Una nuova epifania di bellezza: inedite piste di riflessione per una più feconda alleanza tra beni culturali ecclesiali e scienza informatica
Ilaria Samorè*
Una nuova epifania di bellezza: inedite piste di riflessione per una più feconda alleanza tra beni culturali ecclesiali e scienza informatica**
English title: A new epiphany of beauty: original paths of reflection for a more fruitful alliance between ecclesial cultural heritage and computer science
DOI: 10.26350/18277942_000093
Sommario: 1. Luce sullo statuto epistemologico dei beni culturali ecclesiali e sui loro liens étroits con il turismo culturale di interesse religioso: riflessioni introduttive. ˗ 2. Un passaggio a volo d’uccello: i tre piani della disciplina giuridica dei beni culturali ecclesiali. ˗ 3. Scorci sui beni archivistici e librari… ˗ 4. …i sentieri della loro digitalizzazione. ˗ 5. Musei ecclesiastici… ˗ 6 …e digitale: alcune piste di indagine per una valorizzazione potenziata e amplificata. ˗ 7. Pillole di informatica per una fruizione eco-friendly dei beni culturali ecclesiali: spunti di prospettiva e postille conclusive.
- Luce sullo statuto epistemologico dei beni culturali ecclesiali e sui loro liens étroits con il turismo culturale di interesse religioso: riflessioni introduttive
Nel tempo della relazionalità sospesa, del delirio di immobilità e della desertificazione degli spazi causati dalla pandemia, i fedeli hanno trovato nella tecnologia[1] non solo un supporto per conservare il senso della comunità ˗ si pensi alle celebrazioni liturgiche in streaming e alle app per pregare[2] ˗ ma anche un mezzo per tentare di colmare quella distanza siderale creatasi tra loro e i beni culturali ecclesiali[3]. Il divenire tecnico ha dunque suggerito “una nuova immaginazione del possibile”[4], un ripensamento delle tradizionali modalità di conservazione e fruizione del patrimonio ecclesiastico, individuando nella diade innovazione-sostenibilità le rinnovate linee di intervento e di azione per l’elaborazione di programmi di valorizzazione del turismo religioso[5].
Facendo precipuo riferimento ai beni culturali afferenti alla Chiesa cattolica, il presente contributo prenderà le mosse da una disamina del loro statuto epistemologico e dei loro liens étroits con il turismo culturale di interesse religioso ˗ nel prisma di un intreccio tra uomo, cultura e culto ˗ delucidando, sia pur fugacemente, il regime giuridico riservato a tali beni. Sotto questo profilo, si porrà l’accento su quell’opera di fine intarsio normativo che salda gli interventi di diritto canonico universale e particolare italiano con le fonti unilaterali e pattizie. Successivamente, dopo aver abbozzato una riflessione sul ruolo degli archivi e delle biblioteche di cui la Chiesa è custode, si compirà un’esplorazione che si dimostrerà suggestiva lungo i sentieri della loro digitalizzazione per poi mettere in rilievo la trasposizione sul web dei musei ecclesiastici. Relativamente a questi ultimi, muovendo dal quadro critico determinato dall’esperienza pandemica, si proveranno a dischiudere ˗ nel segno di una più feconda alleanza tra scienza informatica e patrimonio culturale di interesse religioso ˗ nuove piste di ricerca onde evidenziare gli effetti fruttuosi che specifici strumenti digitali potrebbero avere sui predetti istituti culturali. Si concluderà con alcuni stimoli provenienti dal settore informatico, tentando di intravedere come l’applicazione di particolari soluzioni tecnologiche, nella traduzione in bit di un bene culturale ecclesiale, potrebbe contribuire a una transizione verso modelli di piena sostenibilità, cementando quel nesso oramai indissolubile tra magistero della Chiesa cattolica e “cura della casa comune”[6].
Al fine di scongiurare la tendenza a stabilire categorie monodimensionali e impermeabili alle contaminazioni dell’esperienza, è prima di tutto necessario chiarire il significato di turismo religioso giacché l’aggettivo, se correttamente vagliato, “non sempre presuppone una motivazione strettamente fideistica”[7]. Difatti, la religiosità può incidere sul fenomeno turistico anche per aspetti che prescindono da finalità puramente cultuali: un turista che visita un luogo sacro non è necessariamente un pellegrino, così come un pellegrino non necessariamente si sofferma solo sulle sfumature spirituali del viaggio[8]. Per questo motivo, si tendono a prediligere i sintagmi ‘turismo culturale di interesse religioso’ o ‘turismo culturale e religioso’, nozioni onnicomprensive secondo le quali è da ritenersi religiosa ogni manifestazione di turismo che risulta influenzata da tale aspetto o per le sue forme organizzative (la natura degli enti e delle strutture che lo gestiscono) o per i suoi contenuti (la natura dei luoghi-meta del viaggio), oltre che per le motivazioni[9].
