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I beni temporali della Chiesa nel Codice dei canoni delle Chiese orientali

21.02.2018

Alessandro Perego

Assegnista di ricerca, Università degli Studi di Padova

 

I beni temporali della Chiesa

nel Codice dei canoni delle Chiese orientali

 

SOMMARIO: 1. Introduzione: storia, sistematica e principi dei canoni in materia patrimoniale; 2. Il diritto della Chiesa ad utilizzare i beni temporali; 3. (segue) il diritto ai beni come «ius nativum»; 4. (segue) il diritto ai beni come diritto relativo; 5. Modalità di esercizio del diritto ai beni; 6. (segue) nozione di «bene ecclesiastico»; 7. (segue) il Romano Pontefice; 8. (segue) il rapporto con gli ordinamenti civili; 9. L’acquisto; 10. L’amministrazione: i soggetti; 11. (segue) lo statuto dell’amministratore; 12. (segue) gli atti di amministrazione; 13. (segue) la responsabilità dell’amministratore e della persona giuridica; 14. L’alienazione.

 

1. Introduzione: storia, sistematica e principi dei canoni in materia patrimoniale

 

La disciplina dei beni temporali ha conosciuto una codificazione per le Chiese orientali antecedente a quella vigente, essendo stata ricompresa in una delle parti del progetto del primo Codex Iuris Canonici Orientalis giunte fino alla promulgazione pontificia. Vi aveva provveduto Pio XII con il motu proprio «Postquam Apostolicis Litteris» del 9 febbraio 1952 (di seguito anche PA)[1], che conteneva i canoni sul diritto dei religiosi e, per l’appunto, quelli sui beni temporali, ai quali era dedicato un articolato corpus di ben settanta norme[2].

Questo materiale normativo ha costituito il naturale punto di partenza per il lavoro di revisione che, «alla luce soprattutto dei decreti del Concilio Vaticano II»[3] e con uno sguardo privilegiato ai lavori del nuovo Codice per la Chiesa latina, ha portato alla stesura dei canoni del Titolo XXIII (cann. 1007-1054) del vigente Codex Canonum Ecclesiarum Orintalium, rubricato «De bonis Ecclesiae temporalibus»[4].

Rispetto alla precedente codificazione, nel CCEO si avuta una significativa riduzione dei canoni dedicati alla materia patrimoniale, che sono passati da settanta a quarantasette[5], mentre, per ciò che concerne la distribuzione delle norme all’interno del Titolo XXIII, si è confermata l’impostazione sistematica di PA, impostazione che quest’ultimo aveva a sua volta mutuato dal Codice latino del 1917[6] (di seguito anche CIC17) e che è stata riproposta anche dal legislatore del 1983[7]. Troviamo, così, tre norme preliminari a carattere generale (cann. 1007-1009), seguite da quattro capi dedicati a: «L’acquisto dei beni temporali»[8] (capo I: cann. 110-1021); «L’amministrazione dei beni temporali» (capo II: cann. 1022-1033);  «I contratti, in particolare all’alienazione» (capo III: cann. 1034-1042); «Le pie volontà e le pie fondazioni» (capo IV: cann. 1043-1054).

Accanto alle norme di questo Titolo, che costituisce il cuore sistematico del diritto patrimoniale canonico orientale, occorre richiamare, per la loro rilevanza rispetto alla disciplina di questa materia, i canoni dedicati a «Le persone giuridiche» in generale (cann. 920-930), alcune norme che riguardano la capacità patrimoniale e l’amministrazione dei beni degli istituti religiosi (cann. 423-425, 447, 468)[9], ed altre che trattano dei beni delle associazioni di fedeli (can. 582)[10].

Quanto invece ai «Principi direttivi» che hanno guidato la Commissione per la revisione nella stesura dei canoni del CCEO, un particolare accento deve essere posto, per ciò che concerne la materia dei beni temporali della Chiesa, sul «principio di sussidiarietà»[11].

Il rispetto di tale principio, da un lato, esigeva di limitare il contenuto del nuovo Codice «alla codificazione della disciplina comune a tutte le Chiese orientali, lasciando ai loro vari organismi la facoltà di regolare con un diritto particolare le altre materie, non riservate alla Santa Sede»[12]; dall’altro, con riferimento alla dimensione interna delle stesse Chiese, richiedeva di creare le condizioni giuridiche affinché il vescovo «ordinariamente» non facesse «ciò che altri nella sua diocesi [avrebbero potuto] espletare», valutando «diligentemente le legittime competenze degli altri», dando «le necessarie facoltà ai suoi cooperatori», e favorendo «le giuste iniziative sia dei singoli che dei gruppi»[13]; si raccomandava, «in particolare», di sviluppare «le norme circa il consiglio presbiterale richiesto anche dalla speciale comunione gerarchica dei presbiteri con l'ordine dei vescovi» e di considerare «la grande convenienza dei consigli pastorali in cui possano avere parte chierici, religiosi e laici idonei, in modo che la comunità diocesana possa predisporre organicamente il lavoro pastorale ed assolverlo in maniera efficace»[14].

Questi auspici fatti alla luce dell’adesione al principio di sussidiarietà sembrano tuttavia aver trovato solo un parziale accoglimento nel testo definitivo delle norme codiciali dedicate alla materia patrimoniale[15]. Se infatti, come vedremo, non manca il riconoscimento di un certo spazio normativo al legislatore particolare[16] e di una maggiore autonomia ai vescovi nell’esercizio del loro potere di governo sui beni, sarebbe invece occorso un maggior coraggio nel valorizzare il ruolo, le competenze e le facoltà dei fedeli, chierici e laici, in questa materia, e nello strutturare forme giuridiche compiute di gestione condivisa dei beni della Chiesa, anche riconoscendo maggiori poteri agli organi collegiali di partecipazione. Infatti, se si eccettua l’obbligatorio coinvolgimento del consiglio affari economici e del collegio dei consultori dell’eparchia[17] nelle fasi decisionali che riguardano l’imposizione dei tributi (can. 1012 § 1) ed alcuni atti di disposizione patrimoniale economicamente rilevanti (can. 1036 § 1), e un generico dovere dell’amministratore di «rend[ere] conto pubblicamente» (can. 1031 § 2) della propria gestione, l’impostazione normativa del Titolo XXIII appare per il resto connotata in senso marcatamente verticistico, riservando poteri e responsabilità alle sole autorità ecclesiastiche (patriarca, vescovo eparchiale, gerarca, etc.) e a coloro che governano le singole persone giuridiche. In questa prospettiva, pare anche significativo il fatto che nel CCEO, il legislatore abbia trascurato di prevedere un obbligo, comune ed inderogabile, per «ogni persona giuridica» di avere «il proprio consiglio per gli affari economici o almeno due consiglieri, che coadiuvino l’amministratore nell’adempimento del suo compito», obbligo che invece troviamo esplicitato nel CIC (can. 1280)[18].

