forza probatoria delle dichiarazioni delle parti, cit., p. 415), per il quale “Non avendo la prova piena altrimenti (“nisi probationes aliunde plenae habeantur”), il giudice concentrerà l’attenzione sulle dichiarazioni delle parti avvalorate (si fieri potest) dall’insieme di elementi probatori presenti nella causa, senza escludere che il giudice possa cercare altre prove ex officio”; J. LLOBEL, Los procesos matrimoniales en la Iglesia, cit., p. 230, secondo cui la certezza morale “puede radicarse (cuando no es posible contar con otras pruebas) en la sola declaración de una de las partes”.
[15] Sul punto J. E. VILLA,¿En qué consisten los cambios al proceso de nulidad del matrimonio católico?, contributo on-line in www.ambitojuridico.com/BancoConocimiento/Civil-y-Familia, per il quale la riforma accentua più che in passato “su fuerza probatoria, afirmando explícitamente que, en los procesos de declaración de nulidad del matrimonio, la declaración de las partes que sea sostenida por eventuales testigos de credibilidad puede tener valor de plena prueba, y será valorada por el juez, tomando en consideración todos los indicios y adminículos, si no hay otros elementos que la confuten. Entonces, de una formulación negativa y por exclusión, se pasa a una formulación positiva y de inclusión. El juez no tendrá necesidad de excluir otras fuentes de plena prueba para poder dar peso probatorio a la declaración de las partes, sino que esas declaraciones están ya positivamente consagradas como eventual e inmediata fuente de plena prueba”. Più propensi a contenere la portata innovativa del nuovo can.1678 § 1 in rapporto al precedente can.1679, sembrano J. LLOBEL, (op ult cit., p.14), secondo cui “tale diversità è meno radicale di quanto potrebbe sembrare poiché entrambi gli impianti normativi, nella pur loro evidente dissomiglianza testuale, richiedono condizioni applicative analoghe. Vale a dire, affinché il giudice possa, nelle cause pubbliche, attribuire forza di prova piena alla confessione giudiziale e alle dichiarazioni delle parti, esse devono essere «sostenute da eventuali testi sulla credibilità delle stesse» e valutate «dal giudice considerati tutti gli indizi e gli amminicoli, se non vi siano altri elementi che le confutino» (MI can. 1678 § 1)”; nonché M. DEL POZZO, Il processo matrimoniale più breve, cit., p. 182, il quale scrive che “In realtà più che di una modifica sostanziale si tratta del chiarimento e dell’esplicitazione in positivo dell’originario disposto”.
[16] Come riporta G. BONI, La recente riforma del processo di nullità matrimoniale, cit., 21 marzo 2016, p. 29) “alcuni hanno denunciato che, in definitiva, appare verosimile come, tramite la predisposizione di un’apposita strategia difensiva (in passato si metteva in guardia senza ipocrisia - e senza menomare la dignità delle persone - allertando la collusionis suspicio), possa essere prontamente conseguito l’accoglimento del libello qualora le parti, accordandosi, rendano dichiarazioni fra loro non contraddittorie, suffragate eventualmente da testimonianze sulla loro credibilità, anche se quanto dichiarato non corrisponde alla verità oggettiva”. Sul rischio di un certo lassismo nell’apprezzare le dichiarazioni e la confessione delle parti, con riferimento al precedente diritto, si vedano altresì le osservazioni di M. A. ORTIZ, La forza probatoria delle dichiarazioni delle parti, cit., p.6, per il quale sono da escludere sia un atteggiamento rigoristico “che sospetta ostinatamente della sincerità delle parti, sia quello (che potremmo denominare ingenuo), secondo il quale si dovrebbe attribuire quasi automaticamente valore di prova piena alle dichiarazioni delle parti fatte «pro nullitate vinculi» rinunciando a vagliarle seriamente con altre prove –anche cercate d’ufficio dal giudice (cfr. can. 1452)– perché, secondo questa visione ingenua, chi si rivolge al tribunale ecclesiastico, avendo a disposizione il divorzio civile per “risolvere” la propria situazione, lo farebbe sempre con retta coscienza e secondo verità”.
[17] A questa prassi restrittiva sembrava alludere già il card. Ratzinger, nella Introduzione al numero XVII della Collana "Documenti e Studi", diretta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, Sulla pastorale dei divorziati risposati, LEV, Città del Vaticano 1998, p. 19, lì dove rileva, a proposito del richiamo ai cann. 1536 e 1679 contenuto nella Lettera ai Vescovi della C.D.F. del 1994, come «questo nuovo regolamento canonico, ...purtroppo nella prassi dei tribunali ecclesiastici di molti paesi [sia] considerato e applicato ancora troppo poco".
