Alcune osservazioni in tema di communio: la natura giuridica dell’actio communi dividundo
Valeria Carro
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Professore aggregato di diritto romano, Università degli Studi di Napoli Federico II
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Alcune osservazioni in tema di communio: la natura giuridica dell’actio communi dividundo*
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Some observations about communio: the legal nature of the actio communi dividundo
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1. … pluribus modis communia sunt …  . 2. Breve excursus storico sul concetto di communio 3. La communio come fenomeno giuridico complesso - 4. L’actio communi dividundo: la sua natura giuridica 5. La formula dell’actio communi dividundo tra bona fides e … 6. … societas.
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- … pluribus modis communia sunt …
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Nel de beneficiis 7.12 Seneca sostiene che la comunanza di beni che c’è con un amico non può considerarsi come quella che c’è con un socio, nel qual caso una parte è dell’uno e una parte è dell’altro … ut pars mea sit, pars illius …, ma come quella comunanza che c’è fra padre e madre nei riguardi dei figli: se questi sono due non ne posseggono uno ciascuno, ma a ciascuno appartengono tutti e due … quibus quum duo sunt, non singuli singulos habent, sed singuli binos. È evidente che … hoc consortium solum inter sapientes est, inter quos amicitia est; ceteri non magis amici sunt, quam socii.
Nel passo si legge che ci sono vari modi di avere in comune una cosa: … pluribus modis communia sunt … .*
I seggi equestri, nei teatri, appartengono a tutti i cavalieri romani; tra tutti i posti quello che si occupa diventa proprio nello specifico. Se lo si cede a qualcuno, sebbene si faccia così dono di una cosa che si ha in comune, il gesto è classificato comunque come un dono.
Certe cose, così, ci appartengono a determinate condizioni: quaedam quorumdam sub certa conditione sunt.
Tra i seggi equestri se a qualcuno spetta uno, ciò sarà non per venderlo, non per darlo in affitto, non per abitarlo, ma solo per assistere agli spettacoli.
Si possiede così un posto nel settore riservato ai cavalieri, ma se si arriva in teatro e i seggi equestri sono occupati, si ha sempre, legalmente, il posto perché si ha il diritto di sedersi ma, di fatto, non lo si ha perché il posto è occupato da coloro che hanno in comune il diritto a quei posti. Lo stesso avviene tra amici: tutto ciò che ha un amico, l’ha in comune con noi, ma è proprietà specifica di chi lo possiede concretamente. Ciò che è del proprio amico è condiviso, ma certo non lo si può vendere.
Nemmeno i seggi si possono vendere e pure questi sono in comune con gli altri appartenenti all’ordine equestre.
Non poter vendere o consumare o deteriorare una cosa non prova che non si è il proprietario in quanto si è padroni anche di ciò che si possiede sotto il vincolo di determinate condizioni: non est argumentum, ideo aliquid tuum non esse, quia vendere non potes, quia consumere, quia mutare in deterius aut melius non potes. Tuum enim est, etiam quod sub lege certa tuum est. Accepi, sed cuncti non minus.
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- Â Breve excursus storico sul concetto di communio
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La testimonianza di Seneca conferma quanto articolato sia il concetto di comunione nelle fonti, cosa avvalorata anche dalla circostanza che lo stesso non sia nemmeno espresso con locuzioni unitarie quali condominium e comproprietas[1].
Gli agri cittadini che in età arcaica erano caratterizzati da una comunanza gentilizia[2] furono sottoposti soltanto nel VI sec. a. C. a divisiones et adsignationes ai singoli patres familiarum[3]. Le estensioni di territorio non assegnate a privati, così, furono intese come oggetto di comunanza di godimento di tutto il populus Romanus Quiritium,rientranti come ager publicus nella sfera di azione del ius publicum[4].
Prima della costituzione della civitas quiritaria i membri liberi della familia[5]erano in origine partecipi a titolo di comunione indifferenziata delle res familiares da cui derivarono le res mancipi[6]:
Gai 2.157. Sed heredes ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et sui quidem vivo quoque parente quodam modo domini existimantur. ….
Le origini della comproprietà romana indicata con l’espressione rem communem habere o rem plurium esse vanno ricercate proprio nel consorzio familiae costituito da sui heredes alla morte del pater familias e che poteva costituirsi anche tra estranei.
In Gaio 3.154a è attestato il consortium fratrum suorum:
Olim enim mortuo patre familias inter suos heredes quaedam erat legitima simul et naturalis societas quae appellabatur ‘ercto non cito’, id est dominio non diviso: erctum enim dominium est, unde erus dominus dicitur: ciere autem dividere est: unde caedere et secare dicimus.
Esso si costituiva tra i sui heredes del pater familias morto fino alla divisione del compendio ereditario. Alla morte del padre di famiglia si creava tra gli eredi propri una sorta di società al tempo stesso legittima e naturale, chiamata ercto non cito ossia proprietà indivisa: erctum,infatti, significa proprietà , ragion per cui il proprietario viene detto erus e ciere significa dividere da cui derivano tagliare, separare e dividere.
In Gaio 3.154b si descrive il consortium ad exemplum fratrum suorum che si costituiva consensualmente attraverso una procedura giudiziaria tra coloro che intendevano mettere in comunione un patrimonio o un bene reale[7]:
Alii quoque, qui volebant eandem habere societatem, poterant id consequi apud praetorem certa legis actione. In hac autem societate fratrum ceterorumve qui ad exemplum fratrum suorum societatem coierint, illud proprium erat, quod vel unus ex sociis communem servum manumittendo liberum faciebat et omnibus libertum adquirebat: item unus rem communem mancipando … .
Chiunque altro avesse voluto costituire la stessa società avrebbe potuto farlo dinanzi al pretore tramite una specifica azione di legge.
A questa società tra fratelli o tra quanti altri l’avessero costituita come fossero fratelli, era proprio il principio secondo cui, anche se uno solo dei soci avesse manomesso uno schiavo comune, questi era reso libero e diveniva liberto rispetto a tutti; e così, se avesse mancipato una cosa comune, la trasferiva all’acquirente in proprietà quiritaria … [8].
Ciascun consorte era legittimato non solo a godere delle cose comuni, ma a disporre con effetto vincolante per tutti gli altri salvo che non ne fosse impedito dalla prohibitio di qualcun altro fra i comunisti. L’estinzione del consortium avveniva con l’actio familiae erciscundae quale strumento di divisione del patrimonio del de cuius tra gli eredi.
L’istituto scomparve prima della fine della Repubblica[9], ma gli sopravvisse la communio che, come disciplinata dal diritto romano, rappresenta una importante chiave di lettura storica per l’interpretazione dell’istituto nel diritto civile vigente in Italia[10].