 

2. Il diritto della Chiesa ad utilizzare i beni temporali

 

Nel canone 1007 CCEO può individuarsi la norma fondante la dimensione patrimoniale della Chiesa, poiché in essa viene riconosciuto il diritto della medesima di utilizzare i «beni temporali» - ossia quei beni che sono «traducibili in categorie di tipo economico»[19] o che comunque possono essere «oggetto di un diritto di proprietà»[20] - per la propria missione spirituale nel mondo.

Si tratta della medesima norma che, con una formulazione testuale parzialmente differente, è stata posta dal legislatore del 1983 in apertura del libro V del Codice latino, dedicato a «I beni temporali della Chiesa».  Nei due codici non leggiamo dunque - ed è bene che non vi siano fraintendimenti sul punto - due norme dal contenuto analogo e riferite, in un caso, alla dimensione patrimoniale della Chiesa latina e, nell’altro, a quella delle Chiese orientali, bensì la riproposizione di una stessa norma riferita in entrambi i casi ad un medesimo ed unico soggetto: la Chiesa cattolica. Per questa ragione, il canone in questione può ritenersi “norma di comunione”, norma cioè che esprime nella materia patrimoniale quell’unità giuridica dell’unica Chiesa universale, a partire dalla quale si sviluppa la varietà di disciplina che distingue «i due polmoni dell’Oriente e dell’Occidente»[21] e le Chiese orientali tra loro.  

L’espressione “diritto ad utilizzare i (o a servirsi dei) beni temporali” è, in realtà, una formula dottrinale di sintesi, che riassume in sé - come ha cura di esplicitare lo stesso legislatore - quattro distinti «diritti», espressioni delle quattro relazioni giuridiche che possono intercorre tra la Chiesa e i beni temporali: il diritto ad acquistarli, cioè il diritto della Chiesa ad ottenere la disponibilità e il godimento di tali beni; il diritto a possederli, conservando ed esercitando su di essi un potere di fatto; il diritto ad amministrarli, ossia a compiere gli atti idonei a curare e a migliorare i beni, a percepirne i frutti e le rendite; il diritto ad alienarli, cioè a disporre di essi trasferendone ad altri la proprietà.

Questo diritto composito (rectius questo nucleo di diritti) presenta due caratteri che lo qualificano essenzialmente e che vengono esplicitati dallo stesso canone 1007: si tratta di un diritto nativo e relativo.

 

3. (segue) il diritto ai beni come «ius nativum»

 

 Con il termine «nativo» si vuole indicare che il diritto in questione è connaturale alla Chiesa, si pone cioè quale originaria implicazione o attinenza della sua stessa esistenza, essendo “nato con Essa”. Poiché Cristo ha fondato la Chiesa come “organismo visibile” e le ha affidato una missione nel mondo e nel tempo, con ciò le ha anche riconosciuto ab origine la capacità e la libertà di servirsi di tutti i mezzi, anche temporali, che le sono necessari per perseguirla[22]. La fonte del diritto in questione dev’essere, dunque, individuata nel diritto divino positivo.

Ne consegue, sul piano logico-giuridico, che la titolarità di tale diritto in capo alla Chiesa prescinde, «è indipendente»[23], da qualsiasi riconoscimento da parte di un ordinamento umano. Tale indipendenza vale in una duplice prospettiva: vale ad intra, poiché il legislatore canonico, con il canone 1007, nulla attribuisce ma solo riconosce ciò che è già proprio della natura della Chiesa; e vale, altresì, ad extra, poiché anche quando una comunità politica o un «potere civile»[24] ne negasse l’esistenza o ne ostacolasse nell’esercizio, siffatto diritto continuerebbe a sussistere e a poter essere legittimamente esercitato dalla Chiesa nei medesimi termini[25].

Questa seconda dimensione dell’indipendenza nei confronti degli ordinamenti secolari, viene esplicitata nel testo del canone 1254 § 1 CIC, mentre è del tutto assente nella norma del CCEO che stiamo considerando. La difformità tra i due codici su questo punto non ha però risvolti sostanziali, ma si deve imputare esclusivamente ai timori dei revisori del Codice latino, che preferirono conservare un’espressione del Codice del 1917[26] legata ad una visione ius-pubblicistica della Chiesa come societas iuridicae perfecta, pur di evitare un’esegesi del silenzio nel senso di un implicito riconoscimento dalla sovranità degli stati sulla dimensione patrimoniale della Chiesa[27]. Evidentemente, questi stessi timori non hanno, invece, influenzato la Commissione per la revisione del CCEO che, fin da principio, ha scelto di omettere ogni riferimento ai rapporti con i poteri civili[28], e ciò nonostante muovesse nella sua opera riformatrice da un corpus normativo - i canoni in materia patrimoniale di PA - che aveva tra le proprie ragion d’essere anche il fatto che «in alcune regioni si cerca di togliere alla Chiesa o di attenuare il sacro e originario diritto al possesso»[29].

È bene, tuttavia, precisare che l’indipendenza dai poteri civili di cui si è detto non deve intendersi nel senso di una netta separazione in materia patrimoniale tra gli ordinamenti statuali e quello canonico; infatti, in una prospettiva di sana cooperatio con le comunità politiche[30], quest’ultimo ricorre, nella materia patrimoniale più che in altre, a strumenti di raccordo con gli ordinamenti civili. Anzitutto riconosce la piena validità ad alcune norme civili che regolano il traffico giuridico dei beni temporali, mediante una tecnica di rinvio che prende il nome di canonizatio (canonizzazione), sulla quale avremo modo di soffermarci[31]; ove è possibile, poi, ricorre a concordati o convenzioni[32], per regolare di comune accordo con le autorità civili, alcuni significativi aspetti della dimensione patrimoniale della Chiesa nei diversi territori; tollera, infine, che siano gli ordinamenti secolari a disciplinare unilateralmente, e anche in maniera difforme rispetto a quanto previsto dal legislatore canonico, il rapporto tra la Chiesa e i beni temporali, purché da tale disciplina non discenda una compressione della libertà della medesima di «predicare la fede, insegnare la propria dottrina sociale e esercitare la sua missione»[33].   

 

4. (segue) il diritto ai beni come diritto relativo

 

Oltre che «nativo», il diritto della Chiesa ad utilizzare i beni temporali può anche qualificarsi come relativo, poiché sussiste esclusivamente in ragione ed in relazione alle necessità missionarie della Chiesa, e pertanto quest’ultima lo esercita legittimamente solo «nella misura in cui lo richied[a] la sua missione».