[18] Osserva in proposito M. DEL POZZO, Il processo matrimoniale più breve, cit., p.183 che l’attribuzione del valore di prova completa richiede “un possibile riscontro positivo (la concordanza con gli altri indizi e appigli logici), un necessario riscontro negativo (l’assenza di prove direttamente contrarie) e un’eventuale integrazione (la deposizione di testi sull’affidabilità della parte)”.
[19] La questione, come ricorda M. A. ORTIZ (La forza probatoria delle dichiarazioni delle parti, cit., pp.15-16), riguarda la natura degli elementa che, secondo la previsione del can.1536 §2, possono attribuire forza di prova piena alle confessioni delle parti nelle cause pubbliche, come lo sono quelle matrimoniali; al qual riguardo, l’A. sottolinea che “gran parte dei commentatori al Codice aveva interpretato pacificamente il tenore del can.1536 come riferito agli elementi di prova”, onde gli elementi “grazie ai quali le affermazioni delle parti possono costituire “plena probatio”, sono componenti dei mezzi di prova, e non di elementi di altra natura” (Ivi).
[20] Come afferma M. J. ARROBA CONDE, (Diritto processuale canonico, Roma, p. 442), tale modo di intendere rappresenta talora motivo di fraintendimenti, atteso che si può essere indotti “a confondere gli elementi con le “prove”, cioè con ratifiche dirette, anziché intenderli (come l’evoluzione normativa impone) come indizi, ammenicoli o circostanze di fatti e di persone, desunti certamente dalle prove, ma con un rapporto solo indiretto con il fatto dichiarato dalla parte”.
[21] Secondo A. STANKIEWICZ, (Valutazione delle prove secondo l’Istruzione, in AA.VV., L’Istruzione Dignitas Connubii nella dinamica delle cause matrimoniali, Venezia, 2006, p. 80), sulla base dell’art. 180 della DC alle dichiarazioni delle parti “non può essere attribuita forza di prova piena, se ad esse non si aggiungono(..) altri elementi probatori convergenti”; cfr. J.LLOBEL (Los procesos matrimoniales en la Iglesia, cit., p.233), lì dove annota come “La Dignitas Connubii afirma que esa confesión judicial casi nunca podrà por si sola dar la “prueba plena”, salvo que sea realmente imposible recoger otras pruebas”.
[22] Come annota M. J. ARROBA CONDE, Le dichiarazioni delle parti nelle cause di nullità matrimoniale, in AA.VV., Matrimonium et ius, Studi in onore del Prof. Avv. Sebastiano Villeggiante, cit., p. 233, l’apprezzamento delle dichiarazioni delle parti va coniugato in ogni caso con il principio “della libera valutazione delle prove”, e ciò in quanto “Il processo canonico è ispirato alla libera valutazione delle prove, con appena qualche retaggio delle prove legali. E non poteva essere diversamente, atteso il primato del favor veritatis ed il richiamo finale alla coscienza del giudice, anziché alla prevalenza delle prove”.
[23] Tra altre pronunce cfr., in particolare, coram Caberletti, Reg. Insubis seu Mediolanen, 22 giugno 2006, in Ius Ecclesiae, 2007,19, con nota di M. A. ORTIZ, p. 137 ss., dove si sottolinea che “Sia i testi di credibilità che gli indicia et adminicula sono elementi probatori: sono, nei processi matrimoniali, gli alia elementa che il can. 1536 § 2 segnala come sufficienti ad avvalorare la prova se non è stata raggiunta la certezza morale “altrimenti”.
[24] Circa gli ammenicoli, intesi quali elementi indiziari o presuntivi, si v. quanto scrive P. BIANCHI (E’ più facile, col nuovo Codice di diritto canonico, dimostrare la nullità di un matrimonio? I canoni 1536 § 2 e 1679, in Quaderni di diritto ecclesiale, 1990, 3, p.402, secondo cui è necessario che “essi siano tratti solo da fatti certi e determinati e aventi diretta connessione col merito della causa”; nonché R. A. BETANCOURT, Los pro y los contra de una Reforma, cit., p.12, per il quale "El vocablo: “adminiculo” es muy empleado en el campo del derecho probatorio con el sentido de: “apoyo, sostén, rodrigón, estaca”, siendo su función principal la servir o ayudar a los otros medios de prueba, ora se trate de las llamadas pruebas representativas o hístóricas, o de las críticas, pero, bajo ningún punto de vista se puede catalogar como medio de prueba. Sencillamente, el adminículo es el valor que se da o se atribuye a una prueba que por si sola carece de eficacia probatoria, pero que si se une a otras sirve de apoyo o de adminículo, y de allí el principio de la Jurisprudencia Rotal: “Quae singula non probant, unita iuvant” (Lo que singularmente no prueba, unido ayuda) (Cfr. Coram, Felici, sent. del 17 de julio de 1952,vol,.44,dec 67.n.2, p. 448.” Veritas aliquando resultat ex multis indiciis et probationibus, quae sumpta seorsim certitudinem vix ingerunt, at unita maxime iuvant” (Alguna vez la certeza resulta de muchos indicios y pruebas que tomados separadamente difícilmente engendran certeza, pero unidos ayudan muchisimo).“Plura quae disiunctim nihil conficiunt, juncta probant”".