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3. La communio come fenomeno giuridico complesso
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In diritto romano la communio[11]non si esprime nel senso di un godimento in solidum del dominium e della possessio di un’unica res in quanto il dominio di ciascun condòmino rappresenta una parte non materiale, ma intellettuale del tutto:
D. 13.6.5.15 (Ulp. 28 ad ed.) Si duobus vehiculum commodatum sit vel locatum simul, Celsus filius ‘scripsit’ libro sexto digestorum quaeri posse, utrum unusquisque eorum in solidum an pro parte teneatur. Et ait duorum quidem in solidum dominium vel possessionem esse non posse: nec quemquam partis corporis dominum esse, sed totius corporis pro indiviso pro parte dominium habere. Usum autem balinei quidem vel porticus vel campi uniuscuiusque in solidum esse (neque enim minus me uti, quod et alius uteretur): verum in vehiculo commodato vel locato pro parte quidem effectu me usum habere, quia non omnia loca vehiculi teneam. Sed esse verius ait et dolum et culpam et diligentiam et custodiam in totum me praestare debere: quare duo quodammodo rei habebuntur et, si alter conventus praestiterit, liberabit alterum et ambobus competit furti actio, … D. 13.6.6 (Pomp. 5 ad Sab.) ut alterutro agente alterius actio contra furem tollatur[12].
Il testo riguarda il caso posto da Celso sul comodato o la locazione congiunta di un veicolo a due persone relativamente al quale il giurista libro sexto digestorum afferma che non può esservi proprietà o possesso di due persone per l’intero, né ciascuno può essere proprietario di una singola parte di una cosa unitaria, ma ha la proprietà del tutto per una quota parte indivisa[13].
Una pluralità di soggetti, quindi, implica una pluralità di diritti[14]: ciascun condòmino in tanto è proprietario, in quanto ha precisamente il diritto di escludere lo stesso condòmino dal godimento. Di conseguenza la communio si sostanzia nello stato di coincidenza dei diritti[15]: più diritti di dominium coesistono così su un’unica res con la titolarità di ciascun condòmino su tutta la cosa.
La communio,quale vicenda di coincidenza di diritti soggettivi, è vista, pertanto, con una sorta di disfavore in quanto vi sottende una tensione naturale alla divisione derivata dal contrasto dei dominia e dalla possibilità di ciascun dominus di disporre del tutto, ma contemporaneamente di vedersi opporre l’esercizio dello ius prohibendi[16].
Dalla titolarità sull’intera res ne consegue che: se un condòmino manomette lo schiavo comune[17] o rinuncia alla sua quota[18] oppure non può acquistare quello che acquista lo schiavo comune[19], la quota si acquista per diritto di accrescimento agli altri condòmini[20].
Non è possibile, inoltre, costituire servitù tra due fondi dei quali uno sia comune e l’altro in proprietà esclusiva di uno dei soci[21].
Relativamente alla disposizione materiale ciascun condòmino acquista la proprietà dei frutti iure soli all’atto della separazione, ma pro parte e in ordine alla disposizione giuridica ciascun condòmino esercita pro parte le sue facoltà e così può alienare la sua pars dominii,gravarla di usufrutto, costituirla in pegno ed in ipoteca.
Sarà la prohibitio, quale residuo della difesa privata del dominio, a limitare l’iniziativa del singolo sulla sfera giuridica altrui[22]:
D. 8.5.11 (Marc. 6 dig.) An unus ex sociis in communi loco invitis ceteris iure aedificare possit, id est an, si prohibeatur a sociis, possit cum his ita experiri ius sibi esse aedificare, et an socii cum eo ita agere possint ius sibi prohibendi esse vel illi ius aedificandi non esse: et si aedificatum iam sit, non possit cum eo ita experiri ius tibi non esse ita aedificatum habere, quaeritur. Et magis dici potest prohibendi potius quam faciendi esse ius socio, quia magis ille, qui facere conatur ut dixi, quodammodo sibi alienum quoque ius praeripit, si quasi solus dominus ad suum arbitrium uti iure communi velit.
Il principio è espresso anche in:
D. 10.3.28 (Pap. 7 quaest.) Sabinus ait in re communi neminem dominorum iure facere quicquam invito altero posse. unde manifestum est prohibendi ius esse: in re enim pari potiorem causam esse prohibentis constat. Sed etsi in communi prohiberi socius a socio ne quid faciat potest, ut tamen factum opus tollat, cogi non potest, si, cum prohibere poterat, hoc praetermisit: et ideo per communi dividundo actionem damnum sarciri poterit. Sin autem facienti consensit, nec pro damno habet actionem. quod si quid absente socio ad laesionem eius fecit, tunc etiam tollere cogitur.
Ciascun condòmino esercita il suo diritto in modo indipendente sempre che si tratti di atti soggetti all’esercizio pro parte[23]. Ed è qui che interviene il concetto di quota che limita i poteri dei singoli condòmini ed esprime come conseguenza naturale la considerazione di un diritto del singolo dominus proporzionato al quantum spettantegli all’atto della divisione.
Ciascuno può esercitare così il suo diritto fatto salvo il limite costituito dal diritto di proprietà degli altri condòmini[24] in modo che la proprietà sul tutto e la limitazione alla quota che determina i limiti dei poteri dei singoli condòmini non sono concetti confliggenti.
La figura del comproprietario quale dominus su tutta la cosa è paragonabile a quella del magistrato collegiale titolare dell’imperium nella sua unità . Il principio è alla base anche dell’organizzazione delle magistrature repubblicane in cui ciascun magistrato esercita l’imperium di cui è titolare fino a quando l’altro collega non attua l’intercessio[25].
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4. L’actio communi dividundo: la sua natura giuridica
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In età giustinianea, tuttavia, la tendenza a sopprimere ogni residuo di difesa privata ha come conseguenza che la prohibitio viene esercitata giudiziariamente con l’actio communi dividundo[26]. La prohibitio produrrà , così, efficacia non in ogni caso né per volontà mera del condominio bensì … si toti societati prodest … come si legge in:
D. 8.2.26 (Paul. 15 ad Sab.) In re communi nemo dominorum iure servitutis neque facere quicquam invito altero potest neque prohibere, quo minus alter faciat: nulli enim res sua servit. Itaque propter immensas contentiones plerumque res ad divisionem pervenit. sed per communi dividundo actionem consequitur socius, quo minus opus fiat aut ut id opus quod fecit tollat, si modo toti societati prodest opus tolli.
A considerare il condòmino quale proprietario di una quota ideale contribuisce così l’affermarsi del principio della maggioranza degli interessi che vincola la minoranza in disaccordo.
La divisione della res communis, dunque, oltre che volontaria in caso di trasferimento reciproco delle singole quote divise assegnate tra di loro dai vari condòmini, può anche essere giudiziaria[27].
Il giudice fraziona la cosa in parti proporzionali alle quote di ciascun socio. Se la res non è divisibile viene venduta ad un terzo e si ripartisce il prezzo oppure si aggiudica ad uno solo dei condòmini, il quale è condannato a pagare agli altri una somma di denaro corrispondente alle loro quote di proprietà .
La divisione romana, che nelle legis actiones si operava con la legis actio per iudicis arbitrive postulationem, ha natura costitutiva e non dichiarativa in quanto con l’adiudicatio il giudice attribuiva la proprietà con nuovo contenuto al non più comunista che acquistava la proprietà sulla porzione materiale aggiudicatagli dal momento della divisione, in assenza di controversia in quanto tutti i condòmini riconoscevano il diritto degli altri sulla cosa comune[28].