 Sul punto la formulazione testuale del canone 1007 risulta decisamente più efficace di quella del canone 1254 § 1 CIC, poiché pone questo connotato di relatività in apertura della norma, a modi di premessa all’affermazione del diritto, e sottolinea lessicalmente, mediante il ricorso al verbo «eget», quella dimensione di necessità che nel testo del Codice latino risulta invece assente. In relazione alla portata effettiva di questo passaggio normativo, è anche interessante ricordare che in sede di redazione del testo del canone 1007 furono fermamente rifiutate le osservazioni di due organi di consultazione che avevano suggerito di rendere meno esplicito il fatto che la «‘propria missio’…della Chiesa non solo reclama… lo ‘ius nativum’ in materia di beni temporali, ma anche lo circoscrive in linea di principio»[34].

La legittimità dell’acquisto, del possesso, dell’amministrazione e dell’alienazione di beni temporali è, dunque, subordinata all’effettiva strumentalità ed utilità di tali beni rispetto alla missione della Chiesa: non sarebbe per quest’ultima legittimo acquistare un bene inutile alla sua missione; l’amministrazione dei beni ecclesiastici deve sempre essere ispirata a perseguire la massima utilità missionaria e, solo in subordine a questa, quella economica; non le è concesso alienare beni necessari alla sua missione.

Giuridicamente tale “relatività” del diritto si esprime in quattro aspetti: essa, anzitutto, assurge a parametro di valutazione della rationabilitas delle norme dettate dal legislatore ecclesiastico in materia di beni temporali: sarebbe certamente irrazionale la norma che, ad esempio, disponesse o favorisse un uso dei beni temporali non conforme alla missione della Chiesa; in secondo luogo, funge da canone di interpretazione delle medesime: quando il significato proprio delle parole di una norma in materia patrimoniale, considerato nel testo e nel contesto, non risulta certo, l’interprete deve guardare al carattere strumentale dei beni rispetto alla missione della Chiesa ed interpretare la disposizione nel senso che meglio garantisce il perseguimento di tale fine[35]; a questo stesso carattere di strumentalità è poi possibile ricorrere quale «principio generale» per risolvere, «con equità», quei casi che coinvolgono beni ecclesiastici e per i quali «manca un’espressa prescrizione di legge»[36]; infine, integra l’elemento della «giusta causa» negli atti amministrativi che dispongono, o autorizzano la disposizione, dei beni temporali: intende richiamarsi esplicitamente a quest’ultimo aspetto, ad esempio, il canone 1035 § 1 1°, quando richiede per l’alienazione di beni ecclesiastici «una  giusta causa, come una urgente necessità, l’utilità evidente, la pietà, la carità o un motivo pastorale».

Probabilmente, le affermazioni fin qui fatte potrebbero apparire eccessivamente radicali se confrontate con la realtà patrimoniale della Chiesa, tanto nella sua evoluzione storica quanto nel suo assetto attuale; non bisogna tuttavia dimenticare che il rapporto tra i beni temporali e la missione della Chiesa è di due tipi: un rapporto di “utilità diretta”, quando i beni “finali” servono direttamente alla missione della Chiesa (ad es., un edificio di culto); un rapporto di “strumentalità indiretta”, quando i beni sono indirettamente utili alla missione della Chiesa, ad esempio producendo un reddito che viene utilizzato per far fronte alle sue necessità o impiegato nel suo sviluppo (es. ristrutturazione dell’edificio di culto)[37]. Anche su questi ultimi la Chiesa può legittimamente rivendicare il suo pieno diritto, in ragione della loro utilità economica all’interno di un più ampio disegno di gestione patrimoniale orientato al sostegno economico della sua azione.

Il canone 1007 dapprima identifica in generale la missione della Chiesa, quale elemento che «circoscrive» il legittimo utilizzo dei beni temporali, con il «procurare il bene spirituale degli uomini», per poi specificarla ed articolarla in tre finalità particolari: il «culto divino»; le «opere di apostolato e di carità»; il «congruo sostentamento dei ministri».

Rispetto al corrispondente canone del CIC, il 1254 § 2[38], è possibile rilevare alcuni elementi di difformità testuale: in seguito ad un emendamento successivo allo Schema Codicis del 1986[39], il «congruo sostentamento dei ministri» viene posto dopo le «opere di apostolato e di carità», con lo scopo di sottolineare, anche per via testuale, la priorità delle seconde rispetto al primo; sempre con riferimento alla sustentatio dei ministri, ad un certo punto dei lavori di redazione del Codice si preferì all’aggettivazione honesta, adottata sia dal CIC che da PA (cann. 232 e 233), quella di congrua[40]- cioè modesta ma dignitosa - probabilmente perché la si ritenne maggiormente aderente ai testi conciliari[41]. La definizione delle modalità concrete con cui assicurare il congruo sostentamento dei ministri è rimessa dal canone 1021 § 1 al diritto particolare di ciascuna Chiesa sui iuris, limitandosi ad esigere, come principio organizzativo comune, la costituzione in ciascuna eparchia di un ente centrale con questa specifica funzione, ed il rispetto del principio di uguaglianza tra i chierici che prestano servizio in favore della medesima[42];  quest’ultima istanza di uguaglianza, che è possibile riscontrare anche nei documenti conciliari, si è invece persa del tutto nella revisione del Codice latino[43].

La comune scelta dei codici di esplicitare queste tre finalità in relazione all’impego del patrimonio ecclesiastico rispecchia una costante tradizione patrimoniale della Chiesa, che ha conosciuto una consacrazione giuridica sin dalla seconda metà del V secolo[44]. Tuttavia, a tale elencazione non deve attribuirsi un valore esaustivo delle “possibilità patrimoniali” della Chiesa, quanto piuttosto uno esemplificativo, come chiaramente ci testimonia l’avverbio «praesertim» che la introduce: ad esempio, i beni della Chiesa possono certamente essere impiegati per iniziative di evangelizzazione attraverso la predicazione o di catechesi, non immediatamente collocabili nell’ambito di nessuna delle tre finalità citate dalla norma.  

 

5. Modalità di esercizio del diritto ai beni

 

L’ordinamento canonico positivo, per quanto qui interessa il Codice dei canonici delle Chiese orientali, regola l’esercizio del diritto della Chiesa ad utilizzare i beni temporali, stabilendone le modalità e precisandone i limiti.

 Il cardine della disciplina codiciale in questa materia è rappresentato del riconoscimento a ciascuna persona giuridica canonica, singolarmente considerata come soggetto, della capacità di acquistare, possedere, amministrare ed alienare i beni temporali: con il canone 1009 § 1, il legislatore ecclesiastico attribuisce a tutte le persone giuridiche canoniche quella medesima capacità che alla Chiesa cattolica, nella sua unità giuridica, spetta per disposizione del diritto divino. Ne consegue - e lo afferma esplicitamente il canone 1008 § 2 - che quando una persona giuridica esercita legittimamente la propria capacità di acquistare beni temporali, essa diviene titolare del diritto di proprietà su di essi, cioè, a «a norma del diritto canonico», può disporne e goderne in maniera piena ed esclusiva.