Da par suo la Chiesa cattolica, nella messa a punto di una pastorale del turismo tesa alla cura animarum dei turisti[10], rectius degli “araldi itineranti di Cristo”[11], per rievocare una vibrante espressione conciliare, non si è limitata al semplice riconoscimento del valore spirituale della mobilità umana di massa, ma ha colto altresì l’importanza viepiù crescente dell’elemento culturale[12]. È stata la Pontificia Commissione per la pastorale delle migrazioni e del turismo la prima a cogliere ˗ nel documento Chiesa e mobilità umana[13] del 26 maggio 1978 ˗ le molteplici ‘anime’ del fenomeno turistico, fenomeno che abbraccia non soltanto “l’interpretazione di razze, civilizzazioni” ma anche “culture e ideologie”[14].
Tenendo in mano il filo di questo documento e nella volontà di riscattare il turismo da logiche alienanti e consumistiche, Giovanni Paolo II ne mette a fuoco lo spessore culturale[15], specchio fedele di un’“esperienza della diversità”[16] che trova il proprio baricentro geometrico nell’uomo e nella sua cultura[17]. In armonia con gli insegnamenti conciliari[18], il Pontefice ha il merito di sottrarre all’oblio il legame inscindibile tra uomo e cultura, intravedendo in quest’ultima “quel tutto organico”[19] ˗ di valori, principi, azioni, modelli di comportamento, simboli ˗ che dà significato all’esistenza della persona poiché “fuori dalla cultura nessun uomo è veramente uomo e nessun individuo può essere veramente individuo, libero, creativo, responsabile e consapevole del mondo in cui vive”[20]. La cultura è dunque la nota dominante della vita umana e l’uomo, agli occhi del Santo Padre, è heideggerianemente considerato “l’unico soggetto ontico della cultura […] il suo unico oggetto e il suo termine”[21]: essa, detto altrimenti, determina “il carattere inter-umano e sociale dell’esistenza”[22].
Non è inoltre facilmente eludibile il rapporto culto-cultura, già icasticamente suggerito dalla comunanza dell’etimo[23], dal momento che il culto, sul piano della ritualizzazione simbolica, condensa in sé l’essenza e il cuore di una cultura umana[24]. Invero nel culto ˗ inteso come relazione con il sacro e quindi in un’accezione sostanzialmente equivalente a quella di religione ˗ la pienezza dell’oggettivizzazione umana e dei suoi significati trova la sua massima realizzazione nella “forma di una fondazione e legittimazione ultima, cioè divina e trascendente”[25].
Il culto garantisce ordine, coerenza, stabilità e riconoscimento all’intero universo culturale della vita di un popolo e, nell’ambito della fede cristiana, ispira una cultura innervata da un’antropologia teologica il cui fulcro si ritrova “solo in quella singolare persona che è l’assoluta e indeducibile donazione della verità di Dio: Gesù Cristo”[26]. Stando così le cose, è inevitabile l’esistenza di un’inestricabile liaison tra culto-cultura-uomo; del resto, come ricorda ancora Giovanni Paolo II, il ruolo primario dell’uomo nella Kultur si esercita sempre nell’insieme della sua soggettività, che è corporale e spirituale, cosicché la comprensione della cultura passa attraverso l’uomo integrale, “l’uomo tutto intero”[27].
In questo senso, il turismo culturale di interesse religioso racchiude in sé una concezione di religiosità e di cultura ampia, polisemica e poliedrica, epitomata in quelle composite “doti di spirito e di corpo” dell’uomo[28]. E in questo particolare tratto fisionomico del fenomeno turistico, l’uomo non può che trovare il suo pieno perfezionamento.
Il turismo culturale di interesse religioso è fisiologicamente integrato dai beni culturali ecclesiali, anzi l’accesso da parte del popolo dei turisti ai bona culturalia di cui la Chiesa è custode congiunge la pastorale del turismo con la gestione di tali beni in una fertile relazione[29]. Segni visibili e luminosi di una presenza di fede capillare e ricca di creatività, i beni culturali ecclesiali si mostrano come una res doppiamente culturale: per lo Stato, rientrando nel patrimonio storico-artistico della comunità civile, costituiscono ˗ nell’assai nota definizione proposta dalla commissione Franceschini ˗ “una testimonianza materiale avente valore di civiltà”[30]; per la Chiesa figurano come testimonianza di cultura ecclesiale, intersecando culturalità, preziosità e sacralità[31].
Si precisa che l’interesse della Chiesa non riposa sul dato della proprietà del bene, ma sul suo dovere di tramandare di generazione in generazione cultura religiosa[32]. Ne consegue che la categoria ‘beni culturali ecclesiali’ prescinde dalla titolarità della res e viene adoperata proprio per evitare di innescare il corto circuito dell’identificazione dei beni in base ai suoi soggetti di dominio[33]. È noto infatti che nell’ordinamento canonico la nozione di bene ecclesiastico (can. 1257, § 1) è nozione tecnica e ben precisa ove l’ecclesiasticità dei beni viene espressamente definita con riferimento al soggetto di appartenenza: le persone giuridiche canoniche pubbliche, dato che solo in esse e attraverso di esse la Chiesa opera per perseguire i suoi fini[34].