L’actio communi dividundo regolava, separatamente dalla divisione, anche i rapporti sorti tra i condòmini, cd. praestationes personales, relativamente a danni subìti e spese sostenute da un condòmino per la cosa comune nonché ai frutti percepiti oltre la quota di ciascuno.
La communio si estende, poi, fino ad indicare la contitolarità di qualsiasi diritto soggettivo diverso dai diritti di credito con la conseguenza che si estende anche l’applicazione dell’actio communi dividundo:
D. 10.3.4pr. (Ulp. 19 ad ed.) Per hoc iudicium corporalium rerum fit divisio, quarum rerum dominium habemus, non etiam hereditatis.
Malgrado l’assenza di una controversia le fonti chiariscono ampiamente i criteri per individuare chi potesse identificarsi come attore:
D. 10.1.10 (Iul. 51 dig.) Iudicium communi dividundo … tale est, ut in eo singulae personae duplex ius habeant agentis et eius quocum agitur.
L’azione di divisione della comunione … è tale che in essa le singole persone che sono parti nel processo hanno un diritto duplice: di colui che agisce e di colui con il quale si agisce. Nei giudizi duplici cioè quelli … di divisione della comunione si pone la questione su chi si ritenga essere l’attore, poiché si considera eguale per tutti la causa per cui si agisce: parve, poi, preferibile che si considerasse attore colui che avesse proposto l’azione[29]:
D. 10.3.2.1 (Gai. 7 ad ed. prov.) In tribus duplicibus iudiciis familiae erciscundae, communi dividundo, finium regundorum, quaeritur, quis actor intellegatur, quia par causa omnium videtur: sed magis placuit eum videri actorem, qui ad iudicium provocasset.
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D. 5.1.13 (Gai. 7 ad ed. prov.) In tribus istis iudiciis familiae erciscundae, communi dividundo et finium regundorum quaeritur quis actor intellegatur, quia par causa omnium videtur. Sed magis placuit eum videri actorem qui ad iudicium provocasset.
Il giudice attribuiva ai comunisti le singole parti della cosa attraverso i conguagli.
A tale azione si ricorre in caso di divisione di qualsiasi diritto spettante pro indiviso ad una pluralità di persone. Nelle fonti si applica, alle servitù, usufrutto e uso[30], enfiteusi e superficie[31], fiducia e pegno[32], possesso[33].
In Inst. 4.6.20 si arriva a generalizzare ed estendere il concetto di communio.
L’azione così acquista carattere misto tanto in rem che in personam e la communio si estende così ai diritti reali limitati e al possesso[34]:
Inst. 4.6.20 Quaedam actiones mixtam causam optinere videntur tam in rem quam in personam. Qualis est familiae erciscundae actio, quae competit coheredibus de dividenda hereditate: item communi dividundo, quae inter eos redditur inter quos aliquid commune ex quacumque causa est, ut id dividatur: item finium regundorum, quae inter eos agitur qui confines agros habent. In quibus tribus iudiciis permittitur iudici rem alicui ex litigatoribus ex bono et aequo adiudicare et, si unius pars praegravari videbitur, eum invicem certa pecunia alteri condemnare.
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5. La formula dell’actio communi dividundo tra bona fides e …
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Per ricostruire la formula dell’actio communi dividundo è necessario analizzare principalmente la clausola aggiudicatoria gaiana contenuta in Institutiones 4.42:
Adiudicatio est ea pars formulae, qua permittitur iudici rem alicui ex litigatoribus adiudicare: velut si inter coheredes familiae erciscundae agatur, aut inter socios communi dividundo, aut inter vicinos finium regundorum. nam illic ita est: quantum adiudicari oportet, iudex Titio adiudicato.
O. Lenel[35] ricostruisce la formula senza la clausola ex fide bona sulla base dei commentari ad edictum di Paolo e Ulpiano e ad edictum provincialem di Gaio:
Quod L. Titius C. Seius (eventualmente: quod L. Titius inter se et C. Seium) postulavit de communi (eorum?) dividundo et si quid in communi damni datum factumve sit, sive quid eo nomine aut absit eorum cui aut ad eorum quem pervenerit, iudicem sibi dari postulaverunt quantum aduidicari oportet, iudex…adiudicatio; quid quid ob eam rem alteruna alteri praestare oportet (ex fide bona?) eius iudex alterum alteri c.s.n.p.a.
Lo stesso O. Gradenwitz[36], considerava interpolato D. 10.3.24pr. (Iul. 8 dig.) in riferimento al carattere di bona fides dell’actio communi dividundo concludendo che la clausola sarebbe stata inserita nelle azioni divisorie[37] in età posteriore a Gaio:
Communis servus si ex re alterius dominorum adquisierit, nihilo minus commune id erit: sed is, ex cuius re adquisitum fuerit, communi dividundo iudicio eam summam percipere potest, quia fidei bonae convenit, ut unusquisque praecipuum habeat, quod ex re eius servus adquisierit.
 e riteneva che solo le praestationes in diritto classico fossero ex fide bona e non anche la divisio[38].
Il carattere di buona fede non trova conferma anche nell’elenco gaiano di bonae fidei iudicia contenuto in Institutiones 4.62 ove le azioni divisorie non sono menzionate:
Sunt autem bonae fidei iudicia haec: ex empto vendito, locato conducto, negotiorum gestorum, mandati, depositi, fiduciae, pro socio, tutelae, rei uxoriae,Â
Così anche in Cicerone De officiis 3.70:
Q. quidem Scaevola, pontifex maximus, summam vim esse dicebat in omnibus iis arbitriis, in quibus adderetur ex fide bona, fideique bonae nomen existimabat manare latissime, idque versari in tutelis, societatibus, fiduciis, mandatis, rebus emptis, venditis, conductis, locatis, quibus vitae societas contineretur; in iis magni esse iudicis statuere, praesertim cum in plerisque essent iudicia contraria, quid quemque cuique praestare oporteret.
… Q. Scevola pontefice massimo, diceva che grandissimo era il valore di quegli arbitrati nei quali si aggiunge la formula in base alla buona fede, e riteneva che il nome della buona fede si estendesse ampiamente e si manifestasse nelle tutele, nelle associazioni, nelle cessioni fiduciarie, nei mandati, nelle compere, nelle vendite, negli appalti, negli affitti, sui quali si fonda la società umana; in tali questioni il compito importante del giudice consiste nello stabilire, soprattutto quando si trovano decisioni contrarie, come nella maggior parte dei casi, che cosa ciascuno debba fornire all’altra parte.
Soltanto se si voglia riconoscere, invece, all’elenco giustinianeo di iudicia bonae fidei un fondamento classico, tale carattere potrebbe essere recuperato:
Inst. 4.6.28. Actionum autem quaedam bonae fidei sunt, quaedam stricti iuris, bonae fidei sunt hae: ex empto, vendito, locato, conducto, negotiorum gestorum, mandati, depositi, pro socio, tutelae, commodati, pigneraticia, familiae erciscundae, communi dividundo, praescriptis verbis quae de aestimato proponitur, et ea quae ex permutatione competit, et hereditatis petitio. …
Certo è che per la loro duttilità gli iudicia bonae fidei furono incrementati in età postclassica[39] e questo potrebbe in qualche modo spiegare una tarda attribuzione del carattere di buona fede anche alle azioni divisorie.