Con il combinato disposto di questi due canoni si consacra, dunque, il principio della “frammentazione” patrimoniale, per il quale non esiste più un solo patrimonio ecclesiastico, in senso tecnico-giuridico, ma tanti patrimoni ecclesiastici quante sono le persone giuridiche canoniche[45]. La Chiesa sceglie di esercitare il proprio domininum sui beni temporali non direttamente e unitariamente, ma attraverso le singole persone giuridiche; queste ultime, dal canto loro, dispongono dei beni ecclesiastici in nome proprio e sotto la propria responsabilità ma esprimendo, allo stesso tempo, la dimensione istituzionale della Chiesa[46].

Si tratta di una scelta tutt’altro che scontata che si deve far risalire ad una volontà chiarificatrice del legislatore rispetto ad una precedente situazione d’incertezza[47]: in particolare anteriormente alla prima codificazione latina, alcuni orientamenti dottrinali avevano infatti sostenuto, anche con una certa fortuna, posizioni alternative che, ad esempio, riconoscevano nel Romano Pontefice il proprietario eminente di tutti i beni della Chiesa[48], ovvero vedevano in essi un unitario «patrimonium pauperum».

 

6. (segue) nozione di «bene ecclesiastico»

 

La proprietà di un bene da parte di una persona giuridica canonica assolve anche ad un’importante funzione di qualificazione del bene medesimo come «bene ecclesiastico». Infatti, il paragrafo secondo del canone 1009 individua proprio nell’appartenenza ad una persona giuridica il criterio identificativo della categoria dei «beni ecclesiastici» ed, insieme, traccia il perimetro applicativo del Titolo XXIII CCEO. Sul punto sussiste una significativa differenza rispetto al CIC ove si definiscono «beni ecclesiastici» solo i beni appartenenti a «persone giuridiche pubbliche»[49], escludendo da tale categoria, e dalla relativa disciplina, i beni in proprietà di persone giuridiche private. La ragione di una tanto significativa difformità tra i due codici non deve però ricercarsi nell’ambito strettamente patrimoniale, poiché essa dipende dalla scelta, sulla quale non è possibile soffermarsi in questa sede[50], di non recepire nel CCEO la distinzione tra personalità giuridica pubblica e privata, per riferirsi in generale alle «persone giuridiche» come ad una categoria di soggetti unitaria e sostanzialmente uniforme per ciò che riguarda il rapporto con la dimensione pubblico-istituzionale della Chiesa[51].

Ai sensi del CCEO sono, dunque, «beni ecclesiastici» tutti i beni che appartengono alle Chiese sui iuris, alle province, alle eparchie, agli esarcati, nonché quelli di proprietà di universitates personarum o costituenti universitates reurm che siano persone giuridiche per diritto o per speciale concessione dell’autorità ecclesiastica competente (can. 921). A tutti questi beni si applicano le norme del Titolo XXIII.

Per completezza, occorre tuttavia precisare che il CCEO non ignora in assoluto la distinzione pubblico-privato in riferimento ai soggetti giuridici complessi, ma anzi il canone 573 la recepisce esplicitamente, distinguendo le associazioni di fedeli nella duplice fattispecie delle associazioni «pubbliche» (§ 1) e di quelle «private» (§ 2)[52]. Dal punto di vista patrimoniale, che è ciò che qui strettamente interessa, tale distinzione risulta tuttavia sostanzialmente irrilevante: le associazioni pubbliche sono per diritto «persone giuridiche nella Chiesa» e, come tali - e non in quanto «pubbliche» -, i loro beni sono «beni ecclesiastici», soggetti alla disciplina del Titolo XXIII e a quanto stabilito dai loro statuti[53]. Viceversa, le associazioni «private» di fedeli sono per definizione sprovviste di personalità giuridica canonica[54], sebbene possano ottenere una diversa forma di riconoscimento mediante l’approvazione degli statuti da parte dell’autorità ecclesiastica e possano persino essere da questa «lodate o raccomandate». I beni di queste ultime sono, dunque, soggetti al solo regime giuridico definito dalle leggi civili e dai consociati nell’ambito dell’autonomia statuaria, fatti salvi: il potere di vigilanza dell’autorità ecclesiastica che ha, eventualmente, approvato gli statuti di un’associazione e quello del vescovo eparchiale su tutte le associazioni che operano nel suo territorio (can. 577); gli obblighi di legge derivanti dalla particolare natura di taluni beni a prescindere da chi ne sia il proprietario (ad es., le res sacrae[55]); quanto eventualmente stabilito in proposito dal diritto particolare della singola Chiesa sui iuris (can. 573 § 2).

Nessuna precisazione sembra invece necessaria per quanto riguarda le «pie fondazioni»[56] che, a prescindere dalla loro natura di fondazioni «autonome» o «non autonome», si presentano in ogni caso come universitates rerum composte da «beni ecclesiastici». Nel primo caso, infatti, è la stessa massa patrimoniale ad essere eretta in persona giuridica dalla competente autorità ecclesiastica; nel secondo, invece, si ha una massa di beni che rientra a pieno titolo nel patrimonio di una persona giuridica canonica, anche se gravata da un particolare «onere per un lungo tempo» che ne limita la disposizione ed il libero godimento[57]

 

7. (segue) il Romano Pontefice

 

La relazione di proprietà tra le persone giuridiche canoniche e i beni oggetto del loro diritto è modellata in maniera peculiare nell’ordinamento canonico da due elementi: l’autorità del Romano Pontefice ed il rapporto con gli ordinamenti civili.

Quanto al primo, il canone 1008 § 2 afferma che la proprietà dei beni temporali della Chiesa spetta alla persona giuridica che li ha legittimamente acquistati, «sub suprema auctoritate Romani Pontificis». La norma in questione riconosce l’esistenza di un soggetto, altro e distinto rispetto alla persona giuridica proprietaria ed ai suoi organi, dotato di un potere di intervento nella struttura giuridica della relazione di proprietà tra la persona stessa e il bene oggetto del suo diritto[58]: il Pontefice ha la facoltà di condizionare e limitare il godimento o la disposizione dei beni da parte di quei soggetti giuridici cui spetterebbero pienamente ed esclusivamente in forza del loro diritto; tale facoltà, ed il relativo potere, potrebbero spingersi fino al punto di privare autoritativamente di un bene il legittimo proprietario, al fine di trasferirlo ad altri con la «giusta causa», ad esempio, di salvaguardarne l’utilità specifica rispetto alla missione della Chiesa[59].