[25] Sviluppa, in modo particolare, questa problematica P. BIANCHI, Nullità di matrimoni non dimostrabili. Equivoco o problema pastorale, in Quaderni di diritto ecclesiale, 1993, 3, p. 282, per il quale l’ipotesi ricorre allorché “vi sia un matrimonio obiettivamente nullo, di modo tale che la persona per sé, avrebbe titolo a poterne contrarre uno valido“ e tuttavia “l’accertamento della nullità sia impossibile, nel senso che non vi sia la possiblità di portare di fronte all’organo competente, cioè il Tribunale, le prove necessarie per una sentenza giudiziaria dichiarativa della nullità del precedente vincolo”. Tra quanti hanno affrontato questa problematica cfr., altresì, M. POMPEDDA, La questione dell’ammissione ai sacramenti dei divorziati civilmente risposati, in Notitiae, 1992, 7, p. 472 ss.; U. NAVARRETE, Conflictus inter forum internum et externum in matrimonio, in AA.VV., Investigationes theologico-canonicae, Roma, 1978, p. 333 ss.; H. FRANCESCHI, Divorziati risposati e nullità matrimoniali, in Ius Ecclesiae, 2013, 25, p. 617 ss.
[26] F. J. URRUTIA, Foro giuridico(Forum iuridicum), in Nuovo dizionario di Diritto canonico, a cura di C. CORRAL SALVADOR, V. DE PAOLIS, G. GHIRLANDA, Cinisello Balsamo, 1993, p. 537. Cfr., esemplificativamente, da ultimo, G. GHIRLANDA, G., Foro interno, foro esterno, ambito della coscienza, intimità della persona, in Vita consacrata, n.48, 2012, II, p. 156 ss.
[27] Sul punto si annota che “la coscienza ha indubbiamente una dignità unica ed un ruolo indispensabile nel formulare l’esigenza pratica, ora e qui della legge (….). Nel caso delle situazioni irregolari vi è però da tenere presente che la norma dell’indissolubilità è di “diritto divino” e che questi casi hanno un carattere pubblico-ecclesiale. Ciò significa che la coscienza è vincolata alla legge divina senza eccezioni e qualora vi fosse la convinzione soggettiva che il precedente matrimonio era nullo, l’unica via per dimostrarlo deve essere quella del foro esterno, ossia del tribunale ecclesiastico”: così, K. NYKIEL, Unioni irregolari e ricezione dei sacramenti alla luce del Magistero della Chiesa, in AA.VV., Divorzi, Nuove nozze, Convivenze. Quale accompagnamento ministeriale e pastorale?, Roma, 2014, pp. 28-29.
[28] Così U. NAVARRETE (Conflictus inter forum internum et externum in matrimonio, cit.,p. 485), per il quale se la certezza della nullità del proprio matrimonio “è davvero obiettiva, quel matrimonio in quanto nullo, non costituisce impedimento di legame (..).Ciò posto, se gli pseudoconiugi hanno celebrato un altro matrimonio, osservati tutti gli altri requisiti giuridici per la sua validità, questo secondo matrimonio sarà valido” anche se la sua celebrazione risulterà “sempre illecita, stante la legge ecclesiastica che la vieta”.
[29] Cfr. G. L. MÜLLER, Indissolubilità del matrimonio e dibattito sui divorziati risposati e i sacramenti, in L’Osservatore Romano, 23 ottobre 2013, p. 4, dove rileva come “Se i divorziati risposati sono soggettivamente nella convinzione di coscienza che il precedente matrimonio non era valido, ciò deve essere oggettivamente dimostrato dalla competente autorità giudiziaria in materia matrimoniale. Il matrimonio non riguarda solo il rapporto tra due persone e Dio, ma è anche una realtà della Chiesa, un sacramento, sulla cui validità non solamente il singolo per se stesso, ma la Chiesa, in cui egli mediante la fede e il Battesimo è incorporato, è tenuta a decidere".