Tuttavia molte sono le argomentazioni che rendono dubbia l’attribuzione del carattere di buona fede all’actio communi dividundo[40].
In primo luogo è da notare in tal senso che i giuristi classici associano alla clausola di buona fede la previsione dell’exceptio pacti che non è, però, compatibile con l’oportere ex fide bona:
D. 10.3.14.3 (Paul. 3 ad Plaut.) Si inter socios convenisset, ne intra certum tempus societas divideretur, quin vendere liceat ei, qui tali conventione tenetur, non est dubium: quare emptor quoque communi dividundo agendo eadem exceptione summovebitur, qua auctor eius summoveretur.
e
D. 17.2.16.1 (Ulp. 30 ad Sab.) Qui igitur paciscitur ne dividat, nisi aliqua iusta ratio intercedat, nec vendere poterit, ne alia ratione efficiat, ut dividatur. sed sane potest dici venditionem quidem non impediri, sed exceptionem adversus emptorem locum habere, si ante dividat, quam divideret is qui vendidit.
In secondo luogo significativo sul tema può essere il confronto tra CI. 3.38.3:
Maioribus etiam, per fraudem vel dolum vel perperam sine iudicio factis divisionibus, solet subveniri, quia in bonae fidei iudiciis et quod inaequaliter factum esse constiterit, in melius reformabitur
e
il testo relativo di Consultatio 2.6:
An divisio, quam iam factam esse proponis, convelli debeat, rector provinciae praesente parte diversa diligenter examinabit: et si fraudibus eam non caruisse perspexerit, quando etiam maioribus in perperam factis divisionibus soleat subveniri, quod improbum atque inaequaliter factum esse constiterit in melius reformabit
in quanto i compilatori riassumono la costituzione dioclezianea, ma non menzionano il carattere di buona fede che evidentemente non c’era nella costituzione genuina.
Si potrebbe, pertanto, ritenere in linea con l’orientamento che non attribuisce natura di buona fede all’actio communi dividundo che i frammenti in cui l’actio communi dividundo è detta di buona fede[41] siano interpolati:
D. 10.3.14.1 (Paul. 3 ad Plaut.) Impendia autem, quae, dum proprium meum fundum existimo, feci, quae scilicet, si vindicaretur fundi pars, per exceptionem doli retinere possem, an etiam, si communi dividundo iudicio mecum agetur, aequitate ipsius iudicii retinere possim, considerandum est. quod quidem magis puto, quia bonae fidei iudicium est communi dividundo: sed hoc ita, si mecum agatur. ceterum si alienavero partem meam, non erit unde retinere possim. …
Se l’actio communi dividundo, inoltre,avesse avuto la natura di buona fede, probabilmente Paolo non avrebbe posto il problema dell’inserimento dell’exceptio doli nella formula, ma avrebbe valutato la possibilità del convenuto di attuare, anche nel caso di actio communi dividundo, la retentio per le spese affrontate solo da parte di colui che credeva essere unico proprietario della cosa. Tali spese non avrebbero potuto trovare riconoscimento in sede di esercizio di azione divisoria, qualora l’attore avesse esercitato la rei vindicatio.
E invece è possibile che Paolopensasse realmente al regime dell’exceptio doli. Ciò in quanto l’etiam si ricollegherebbe così alla precedente ipotesi si vindicaretur fundi pars, per exceptionem doli retinere possem giacchè non è credibile che Paolo decidesse sulla base dell’inerenza dell’exceptio aequitate ipsius iudicii poiché l’etiam non potrebbe collegare due ipotesi in antitesi quali la retentio per mezzo dell’exceptio doli e la deduzione in giudizio per via dell’oportere ex fide bona. Secondariamente anche perchè Paolo parla sempre di retentio e retinere e ciò si giustifica quando la contropretesa si fa valere per mezzo dell’exceptio doli e non per via dell’oportere.
Sempre in tema di interpolazioni altra fonte da valutare in tema di buona fede dell’azione divisoria è il passo ulpianeo contenuto in:
D. 10.3.4.2 (Ulp. 19 ad ed.) Hoc iudicium bonae fidei est: quare si una res indivisa relicta sit, valebit utique et ceterarum divisio et poterit iterum communi dividundo agi de ea quae indivisa mansit.
È possibile[42] che dal passo sia stato estrapolato il riferimento alla rescissio iudicii sostituendolo con l’attribuzione all’azione divisoria del carattere di buona fede, prendendo spunto da D. 10.2.20.4 (Ulp. 19 ad ed.) Familiae erciscundae iudicium amplius quam semel agi non potes nisi causa cognita: quod si quaedam res indivisae relictae sunt, communi dividundo de his agi potest in cui Ulpiano, per ammettere la rinnovazione del giudizio, ricorreva al rimedio della rescissione del precedente.
Si può, tuttavia, obiettare[43] che nel passo la possibilità di esercitare nuovamente l’actio communi dividundo non poteva dipendere dal carattere di buona fede dell’azione.
Ciò sarebbe confermato da Gaio 4.131a:
Item si verbi gratia ex empto agamus, ut nobis fundus mancipio detur, debemus hoc modo praescribere: ea res agatur de fundo mancipando, ut postea, si velimus vacuam possessionem nobis tradi, … re sumus, totius illius iuris obligatio illa incerta actione: quidquid ob eam rem Numerium Negidium Aulo Agerio dare facere oportet, per intentionem consumitur, ut postea nobis agere volentibus de vacua possessione tradenda nulla supersit actio.
Se si fosse voluta esercitare l’actio empti solo per la mancipatio del fondo acquistato, sarebbe stato necessario anteporre alla formula una praescriptio con cui limitare la pretesa dell’attore in giudizio per evitare che non si potesse far valere successivamente più alcuna azione per la traditio vacuae possessionis.
Secondo Gaio non c’è relazione tra buona fede di un’azione e consumazione processuale[44] in quanto era la sussistenza o meno dell’eadem res con la prima azione a rendere non esercitabile la seconda.
In ultimo va analizzato anche il seguente passo:
D. 41.1.45 (Gai 7 ad ed. prov.) Communis servus si ex re alterius dominorum adquisierit, nihilo minus communi id erit, sed is, ex cuius re adquisitum fuerit, communi dividundo iudicio eam summam praecipere potest: nam fidei bonae convenit, ut unusquisque praecipuum habeat, quod ex re eius servus adquisierit. sed si aliunde servus communis adquisierit, omnibus sociis pro parte dominii hoc adquiritur.
Parte della dottrina considera il frammento interpolato dall’espressione nam in poi, in quanto superfluo e ripetitivo secondo alcuni[45] e contradditorio secondo altri[46].