Questa “clausola di riserva” nei confronti dell’autorità del Pontefice appare, d’altro canto, la logica conseguenza dell’attribuzione ad esso delle funzioni e dell’ufficio di supremo «administrator et dispensator» di tutti i beni temporali della Chiesa, ad opera del primo paragrafo dello stesso canone 1008[60]. Un’attribuzione che, a sua volta, si pone in strettissima e necessaria connessione con il primato di governo che il Pontefice esercita su tutte le persone giuridiche e su tutti i beni della Chiesa, anche di quelli delle Chiese orientali che, nella loro varietà di riti, sono «tutte allo stesso modo affidate al suo pastorale governo»[61]. Pertanto, come ha cura di esplicitare il canone 1273 CIC ricorrendo all’inciso «vi primatus regiminis»[62], il potere di intervento del Pontefice sul patrimonio ecclesiastico e gli atti che derivano dal suo esercizio, hanno sempre natura giurisdizionale e mai dominicale, egli cioè in nessun caso dispone dei beni delle persone giuridiche canoniche in qualità di proprietario o di amministratore in senso tecnico[63].

 

8. (segue) il rapporto con gli ordinamenti civili

 

Un secondo elemento che incide in modo del tutto peculiare nella relazione tra le persone giuridiche e i beni temporali di cui sono proprietarie è il rinvio formale alle norme del diritto civile operato dal canone 1034: quando una persona giuridica acquista, aliena o dispone in altro modo dei propri beni, è tenuta al rispetto delle disposizioni civili sui contratti, in genere ed in specie, e sui pagamenti, che regolano il traffico giuridico sul territorio «dove si stipula il contratto»[64]. In forza di tale rinvio, generalmente indicato con il termine “canonizzazione”, le norme civili in materia contrattuale divengono vigenti anche nell’ordinamento canonico, ove producono quegli stessi effetti che producono nell’ordinamento d’origine. Così, ad esempio, ove un ordinamento statale prescriva a pena di nullità una particolare forma per il contratto di compravendita di beni immobili, l’omissione di questa in un contratto stipulato da una parrocchia ne determina la nullità anche per l’ordinamento canonico.

Sono evidenti le ragioni di opportunità e di realismo alla base di una tale scelta normativa: una globale e compiuta legislazione canonica in questa materia avrebbe inevitabilmente portato a continui contrasti con gli ordinamenti statali, stante l’eterogeneità di questi ultimi in raffronto all’unicità e all’universalità dell’ordinamento canonico. Il legislatore orientale del 1990, al pari di quello latino del 1983 (can. 1290 CIC), si è limitato allora a disciplinare alcuni aspetti patrimoniali più rilevanti e utili a garantire l’efficace perseguimento della missione della Chiesa, mentre per gli altri ha preferito rinviare alle leggi degli Stati[65] .

La canonizzazione delle leggi civili in materia di contratti e pagamenti non implica, tuttavia, la necessaria e perfetta coincidenza tra l’ordinamento canonico e quelli secolari per ciò che concerne il regime giuridico degli atti di disposizione dei beni della Chiesa. Vi sono infatti almeno due ordini di ragioni per i quali possono determinarsi concrete ipotesi di difformità tra ordinamenti.

Anzitutto, per il principio generale del canone 1504, che pone quale limite inderogabile all’efficacia delle norme civili nell’ordinamento canonico la non contrarietà al diritto divino e a quanto stabilito dalla legge canonica[66].

Con riferimento a questo principio, il canone 1020 § 2, ad esempio, contempla e risolve - con una previsione che non ha corrispondenza alcuna nel CIC - una particolare e “radicale” ipotesi di contrasto in materia patrimoniale tra l’ordinamento canonico e quanto stabilito dagli ordinamenti secolari, su cui vale la pena di soffermarsi brevemente.

È infatti un dovere dell’amministratore della persona giuridica (1028 § 2, 2°) intestare i beni ecclesiastici a nome della persona giuridica che ne è proprietaria nel rispetto delle formalità civili;  sull’autorità ecclesiastica cui è soggetta la persona giuridica grava altresì l’obbligo di curare che ciò avvenga, dando istruzioni agli amministratori, vigilando e sanzionando eventuali negligenze (can. 1020 § 1). Può tuttavia accadere che ciò non sia concretamente possibile perché il diritto civile non consente alle persone giuridiche canoniche di essere riconosciute formalmente proprietarie di quei beni temporali che invece appartengono loro per l’ordinamento canonico: è un’ipotesi realistica, che non ha mancato di concretizzarsi nell’esperienza storica ed attuale della Chiesa in quei paesi che, per la loro connotazione ideologica o confessionistica, hanno negato, o negano, la capacità patrimoniale agli enti esponenziali della Chiesa cattolica. Allora, dinnanzi a tale limitazione normativa - indubbiamente inefficace nell’ordinamento canonico per manifesta contrarietà a quanto disposto dal canone 1009 § 1 - il canone 1020 § 2 indica e legittima una via alternativa: l’autorità ecclesiastica, con l’aiuto di esperti di diritto civile e consiglieri competenti, deve ricorrere a soluzioni giuridiche alternative valide per il diritto civile, al fine di garantire il diritto della Chiesa di disporre e godere dei beni necessari alla propria missione; ciò potrebbe avvenire, ad esempio, mediante la costituzione di entità giuridiche parallele e controllate dall’autorità ecclesiastica (ad es. società commerciali) o mediante l’intestazione dei beni a determinate persone fisiche vincolate da specifici impegni contrattuali. È fin troppo evidente come il punto nodale che giustifica questa previsione, sia quello di salvaguardare l’effettiva possibilità della Chiesa di utilizzare i beni temporali per la propria missione, anche in deroga, ove sia imposto da una causa di forza maggiore, a quanto previsto dal legislatore canonico.

Un’ipotesi di difformità tra gli ordinamenti civili e quello canonico in materia di contratti e pagamenti può anche determinarsi in relazione al fatto che il rinvio generale ai primi operato dal canone 1034 è integrato da specifiche norme canoniche, che si giustificano sulla base dell’interesse pubblico della Chiesa a tutelare il proprio patrimonio. Tali norme incidono sulla validità canonica degli atti di disposizione dei beni e non, necessariamente, anche su quella civile. Così ad esempio, l’alienazione di un bene in assenza del consenso del vescovo eparchiale, ove questo venga prescritto in relazione alla natura o al valore del bene, è invalida per l’ordinamento canonico ma non, necessariamente, anche per quello civile vigente sul territorio dove si è perfezionato il contratto di compravendita. Quest’ultimo aspetto dipenderà, com’è ovvio, dalla rilevanza che ciascun ordinamento civile attribuisce, nell’ambito della propria autonomia, alle norme canoniche sui cosiddetti “controlli”.  

Dinnanzi al realizzarsi di una tale ipotesi, cioè se i beni ecclesiastici fossero alienati contro le prescrizioni del diritto canonico ma l’alienazione fosse valida per il diritto civile, il Codice raccomanda all’«autorità superiore»[67] di colui che ha alienato, di stabilire, dopo matura riflessione, «se e quale azione, da chi e contro chi deve essere proposta per rivendicare i diritti della Chiesa» (can. 1040)[68].