[30] Per un commento alla precedente norma si rimanda a P. A. BONNET, Giudizio ecclesiale e pluralismo, cit., p. 252, il quale sottolinea come “Quella dei testi “de credibilitate” costituisce una condizione corroborativa non assoluta per le dichiarazioni delle parti, non essendo sempre o necessaria o utilmente percorribile. Ed infatti, la norma contenuta nel can.1679 cic saggiamente si limita a dire: “Si fieri potest”. I testi “de credibilitate” sono “persone che, per la loro figura morale o anche per la funzione che esercitano soprattutto nella comunità dei fedeli risultano in se stessi attendibili e in grado di garantire sull’attendibilità della parte in causa di loro conoscenza”; così anche P. BIANCHI (E’ più facile, col nuovo Codice di diritto canonico, dimostrare la nullità di un matrimonio? I canoni 1536 § 2 e 1679, cit., p. 394 ss.).
[31] Su tale mezzo di prova previsto ancora dal Codice latino del 1917 nei casi di impotenza e di inconsumazione, cfr., tra gli altri, F. FINOCCHIARO, Saggi (1973-1978), a cura di A. Albisetti, Milano, 1979, p. 49 ss.
[32] M. A. ORTIZ, La forza probatoria delle dichiarazioni delle parti, cit., p.17. Come avverte, P. BIANCHI (E’ più facile, col nuovo Codice di diritto canonico, dimostrare la nullità di un matrimonio?, cit., p. 401), “è appena il caso di sottolineare che l’efficacia della testimonianza sulla credibilità dipenderà dal grado di effettiva conoscenza che il testimone ha della parte: a poco serve indurre come teste un sacerdote anche assai noto e apprezzato o addirittura un vescovo, se poi questi ha della persona una conoscenza assai superficiale ovvero derivante da incontri occasionali o di rappresentanza, in modo tale da doversi limitare in deposizione a impressioni del tutto soggettive”.
[33] Esemplificativamente, cfr. i non convincenti rilievi di EBED-MELEK, Breves remarques sur le m.pr. « Mitis Iudex » du Pape Francois,contributo on-linein www.verites-catholiques.fr/mitis-judex-commentaire-ebed-melek, p. 8), per il quale “Selon les termes mêmes du canon réformé, le juge est maintenant obligé de reconnaître valeur probante, qui il le veuille ou non et sans même avoir à examiner si cela est corroboré par d’autres éléments, à la déposition d’un témoin qui dépose sur des choses effectuées d’office". In senso contrario si v. le osservazioni di M. DEL POZZO, Il processo matrimoniale più breve, cit., p.187 secondo cui “Anche in questo caso più che di un cambiamento radicale si tratta dell’esplicitazione in positivo della regola comune (…). La prescrizione (conforme ai principi processualistici generali) evita l’inutile duplicazione e moltiplicazione delle testimonianze sugli stessi fatti. La struttura aperta non deve condurre però a eccessivi rilassamenti o leggerezze dimostrative”.
[34] Stando al Sussidio applicativo del Motu pr. Mitis Iudex Dominus Iesus (a cura del Tribunale Apostolico della Rota Romana, Città del Vaticano, 2016, p. 27), la nuova legge di papa Francesco "rafforza il principio del Codice del 1983 riguardo al valore delle dichiarazioni delle parti, che, se godono di eventuali testi di credibilità, considerati tutti gli indizi e gli ammenicoli, nell’assenza di altri elementi che le confutino, possono assumere valore di prova piena”.
[35] Una concezione non riduttiva della ricerca della verità porta a superare le incongruenze del principio “nullus idoneus testis in re sua intelligitur”, e ciò in quanto nelle cause matrimoniali “la verità oggettiva sarebbe irraggiungibile senza prendere in considerazione quella parte di verità che fa capo ai singoli partecipanti al processo” (M. J. ARROBA, Le dichiarazioni delle parti, cit., p.229)“ . In tale prospettiva, pertanto, “anche il legislatore canonico è venuto assumendo un atteggiamento più rispettoso verso le parti medesime, avendo rimosso l’antico pregiudizio sulla presunta falsità delle parti, considerate aprioristicamente sempre inaffidabili, in quanto interessate nelle loro dichiarazioni e quindi inclini a deformare la verità oggettiva” (B. BOCCARDELLI, La prova della simulazione del consenso matrimoniale, in AA.VV., La simulazione del consenso matrimoniale canonico, Città del Vaticano, 1990, p. 225.
[36] Motu pr. M.I., Proemium.