Per comprendere il frammento occorre ricordare che gli acquisti ex re communi diventavano comuni e, al momento della divisione, venivano divisi fra i comunisti proporzionalmente alla loro quota[47]. Se, però, l’acquisto derivava da spese sostenute da uno dei condòmini, questi ne aveva il rimborso proporzionalmente alla sua quota in quanto vi era il principio che nell’actio communi dividundo veniva in giudizio quid eo nomine abest alicui sociorum[48].
Ciò era confermato quando l’acquisto era fatto dal servus communis ex re di uno dei condòmini (l’acquisto diventava comune e in proporzione delle rispettive quote), con la particolarità che il comunista ex cuius re l’acquisto era avvenuto, poteva avvalersi dell’actio communi dividundo per avere una compensazione per la perdita subita per l’acquisto ex re sua e in proporzione della sua quota.
Ciò è confermato da:
D. 45.3.28.1 (Gai 3 de verb. obl.) Si servus communis ex re unius stipulatus erit, magis placuit utrique adquiri, sed eum, cuius ex re facta est stipulatio, cum socio communi dividundo aut societatis iudicium de parte reciperanda recte acturum: idemque esse dicendum et si ex operis suis alteri ex dominis servus adquirit.
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D. 45.3.27 (Paul. 2 man.) Servus communis sive emat sive stipuletur, quamvis pecunia ex peculio detur, quod alterum ex dominis sequitur, utrique tamen adquirit. diversa causa est fructuarii servi.
In D. 41.1.45 (Gai. 7 ad ed. prov.) si può notare[49], invece, che Gaio esprime un concetto opposto individuando nella buona fede il carattere precipuo del rapporto: fidei bonae convenit ut unusquisque praecipuum habeat, quod ex re eius servus adquisierit. Ciò comportava, come espresso da praecipuum, che il socio otteneva per intero quanto era stato acquistato ex re sua dallo schiavo.Â
Evidente sarebbe la contraddizione: da un lato Gaio affermava che l’acquisto produceva effetti a favore di tutti i condòmini in proporzione della loro quota e dall’altro, poi, avrebbe affermato che l’acquisto operava solo a favore del socio ex cuius re è avvenuto. Si è giustamente affermato che l’uno escludeva l’altro perché se il socio acquistava tutto era impossibile attribuirgli la facoltà di ottenere dal condòmino parte di ciò che ei abest[50].
Questa contraddizione si riscontra nello stesso D. 41.1.45 in cui prima si dichiarava che nihilo minus communi id erit, sed is, ex cuius re adquisitum fuerit, communi dividundo iudicio eam summam praecipere potest e poi subito dopo nam fidei bonae convenit ut unusquisque praecipuum habeat, quod ex re eius servus adquisierit
A questo punto si può proporre una versione di D. 41.1.45 (Gai. 7 ad ed. prov.) libera dalle interpolazioni sulla base di quanto emerso da D. 45.3.28.1 (Gai. 3 de verb. oblig.):
Communis servus si ex re alterius dominorum adquisierit, nihilo minus communi id erit, sed is, ex cuius re adquisitum fuerit, communi dividundo iudicio eam summam praecipere potest: nam fidei bonae convenit, ut unusquisque praecipuum habeat, quod ex re eius servus adquisierit. Sed si aliunde servus communis adquisierit, omnibus sociis pro parte dominii hoc adquiriturâ€.
Tuttavia parte della dottrina[51] ritiene D. 41.1.45 (Gai 7 ad ed. prov.) genuino in considerazione del contenuto di D. 10.3.24pr. (Iul. 8 dig.) considerando impossibile[52] che “i compilatori avessero operato una modificazione letteralmente identica in due testi che, ricavati da giuristi diversi, si trovano nella compilazione a grande distanza ed appartengono per giunta a due masse differentiâ€.
Altra parte della dottrina, invece, obietta[53] che nella generale incertezza sul metodo di interpolazione utilizzato dai compilatori, non si può escludere una tale revisione identica in passi appartenenti a masse diverse anche in considerazione del fatto che probabilmente esistevaun’unica commissione ad hoc alla quale sarebbero da attribuirsi tutte le interpolazioni[54].
Potrebbe essersi verificato che Gaio spesso riportava fedelmente passi di Giuliano e poiché nel nostro caso copiava ad literam doveva evidentemente citare la fonte cui attingeva.
Può essere accaduto che i compilatori quando riscontravano citazioni confrontavano il testo con quello originale citato per eliminarne uno dei due al fine di evitare le non volute ripetizioni.
A volte, però, i due passi erano mantenuti qualora ci fosse necessità di richiamare lo stesso principio a proposito di materie diverse, tanto più se si trattava di principio nuovamente introdotto nella codificazione; ma in tal caso i compilatori collazionando i testi, cancellavano spesso il nome del giurista citato[55], ma soprattutto dovevano evidentemente trasportare nell’originale tutte quelle modificazioni operate nella citazione[56].
In definitiva le riflessioni proposte possono far ritenere che la clausola ex fide bona non caratterizzasse la formula dell’actio communi dividundo.
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6. … societas
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Altro aspetto discusso dalla dottrina sul quale occorre soffermarsi è il rapporto tra communio e societas e la conseguente esperibilità dell’actio pro socio visto che tra communio e societas si è spesso percepito una unità sostanziale che si rifletterebbe nell’applicazione delle stesse actiones[57].
In molte fonti l’uso delle parole societas e communio è, infatti, evidentemente promiscuo[58].
Parte della dottrina ritiene che in età classica, antecedentemente alla creazione della communio incidens[59]potrebbero configurarsi due species di societas: la societas consensu contracta[60]intesa quale società obbligatoria e la societas re contracta intesa quale società nascente inevitabilmente dalla communio tra più soggetti[61]. Ciò sarebbe avvalorato, tra l’altro, dall’applicazione del termine socius al concetto di comunista.
Contrariamente a tale orientamento che considera la communio una sottospecie della societas, si ritiene che debba rilevare, invece, non solo la circostanza che la communio poteva derivare anche da cause diverse dall’accordo tra i comunisti, ma anche il fatto che i comunisti potevano anche non accordarsi tra loro relativamente alla gestione della communio[62].
Dell’esperibilità dell’actio pro socio nella communio vi è traccia nei casi in:
D. 10.3.19.2 (Paul. 6 Sab.) Si per eundem locum via nobis debeatur et in eam impensa facta sit, durius ait Pomponius communi dividundo vel pro socio agi posse: quae enim communio iuris separatim intellegi potest? sed negotiorum gestorum agendum.
Se ci sia dovuta una servitù di via attraverso uno stesso luogo e si siano fatte delle spese per essa, con troppo rigore Pomponio afferma che si può agire con l’azione di divisione della comunione o con l’azione a favore del socio: infatti, in che modo si potrebbe intendere la comunione di un diritto
e in:
D. 10.3.25 (Iul. 12 dig.) Si Stichus communis meus et tuus servus habuerit Pamphilum vicarium aureorum decem et mecum actum de peculio fuerit condemnatusque decem praestitero: quamvis postea Pamphilus decesserit, nihilo minus, actione communi dividundo vel pro socio quinque milia praestare debebis, quia te hoc aere alieno liberavi. longe magis consequar, si Stichus post mortem Pamphili alium vicarium adquisierat.