 

9. L’acquisto

 

L’«acquisto di un bene temporale» da parte della Chiesa si realizza quando il diritto di proprietà su un bene entra a far parte della complessiva situazione giuridica facente capo ad una persona giuridica canonica; per il realizzarsi di tale evento, la persona acquirente può godere e disporre del bene acquistato e quest’ultimo viene qualificato come «ecclesiastico» ed assoggettato all’ordinamento canonico, in genere, ed alle norme del Titolo XXIII CCEO, in specie.

I modi di acquisto della proprietà sono individuati dal canone 1010 in tutti quelli «giusti, che sono leciti agli altri», intendendo rinviare con il termine «leciti» anzitutto ai modi di acquisto previsti dalle legislazioni civili, siano essi di diritto positivo o naturale (l’occupazione, l’accessione, etc.) formalizzati e regolati dalle medesime leggi civili. Non tutti questi modi sono però nella disponibilità legale delle persone giuridiche canoniche, poiché la norma ora considerata esige che essi siano anche «giusti», ossia non contrari al diritto divino, né proibiti dal legislatore canonico[69]. Si pensi ad esempio all’ipotesi, non così fantasiosa, in cui la legge vigente in un determinato territorio legittimasse forme di appropriazione di beni appartenenti ai componenti di classi o etnie private dei loro diritti per ragioni raziali o sociali: a tale ingiusto modo di acquisto non potrebbero certamente ricorrere le persone giuridiche canoniche per reperire le risorse necessarie alla loro missione. D’altro canto, come abbiamo già avuto modo di ricordare[70], questo stesso principio del rinvio alle legislazioni secolari e del relativo limite, qui enunciato in termini generali, è ribadito dal canone 1034 in riferimento al principale modo di acquisto a titolo derivativo, il contratto.

Certamente «giusti» e «leciti», anche a prescindere da quanto eventualmente statuito delle leggi civili, sono i modi di acquisto espressamente previsti e disciplinati dallo stesso legislatore canonico. Nel CCEO troviamo i seguenti: i tributi (can. 1012); le tasse (can. 1013 § 1); le offerte in occasione della celebrazione della Divina Liturgia, dei sacramenti, dei sacramentali e di altre celebrazioni liturgiche (can. 1013 § 1); le offerte dei fedeli, siano esse spontanee o richieste mediante questue o collette (cann. 1014-1015); la prescrizione acquisitiva o usucapione (cann. 1017-1019); la divisione (can. 929) e l’estinzione (can. 930) delle persone giuridiche[71]. Soffermiamoci brevemente su alcuni di essi.

a) L’imposizione tributaria è un modo di acquisto di diritto pubblico, espressione della potestà di giurisdizione[72] del vescovo eparchiale, che ha la facoltà di esigere autoritativamente dalle persone giuridiche e dai fedeli a lui soggetti, quanto ordinariamente o straordinariamente[73] necessario alla missione della Chiesa (can. 1011)[74]. La scelta di imporre dei tributi è rimessa ad una valutazione discrezionale del vescovo sulla situazione e sulle esigenze economiche della eparchia, ma necessita, come cautela rispetto a possibili abusi o eccessi da parte dell’autorità in questa delicata materia, anche del consenso del consiglio affari economici dell’eparchia medesima[75].

Soggetti passivi di un’eventuale imposizione possono sempre essere le persone giuridiche sottoposte alla giurisdizione episcopale (tutte o alcune), mentre è possibile imporre tributi alle persone fisiche solo quando ciò sia espressamente consentito al vescovo dal diritto particolare di ciascuna Chiesa.

La definizione quantitativa dei tributi deve, poi, rispondere ad un criterio di proporzionalità rispetto ai redditi della persona, giuridica o fisica, e, in nessun caso, possono essere oggetto di imposizione, né diretta né indiretta, i redditi delle persone giuridiche derivanti dalle offerte «in occasione della celebrazione della Divina Liturgia»[76]; quest’ultima “zona di esenzione assoluta”, cioè non derogabile dal diritto particolare, è stata prevista dal legislatore[77] probabilmente con l’intento di evitare, nel rispetto del principio generale del canone 1016, che le offerte destinate dai fedeli alla Divina Liturgia vengano impiegate, anche solo parzialmente, per scopi differenti.

Un esempio di tributo disciplinato dallo stesso legislatore comune orientale, è quello che il vescovo può imporre sulle persone giuridiche a lui soggette, ma anche alle «case dei religiosi, a meno che non si sostengano con le sole elemosine», al fine di provvedere alle spese del seminario (can. 341).

b) Rientra tra le facoltà del vescovo eparchiale[78], anche determinare le tasse sugli atti della potestà di governo e sui i servizi dell’amministrazione ecclesiastica - quali, ad esempio, la concessione di dispense ed autorizzazioni, il rilascio di certificati, etc. -, salvo che il diritto comune non stabilisca espressamente altro, come avviene per le somme dovute dai fedeli a titolo di spese giudiziarie[79]. Anche in questo caso, è rimessa al diritto particolare di ciascuna Chiesa la definizione dei limiti quantitativi entro i quali i vescovi possono determinare le tasse ecclesiastiche, con l’aggiunta però una particolare cautela: stante l’autonomia e la varietà che connota le Chiese orientali, «i patriarchi e i vescovi eparchiali di diverse chiese che esercitano la loro potestà sul medesimo territorio» sono tenuti al rispetto di un principio di uniformità nella definizione della tassazione, cioè a stabilire d’intesa le relative disposizioni per quel territorio[80].

c) I fedeli, dal canto loro, sono tenuti all’obbligo giuridico[81] di sovvenire con offerte, proporzionate alle proprie risorse, alle necessità della Chiesa, per spontaneo impulso o rispondendo a specifiche sollecitazioni che provengono dall’autorità o da altri fedeli[82]. Rientrano in questa seconda ipotesi, anzitutto, le offerte in occasione della celebrazione della Divina Liturgia[83], dei sacramenti, dei sacramentali e di altre celebrazioni liturgiche, che sono soggette alla medesima disciplina già considerata per le tasse. È bene sottolineare che, in riferimento alle offerte in tali occasioni, deve fermamente escludersi la sussistenza di un rapporto sinallagmatico tra la dazione del fedele e la “prestazione liturgica”, che è, e rimane, gratuita, poiché la prima si giustifica esclusivamente in ragione di una libera adesione del fedele alla richiesta di sovvenire la Chiesa nelle esigenze connesse all’esercizio del munus santificanti. In tal senso, il legislatore si dimostra assai esplicito per ciò che specificamente concerne la Divina Liturgia, che i sacerdoti devono celebrare «volentieri anche senza alcuna offerta secondo le intenzioni dei fedeli cristiani, specialmente dei poveri» (can. 716), e le esequie ecclesiastiche, per le quali raccomanda di ricevere solamente le «offerte che i fedeli cristiani spontaneamente offrono» (can. 878 § 2).

Per procurarsi, invece, le risorse economiche necessarie ad altre e «determinate» iniziative, il vescovo può ordinare egli stesso o approvare se proposte da altri, raccolte pubbliche di offerte in tutte le chiese presenti sul territorio dell’eparchia, anche non soggette alla sua giurisdizione[84], e abitualmente aperte ai fedeli (can. 1014). Nel medesimo tempo, le persone giuridiche, direttamente o i fedeli in favore di queste, possono raccogliere elemosine (ad es., mediante pubbliche sottoscrizioni), purché abbiamo ottenuto il consenso dal gerarca del luogo dove sono raccolte le elemosine e, se differente, anche quello dell’autorità cui sono soggette (can. 1015) [85].

A tutte le ipotesi di offerte a persone giuridiche fin qui considerate, trovano applicazione alcuni principi generali dettati dal canone 1016: anzitutto, quello del vincolo di destinazione patrimoniale, per il quale quando le offerte sono state raccolte o devolute per uno scopo specifico o un’attività determinata, non possono in nessun caso essere destinate a scopi o attività differenti; in secondo luogo, la presunzione legale che, ove non risulti o si provi con certezza il contrario, le offerte consegnate agli amministratori si intendono date alla persona giuridica amministrata; infine, la necessità di una giusta causa, come potrebbe essere l’illecita provenienza del denaro, per rifiutare le offerte, e della licenza del gerarca per rifiutare quelle «di maggior importanza», cioè di maggior valore economico; questa stessa licenza è richiesta dalla norma, anche per accettare le offerte gravate da onere o da condizione, con l’avvertenza che, ove queste siano di tale natura da pregiudicare il patrimonio della persona giuridica, saranno disciplinate dalle norme sull’alienazione (can. 1042).

d) Un ultimo modo di acquisto direttamente regolamentato dal CCEO è quello, a titolo originario, determinato dalla situazione di fatto del possesso di un bene: la prescrizione acquisitiva o usucapione. Con riferimento ad esso, il Codice da un lato ribadisce il principio generale della ricezione mediante canonizzazione delle norme di diritto civile[86], dall’altro, detta alcune ampie deroghe a tale principio, che tengono conto sia della particolare natura di alcuni beni, sia del soggetto che ne è il titolare.

Le «cose sacre», cioè quelle destinate al culto divino con la dedicazione o benedizione, di proprietà di una persona giuridica canonica, possono essere usucapite solo da altre persone giuridiche canoniche e mai da privati; se, invece, sono di proprietà privata, possono essere usucapite da chiunque, fermo restando il divieto di adibirle ad usi profani, che opera su di esse come un vincolo reale (can. 1018); tutti i beni immobili e i beni mobili preziosi, cioè quelli «che hanno grande importanza a motivo dell’arte, della storia o della materia», i diritti e le azioni, possono essere oggetto di usucapione in trenta anni; tuttavia, se appartengono ad una Chiesa sui iuris o ad un’eparchia ne occorrono cinquanta; se appartengono alla Santa Sede, cento (can. 1019).

 

10. L’amministrazione: i soggetti

 

Nell’ambito del diritto comune orientale in materia di amministrazione ed alienazione dei beni ecclesiastici, è possibile riscontrare norme riferite indistintamente a tutte le persone giuridiche canoniche, e prescrizioni dettate per specifiche tipologie soggettive: le eparchie, le persone giuridiche soggette alla giurisdizione del vescovo eparchiale e quelle che vi sono legittimamente sottratte, gli istituti religiosi, etc. Per tale ragione, non è possibile in questa sede illustrare in maniera esaustiva tutte le variabili normative in relazione ai diversi soggetti proprietari dei beni, ma occorre - e risulta anche più proficuo - trattare le norme sull’amministrazione e sull’alienazione avendo a riferimento esemplificativo una specifica tipologia di persona giuridica canonica: una parrocchia di una eparchia di una Chiesa patriarcale che si trova sul territorio della medesima[87].

Fatta questa precisazione di metodo, i soggetti che partecipano all’amministrazione dei beni della parrocchia in questione sono molteplici e con funzioni differenti in relazione alla loro posizione rispetto ad essa:

a) il «Patriarca», che, a norma del canone 97, è tenuto a vigilare diligentemente sulla retta amministrazione di tutti i beni ecclesiastici che si trovano sul territorio della Chiesa patriarcale e che non sono legittimamente sottratti alla sua potestà. Tale dovere di vigilanza ha ad oggetto immediato non tanto l’operato dei singoli amministratori di beni ecclesiastici, ad esempio dei parroci, quanto piuttosto la diligenza e la sollecitudine dei vescovi nel vigilare sull’amministrazione dei beni ecclesiastici presenti sul territorio delle loro eparchie, vescovi che rispetto a tale compito restano i “primi obbligati”[88].

b) Il «vescovo eparchiale», al quale il can. 1022 § 1 affida il compito di vigilare sull’amministrazione di tutti quei beni ecclesiastici che si trovano sul territorio dell’eparchia, salvo che per qualche ragione tali beni siano sottratti alla sua giurisdizione[89]. Il diritto particolare o altri titoli legittimi possono comunque concedere a questo più ampi ed incisivi poteri rispetto all’amministrazione dei beni.

c) Il vescovo adempie al suo compito con l’aiuto dell’«economo eparchiale», a cui parimenti il Codice impone il dovere di «vigilare sull’amministrazione dei beni ecclesiastici in tutta l’eparchia» (can. 262 § 3)[90]. L’economo sembrerebbe, anzi, disporre in tale ambito di facoltà addirittura più ampie rispetto a quelle del vescovo, potendo egli anche intervenire direttamente nell’amministrazione dei beni ecclesiastici presenti sul territorio dell’eparchia, sostituendosi all’amministratore ordinario, quando lo esigano esigenze di «conservazione, tutela o incremento» dei medesimi e quando quest’ultimo si dimostri negligente o manchi del tutto[91]. Tuttavia, nel valutare la portata effettiva di tali ampie facoltà, non bisogna trascurare che l’economo agisce sempre «sotto la potestà del vescovo eparchiale», che lo nomina, lo revoca e al quale deve rendere conto del suo operato ogni volta che sia richiesto.  