Se Stico, servo comune a me e a te, avrà avuto come servo vicario Panfilo, del valore di dieci aurei, e si sarà agito contro di me con l’azione nei limiti del peculio ed io, dopo essere stato condannato, avrò pagato dieci, anche se poi Panfilo morirà , nondimeno dovrai pagarmi cinque in forza dell’azione di divisione della comunione o di quella in favore del socio, poiché io ti ho liberato da quel debito. Tanto più otterrò
Sul diverso ambito delle due azioni ci riferisce:
D. 10.3.1 (Paul. 23 ed.) Communi dividundo iudicium ideo necessarium fuit, quod pro socio actio magis ad personales invicem praestationes pertinet quam ad communium rerum divisionem. denique cessat communi dividundo iudicium, si res communis non sit.
in cui si afferma che l’actio pro socio riguarda le prestazioni personali piuttosto che la communio[65].
Nelle fonti[66] ci sarebbe la testimonianza di una societas re coita[67]accanto alla societas consensu coita[68].
Ma in Basilici 12.1.6.50 appare confermata la convinzione che la società non sorge che dal consenso: quindi perché fra coeredi sorga questo vincolo non basta il rapporto del condominio ma deve intervenire l’elemento volitivo dei coeredi.
Pertanto secondo il diritto classico il consortium ercto non cito era un tipo di società contrattuale e si differenziava dalla società consensuale appunto perché in essa l’obbligazione non scaturiva dal consenso.
Se si afferma che fin dagli inizi della giurisprudenza romana troviamo vicini i due tipi di società reale e consensuale, tale circostanza se conferma che gli istituti erano per il diritto classico dei contratti, non autorizza però a ritenere che dal consortium e dalla societas re coita sia nata la societas consensu coita.
A tale ipotesi contrasta non solo il fatto che la società reale derivava dallo ius civile e quella consensuale dallo ius gentium,ma anche che la struttura dei due istituti era profondamente diversa.
Consortium e societas re coita, infatti,sono istituti caratterizzati dalla esistenza tra più persone (eredi, donatari, compratori, legatari) di una cosa comune.
Tutte le possibili pretese fra i soci devono fondarsi su un guadagno o su una perdita relativi alla cosa comune e solo entro i limiti di tempo in cui rimane la cosa tale: è la cosa comune che ne determina il sorgere e l’estinguersi.
La societas consensu coita, invece,non implica affatto l’esistenza fra i soci di una cosa comune. Il consenso, elemento psicologico, ne determina il sorgere e l’estinguersi. Ed essa non è rivolta allo sfruttamento di una cosa comune ma alla esplicazione collettiva o individuale, nell’interesse dei soci, di una attività commerciale.
La struttura dei due tipi di società del diritto romano classico appare così profondamente diversa.
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* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
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[1] B. Biondi, Comunione. Diritto romano (voce), in Novissimo Digesto Italiano,vol. III, Torino 1959, pp. 855 ss.; A. Biscardi, La genesi della nozione di comproprietà , in Labeo,1 (1955), pp. 154 ss.
[2] v. V. Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano,7a ed., Napoli 1957, p. 33.
[3] Cfr. U. Vincenti, Esclusione o inclusione? Riflessioni a partire dagli agri divisi vel adsignati,in AA.VV., Sistemi centuriati e opere di assetto agrario tra età romana e primo medioevo. Atti del Convegno - Borgoricco (Padova), Lugo (Ravenna), 10-12 settembre 2009, in Agri centuriati. An International Journal of Landscape Archaeology,6 (2009), pp. 253 ss.
[4] v. D. Mantovani, L’occupazione dell’ager publicus e le sue regole prima del 367 a.C.,in Athenaeum,85 (1997), pp. 575 ss.; A. Burdese, Studi sull’ager publicus,Torino 1952, pp. 10 ss.; F. Bozza, La possessio dell’ager publicus,Napoli 1938, pp. 20 ss.
[5] Cfr. A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano,3a ed., Napoli 1959, p. 72, pp. 282 ss.; P. Bonfante, Corso di diritto romano,Roma 1925, pp. 6 ss.
[6] v. M.Bretone, Consortium e communio,in Labeo,6 (1960), pp. 163 ss.; M. Kaser, La famiglia romana arcaica,in Annali Triestini,20 (1952), pp. 43 ss.; Id., Das altrömische ius, Göttingen 1950, pp. 159 ss.; F. Wieacker, Hausgenossenschaft und Erbeinsetzung. Über die Anfänge des römischen Testaments,inAA.VV., Festschrift H. Sieber, vol. I, Leipzig 1941, pp. 1 ss.; Id., Societas, Hausgemeinschaft und Erwerbsgesellschaft des römischen Rechts, Weimar 1936, pp. 113 ss.
[7] Cfr. M. Evangelisti, Consortium, erctum citum: etimi antichi e riflessioni sulla comproprietà arcaica, in Diritto@Storia. Rivista internazionale di Scienze giuridiche e tradizione romana. Rivista telematica (dirittoestoria.it), 6 (2007); A. Torrent, Consortium ercto non cito, in Anuario de historia del derecho español,3 (1964), pp. 497 ss.; M. Bretone, Consortium e communio,cit., pp. 163 ss.
[8] v. F. Lamberti, La famiglia romana e i suoi volti. Pagine scelte su diritto e persone in Roma antica, Torino 2014, p. 39.
[9] Cfr. P. Frezza, Il consortium ercto non cito e i nuovi frammenti di Gaio,in Rivista di Filologia e Istruzione Classica,62 (1934), pp. 27 ss.
[10] Cfr. S. Riccobono, Dalla communio del diritto quiritario alla comproprietà moderna, in Essays in Legal History,(1913), pp. 33 ss. Il Codice Civile disciplina la comunione nel libro III titolo VII artt. 1100-1139.
[11] Cfr. M. Kaser, Das römische Privatrecht, 2a Aufl., vol.I,München 1971, pp. 100 ss.; J. Gaudemet, Ètude sur le régime de l’indivision en droit romain, Paris 1934, pp. 10 ss.; G. Branca, Il regime degli atti di disposizione materiale nel condominio romano classico,in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche,n.s. a. 6, fasc. 2/3, (1931), pp. 215 ss. e n.s. a. 7, fasc. 2, (1932), pp. 27 ss.; V. Scialoja, Teoria della proprietà in diritto romano, vol.I, Roma 1928, pp. 425 ss.; K. Engländer, Die regelmässige Rechtsgemeinschaft, vol.I, Berlino 1914; P. Bonfante, Il regime positivo e le costruzioni teoriche nel condominio, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano,25 (1912), pp. 196 ss. e in Scritti giuridici varii, vol.III, Torino 1926, pp. 454 ss.; C. Fadda, Consortium, collegia magistratuum, communio,in AA. VV., Studi per B. Brugi,Palermo, 1910, pp. 139 ss.; C. Manenti, Concetto della communio relativamente alle cose private, alle pubbliche e alle communes omnium, in Filangieri,19 (1894), pp. 321 ss.; S. Perozzi, Un paragone in tema di comproprietà ,in Mélanges Girard,vol. II,Paris 1912, pp. 355 ss.; Id., Saggio critico sulla teoria della comproprietà ,in Filangieri,15 (1890), pp. 1 ss.; G. Segrè, Sulla natura della comproprietà in diritto romano,in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche, 6 (1888), p. 353; 8 (1889), pp. 145 ss.
[12] D. 49.17.19.3 (Tryph. 18 disp.) … occurrebat enim non posse dominium apud duos pro solido fuisse.
[13] Inoltre trattandosi di veicolo comodato o locato non si potrebbe utilizzarlo che in modo parziale non potendosi occupare tutte le parti del veicolo. Ma è più vero, si afferma, che per il tutto si debba rispondere per il dolo, la colpa, la mancata diligenza e la mancata custodia. Per cui si avranno in certo modo due condebitori ‘solidali’ e, se uno di essi, convenuto in giudizio avrà adempiuto, libererà l’altro, mentre compete ad entrambi l’azione di furto …. così che agendo uno dei due si estingue l’azione dell’altro contro il ladro.
[14] Cfr. S. Pugliatti, La proprietà nel nuovo diritto, Milano 1954, pp. 157 ss.
[15] Cfr. P. Bonfante, Premesse critiche sull’ordinamento positivo del condominio,in Scritti giuridici varii, vol. III, Torino 1926, pp. 376 ss.
[16] Cfr. M. Evangelisti, Riflessioni sulla natura e l’evoluzione del ius prohibendi, in Koinonia, 41 (2017), pp. 423 ss.; A. Bignardi, De suo iure agere oportet. Contributo allo studio di una “regula iurisâ€, Milano 1992, pp. 36 ss.
[17] Tit. Ulp. 1.18. Communem servum unus ex dominis manumittendo partem suam amittit, eaque adcrescit socio, maxime si eo modo manumiserit, quo, si proprium haberet, civem Romanum facturus esset. Nam si inter amicos eum manumiserit, plerisque placet eum nihil egisse; PS.4.12.1. Servum communem unus ex dominis manumittendo Latinum facere non potest nec magis quam civem Romanum: cuius portio eo casu, quo, si proprius esset, ad civitatem Romanam perveniret, socio adcrescit. Cfr. M. Bretone, Servus communis: contributo alla storia della comproprietà romana in età classica, Napoli 1958, 30 ss.; C.A. Maschi, Sull’origine del regime giustinianeo della ‘manumissio’ del servo comune, in AA. VV., Studi in memoria di A. Albertoni, vol. II, Padova 1937, pp. 421 ss.
[18] Dubbi sulla operatività dello ius adcrescendi esprime M. Evangelisti, Riflessioni in tema di ius adcrescendi (tra communio e coeredità ), in Diritto@Storia. Rivista internazionale di Scienze giuridiche e tradizione romana. Rivista telematica (dirittoestoria.it), 10 (2011-12). Si veda ivi ampia letteratura sulla interpretazione della “controversa†fonte in materia di accrescimento: D. 41.7.3 (Mod. 6 diff.). An pars pro derelicto haberi possit, quaeri si in re communi socius partem suam reliquerit. Eius esse desinit, ut hoc sit in parte, quod in toto: atquin totius rei dominus efficere non potest, ut partem retineat, partem pro derelicto habeat.
[19] D. 45.3.1.4 (Iul. 52 dig.). Communis servus duorum servorum personam sustinet. Idcirco si proprius meus servus communi meo et tuo servo stipulatus fuerit, idem iuris erit in hac una conceptione verborum, quod futurum esset, si separatim duae stipulationes conceptae fuissent, altera in personam mei servi, altera in personam tui servi: neque existimare debemus partem dimidiam tantum mihi adquiri, partem nullius esse momenti, quia persona servi communis eius condicionis est, ut in eo, quod alter ex dominis potest adquirere, alter non potest, perinde habeatur, ac si eius solius esset, cui adquirendi facultatem habeat.
[20] Cfr. P. Bonfante, Il ius adcrescendi nel condominio, in Rendiconti dell’Istituto Lombardo,46 (1913), pp. 831 ss. e in Scritti giuridici varii, vol. III, Torino 1926, pp. 434 ss.
[21] D. 8.3.32 (Afr. 6 quaest.) Fundus mihi tecum communis est: partem tuam mihi tradidisti et ad eundem viam per vicinum tuum proprium. Recte eo modo servitutem constitutam ait, neque quod dici soleat per partes nec adquiri nec imponi servitutes posse isto casu locum habere: hic enim non per partem servitutem adquiri, utpote cum in id tempus adquiratur, quo proprius meus fundus futurus sit.
[22] La prohibitio lasciava posto al consenso di tutti i condòmini, nel caso di alienazione o costituzione di diritti riguardanti tutta la cosa comune. Cfr. P. Bonfante, Il ius prohibendi nel condominio,in Rendiconti dell’Istituto Lombardo 46 (1913), pp. 665 ss. e in Scritti giuridici varii, vol.III, Torino 1926, pp. 382 ss.
[23] Tra i condòmini, inoltre, sono esperibili le tipiche azioni a difesa del dominio: la rei vindicatio, l’actio publiciana, la conditio furtiva nonché le azioni penali spettanti al dominus. Cfr. B. Biondi, L’elenco classico dei ‘iudicia bonae fidei’I, in Annali dell’Università di Palermo, 7 (1918), pp. 176 ss.; E. Ein, Le azioni dei condomini,in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano,39 (1931), pp. 73 ss.
[24] A. Guarino, Comunione. Diritto romano, in Enciclopedia del diritto,vol. VIII, Milano 1961, pp. 232 ss.; G.G. Archi, La funzione del rapporto obbligatorio solidale, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 8 (1942), pp. 197 ss. In particolare B. Biondi, Comunione. Diritto romano (voce),cit., pp. 855 ss. osserva che in tal senso la communio può essere rapportata all’obbligazione solidale attiva: obbligazione e prestazione sono uniche per cui ciascun creditore è titolare dell’intero credito sulla base della reciproca limitazione dovuta al fatto che lo stesso diritto spetta a più persone.
[25] v. C. Fadda, Consortium, collegia magistratuum, communio,cit., pp. 139 ss.; S. Perozzi, Un paragone in tema di comproprietà ,cit., pp. 331 ss.; P. Frezza, L’istituzione della collegialità in diritto romano, in AA.VV., Studi in onore di S. Solazzi, Napoli 1948, pp. 507 ss.
[26] E. Albertario, Lo svolgimento storico dell’actio communi dividundo in rapporto alla legittimazione processuale, in Studi di diritto romano, vol. IV, Milano 1993; V. Arangio-Ruiz, Appunti sui giudizi divisori, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche, 52 (1912), p. 226.
[27] Cfr. M. Marrone, Manuale di diritto privato romano, Torino 2004, p. 866.
[28] Cfr. P. Frezza, Actio communi dividundo, in Scritti, vol.I, Roma 2000, pp. 29 ss.; O. Geib, Die rechtliche Natur der actio communi dividundo, Tübingen 1882, pp. 3 ss.