d) Con il termine «gerarca», in riferimento ad una eparchia, si indicano unitamente il vescovo, il protosincello e il sincello[92]. Le funzioni e i poteri che il Codice attribuisce al gerarca in materia di amministrazione dei beni ecclesiastici sono, dunque, ancora funzioni e poteri del vescovo eparchiale, che tuttavia può scegliere di adempiervi ed esercitarli personalmente o per mezzo del protosincello e del sincello, nel rispetto del principio generale sull’esercizio della potestà esecutiva[93]. Quanto al merito di tali funzioni, il gerarca deve, prima di tutto, preoccuparsi di ordinare l’amministrazione dei beni ecclesiastici, dando agli amministratori le opportune istruzioni, sia a carattere generale (regolamenti, circolari, etc.), sia in riferimento a situazioni particolari e a circostanze concrete[94]; egli è, poi, chiamato a dare il proprio consenso al parroco e agli altri amministratori per il compimento di taluni atti di disposizione dei beni della parrocchia e delle altre persone giuridiche, a pena di invalidità degli atti medesimi[95]. Rientrano, infine, tra i compiti del gerarca: ricevere la promessa di fedeltà dell’amministratore; approvare l’inventario dei beni ecclesiastici a lui affidato, quando questi inizi ad esercitare il suo ufficio (can. 1025); approvare il rendiconto annuale della gestione (can. 131 § 1).

e) Il canone 1023 individua l’amministratore dei beni ecclesiastici di una persona giuridica in colui che «governa immediatamente» la persona medesima[96]. Come regola generale, dunque, il soggetto titolare del potere di governo su di un ente canonico, è anche investito dell’ufficio di amministratore del suo patrimonio, cioè del potere-dovere di porre in essere sui beni che gli appartengono quegli atti utili a conservarli, raccoglierne i frutti, migliorarli e impiegarli per i suoi scopi. Si esprime in questa previsione la chiara volontà del legislatore di garantire a ciascuna persona giuridica un certo grado di autonomia nella gestione del proprio patrimonio e, nello stesso tempo, essa si presenta come il logico e necessario corollario del canone 1008 § 2, che attribuisce il diritto di proprietà sui beni alla persona giuridica che li ha legittimamente acquistati.

In genere, coincide con l’unitaria figura di chi governa la persona e ne amministra i beni, anche quella, concettualmente distinta, del legale rappresentante, cioè di colui che manifesta dinnanzi alla legge e nei confronti dei terzi la volontà della persona, senza tuttavia necessariamente concorrere a determinarla. Così, il parroco è colui che governa la parrocchia, ne amministra i beni e la rappresenta nei negozi con i terzi.

Il diritto comune, in riferimento a specifiche persone giuridiche, quello particolare delle Chiese sui iuris, e gli statuti possono comunque derogare al principio consacrato nel canone 1023, prevedendo forme di distinzione delle tre figure. Esempi in tal senso sono dati dal canone 262 § 3, che attribuisce all’economo, e non al vescovo, l’ufficio di amministratore dei beni dell’eparchia, e dal canone 447, ove si richiede che il superiore di un monastero sui iuris «non eserciti insieme» al proprio anche l’ufficio di economo, cioè di amministratore dei beni temporali del monastero.

 

11. (segue) lo statuto dell’amministratore

 

I doveri connessi all’ufficio di amministratore di beni ecclesiastici sono definiti da alcuni canoni del Titolo XXIII, con cui il legislatore orientale ha inteso tracciare un vero e proprio statuto di questa figura. Tali doveri possono essere raggruppati in tre categorie: i doveri previ all’assunzione dell’incarico, i doveri nell’adempimento dell’ufficio e i doveri di rendicontazione.

Tra i primi, abbiamo già avuto modo di citare l’obbligo di promettere[97] al gerarca (o ad un suo delegato) di adempiere fedelmente all’ufficio di amministratore e la redazione e sottoscrizione di un «accurato inventario» dei beni ecclesiastici affidati alla sua amministrazione[98]. Con una norma che non ha corrispettivo nel CIC, si richiede inoltre che, al momento dell’assunzione dell’incarico, l’amministratore dia le «opportune garanzie, valide per il diritto civile, affinché la Chiesa non abbia a subire alcun danno quando gli stessi amministratori muoiano o cessano dall’ufficio» (can. 1027). Questa generica previsione potrebbe fare riferimento, ad esempio, a quel particolare caso, già considerato, in cui il diritto civile non consenta di intestare i beni alla persona giuridica che ne è proprietaria per il diritto canonico (can. 1020 § 2)[99]: l’amministratore che per questa ragione ne abbia la disponibilità a titolo personale dovrà garantire, ricorrendo a strumenti civilmente validi, che i beni passino ai suoi successori, una volta che egli sarà cessato dall’incarico o in caso di sua morte[100].

Quanto ai doveri dell’amministratore nell’adempimento del proprio ufficio, essi possono essere efficacemente riassunti nella formula normativa del canone 1028 § 1, che esige che egli operi con «la diligenza del buon padre di famiglia». Questo parametro, tratto dalla tradizione romanistica, impone all’amministratore di adottare in ogni circostanza un comportamento, un impegno, una cura, una prudenza, e di dimostrare una perizia, di livello «medio», da un lato evitando la trascuratezza e, dall’altro, senza dover ricorrere a competenze professionali o azioni di carattere straordinario. Risulta fin troppo evidente che il legislatore abbia scelto di riferirsi ad un modello di diligenza media, avendo in mente quella situazione “tipica” nella quale il soggetto investito dell’ufficio di amministratore è anche un pastore, che ha nella cura delle anime la propria occupazione primaria: sarebbe stato irrealistico esigere da un amministratore con questo particolare profilo, una diligenza professionale, che assurgesse cioè ad un livello superiore sotto il profilo della perizia.

Dall’enunciazione di questo canone generale, viene fatto discendere un lungo elenco di doveri che troviamo enunciato nel paragrafo secondo dello stesso canone 1028 e che si può ritenere al pari di una logica e vincolante, ma non esaustiva, esemplificazione del modus operandi dell’amministratore diligente. Ci limitiamo in questa sede a riprodurlo evidenziando soltanto la quasi perfetta consonanza con l’elenco di doveri proposto dal canone 1284 § 2 CIC[101]:

 

«vigilare perché i beni ecclesiasticiaffidati alla sua cura non siano distrutti in alcun modo e non subiscano danneggiamenti, stipulando allo scopo, se è necessario, dei contratti di assicurazione;

osservare le norme del dirittocanonico e civile e anche ciò che è stato imposto dal fondatore o dal donatore oppure dall’autorità competente, e soprattutto guardarsi che dall’inosservanza del diritto civile non derivi del danno alla Chiesa;

esigere accuratamente e a tempo debito i redditi e i proventi dei beni, conservandoli poi in modo sicuro dopo la riscossione e impiegandoli secondo l’intenzione del fondatore o le legittimenorme;

aver cura di pagare nel tempo determinato gli interessidovuti per mutuo o ipoteca e procurare che sia restituito opportunamente il capitale;

utilizzare, col consenso del Gerarca, il denaro che eventualmente è avanzato dalle spese e che può utilmente essere investito, per i fini della Chiesa o della persona giuridica;

tenere beneordinati i libri delle entrate e delle Perego Alessandro



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