[29] Cfr. B. Biondi, La legittimazione processuale nelle azioni divisorie, Perugia 1913, pp. 25 ss.
[30] D. 7.1.13.3 (Ulp. 18 ad Sab.); D. 10.3.10.1 (Paul. 23 ad ed.); D. 10.3.19.4 (Paul. 6 ad Sab.); D. 43.20.4 (Iul. 41 dig.); D. 45.3.32 (Paul. 9 ad Plaut.).
[31] D. 10.3.7pr. (Ulp. 20 ad ed.); D. 43.18.1.8 (Ulp. 70 ad ed.).
[32] D. 10.3.7.6 (Ulp. 20 ad ed.); D. 10.3.7.13 (Ulp. 20 ad ed.); CI. 3.37.
[33] D. 7.1.13.3 (Ulp. 18 ad Sab.); D. 10.3.5 (Iul. 2 ad Urseium Ferocem); D. 10.3.7.2 (Ulp. 20 ad ed.); D. 10.3.7.2-4 (Ulp. 20 ad ed.); D. 10.3.7.6 (Ulp. 20 ad ed.); D. 10.3.7.8 (Ulp. 20 ad ed.); D. 10.3.10.1 (Paul. 23 ad ed.); D. 10.3.19.4 (Paul. 6 ad Sab.); D. 39.2.15.19 (Ulp. 53 ad ed.); D. 43.18.1.8 (Ulp. 70 ad ed.); D. 43.20.4 (Iul. 41 dig.); D. 45.3.32 (Paul. 9 ad Plaut.).
[34] Sullo sviluppo storico circa sia l’autonomia delle praestationes che la estensione dell’azione vedi: A. Berger, Societas re contracta e communio incidens, in AA. VV., Studi in onore di Riccobono,1934, pp. 392 ss.; P. Frezza, Consortium ercto non cito,cit., pp. 27 ss.; S. Riccobono, Dal diritto romano classico al diritto moderno. A proposito del fr. 14 D. X, 3 Paulus III ‘ad Plautum’, in Annali dell’Università di Palermo, vol. III-IV, 1917, pp. 208 ss.; A. Berger, Zur Entwicklungsgeschichte der Teilungsklagen im klassischen römischen Recht, Weimar 1912, pp. 167 ss.
[35] O. Lenel, Das Edictum perpetuum, 3a  Aufl., Leipzig 1985, pp. 209 ss.
[36] O. Gradenwitz, Interpolationen in den Pandekten, Berlin 1887, p. 108 n. 1.
[37] v. M. Salazar Revuelta, Análisis de la copropriedad romana a través de las acciones divisorias, in AA. VV. Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato. Obbligazioni e diritti reali, Napoli 2003, p. 310 nt. 11.
[38] Cfr. A. Audibert, Nouvelle Étude sur la formule des actions ‘familiae erciscundae et communi dividundo’, in Nouvelle Révue historique de droit français et étranger 28 (1904), pp. 407 ss.; Id., L’évolution de la formule des actions ‘familiae erciscundae et communi dividundo’, Paris 1903, pp. 35 ss.
[39] V. L. Lombardi, L’actio aestimatoria e i bonae fidei iudicia, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 63 (1960), pp. 129 ss.
[40] T. Tramontano, L’adiudicatio del communi dividundo iudicium e i titolari di diritti reali limitati. Tesi di dottorato, Padova 2015, pp. 5 ss.
[41] B. Biondi, L’elenco classico dei ‘iudicia bonae fidei’, cit., pp. 176 ss.
[42] B. Biondi, L’elenco classico dei ‘iudicia bonae fidei’,cit., p. 223.
[43] A. Audibert, Nouvelle Étude sur la formule des actions ‘familiae erciscundae et communi dividundo’,cit., p. 408.
[44] Secondo B. Biondi, L’elenco classico dei ‘iudicia bonae fidei’,cit., p. 223 tutt’al più il carattere di buona fede poteva rendere superfluo l’inserimento dell’exceptio rei iudicatae nella formula in virtù del principio bona fides non patitur, ut bis idem exigatur: D. 50.17.57 (Gai. 18 ad ed. prov.).
[45] O. Gradenwitz, Interpolationen in den Pandekten,cit., p. 108 n. 1.
[46] A. Audibert, Nouvelle Étude sur la formule des actions ‘familiae erciscundae et communi dividundo’,cit., p. 427.
[47] D. 10.2.19 (Gai. 7 ad ed. prov.); D. 10.3.3pr. (Ulp. 30 ad Sab.).
[48] D. 10.3.3pr. (Ulp. 30 ad Sab.), D. 10.3.6.2 (Ulp. 19 ad ed.).
[49] B. Biondi, L’elenco classico dei ‘iudicia bonae fidei’,cit., p. 225; A. Berger, Zur Entwicklungsgeschichte der Teilungsklagen im klassischen römischen Recht,cit., p. 183.
[50] B. Biondi, L’elenco classico dei ‘iudicia bonae fidei’,cit., p. 226.
[51] O. Lenel, Da Edictum perpetuum,cit., p. 203 n. 1.
[52] A. Berger, Zur Entwicklungsgeschichte der Teilungsklagen im klassischen römischen Recht,cit., p. 181 ss.
[53] B. Biondi, L’elenco classico dei ‘iudicia bonae fidei’,cit., p. 220.
[54] V. S. Riccobono, Dal diritto romano classico al diritto moderno. A proposito del fr. 14 D. X, 3 Paulus III ‘ad Plautum’,cit., p. 208.
[55] V. P. De Francisci, Intorno alle origini della manumissio in ecclesia,in Rendiconti dell’Istituto Lombardo,44 (1911), p. 192 s.
[56] B. Biondi, L’elenco classico dei ‘iudicia bonae fidei’,cit., p. 228. Esempi di interpolazioni identiche in testi uguali: D. 8.2.10 (Marc. 4 dig.) e D. 7.1.30 (Paul. 3 ad Sab.), D. 39.6.13.1 (Iul. 17 dig.) e D. 39.6.35.4 (Paul. 6 ad leg. Iul.).
[57] V. T. Drosdowski, Das Verhältnis von actio pro socio und actio communi dividundo im klassichen römischen Recht,Berlino 1998, 1 ss.; C. Ferrini, Le origini del contratto di società in Roma,in Archivio Giuridico,38 (1887), p. 5.
[58] CI. 3.37.3, D. 10.2.3.39 (Scaev. 1 resp.), D. 17.2.1 (Paul. 32 ad ed.), D. 17.2.52 (Ulp. 31 ad ed.); D. 17.2.53 (Ulp. 30 ad Sab.), D. 17.2.63 (Ulp. 31 ad ed.), D. 17.2.67 (Paul. 32 ad ed.),. Cfr. P. Bonfante, Rapporto tra la comunione e la società ,in Scritti giuridici varii, vol. III, Torino 1926, pp. 511 ss.
[59] Per questo motivo Giustiniano annovera la communio incidens tra le fonti di obbligazioni da atto lecito non contrattuale: G. Donatuti, La communio incidens come causa obbligatoria,in AA. VV., Studi in mem
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