Un’ulteriore locuzione è quella di ‘beni culturali di interesse religioso’ che, incapsulata nell’art. 12.1, 2° comma dell’Accordo che nel 1984 ha modificato il Concordato lateranense del 1929, prende in considerazione i beni appartenenti a enti o istituzioni della Chiesa cattolica[35]. Sembra però più opportuno ricomprendere in tale costrutto l’intero fenomeno e quindi indicare nei beni culturali di interesse religioso tutti quei beni che sono manifestazione della cultura religiosa di una determinata confessione, sia essa la Chiesa cattolica o un’altra[36].
Ma siccome larga parte del patrimonio storico-artistico italiano è di ‘natura ecclesiastica’ ˗ o per titolo di proprietà o per matrice o per riferimento evidente all’universo culturale e simbolico del cristianesimo e, in particolare, del cattolicesimo: ma cospicuo è oggi anche quello relativo ad altre confessioni religiose ˗ i termini ‘beni culturali ecclesiali’, ‘beni ecclesiastici’ e ‘beni culturali di interesse religioso’ spesso si sovrappongono e si equivalgono[37]. Ciononostante, il legislatore, consapevole del pluralismo religioso garantito dalla Costituzione e in conformità alle sopracitate precisazioni terminologiche, consacra i beni culturali di interesse religioso all’art. 9, 1° comma del d.lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio o c.d. Codice Urbani), disposizione che ˗ riprendendo quanto sancito nell’art. 19, 1° comma del precedente d.lgs. 490/1999 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali) e innovando rispetto alla parallela norma della legge n. 1089 del 1939[38] ˗ riguarda indistintamente tutte le confessioni[39].
Nel ritornare però a puntare il bisturi sulla c.d. definizione Franceschini, va ricordato che se è vero che la Chiesa non può disconoscere l’essenziale bontà del parametro individuato dalla commissione ˗ parametro che ha sicuramente avuto il pregio di sostituire alla concezione umanistico-idealistica di bene culturale una concezione antropologica[40] ˗ è altrettanto vero che essa non può tollerare la disgiunzione dell’aspetto storico delle cose dalle loro “attestazioni spirituali, senza le quali il linguaggio della materia resterebbe desolatamente povero”[41]. Di conseguenza per il populus fidelium i beni culturali religiosi non si riducono a meri strumenti per la costruzione di una storia della civiltà e della cultura materiale, ma sono sintesi tra il terreno e il celeste, beni coinvolgenti fin dalla nascita una “ineluttabile confluenza […] di interessi eterogenei, religiosi e civili”[42].
Non si può peraltro sottacere il fatto che le res religiosae possono essere investite di nuova luce se comprese nella loro teologicità, spostando cioè il focus delle riflessioni de quibus sulla teologia della creazione e dell’incarnazione[43]. C’è in effetti una propensione ad osservare i beni culturali ecclesiali come loci theologici, in quanto beni aventi una funzione teologicamente sacramentale derivata dalla cultura della Chiesa[44].
Il punto di partenza è dato dalla suggestione di un versetto giovanneo[45] in cui l’uomo, nella veste di “con-creatore”[46] e “con-ricapitolatore”[47], si impegnerebbe a proseguire l’opera di Dio e del Verbo[48]. In questo senso, la produzione di beni culturali si fonderebbe sulla ricapitolazione cristica: l’uomo, icona di Dio creatore e del Verbo ricapitolatore, sarebbe in grado di “introdurre nella cultura prodotti che rappresentano ed esprimono il continuo perfezionamento all’infinito del cosmos”[49].
Certo è che entro la sfera del turismo culturale di interesse religioso ciò che viene principalmente in rilievo è il significato pastorale ed evangelizzante dei bona culturalia, il loro scopo di avvicinare o ricondurre ˗ sia pur nel rispetto della libertà di coscienza di ognuno ˗ gli uomini alla fede[50]. D’altro canto, il bene culturale “evangelizza ed è evangelizzato strutturalmente”[51], ma l’uso per l’evangelizzazione non va inteso “solo sotto il profilo funzionalmente didattico o catechetico […]”, bensì “nel senso culturale globale”[52].
Se è così, allora un’adeguata pastorale del turismo dovrebbe aiutare credenti e non credenti ˗ soddisfacendo in tal guisa anche le esigenze proprie dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso[53] ˗ a recepire tali beni come instrumenta evangelizationis, “[…] come linguaggio di buon annuncio, di annuncio trascendente, divino ed ecclesiale”[54]. Si tratta, in conclusione, di poter comunicare l’origine peculiare di questo patrimonio animato dalla fede, rendendolo “una porta di ingresso”[55] alla conoscenza religiosa, affinché sia offerta a tutti gli uomini “la possibilità di fare […] una qualche esperienza di Dio […]”[56].
2. Un passaggio a volo d’uccello: i tre piani della disciplina giuridica dei beni culturali ecclesiali
Avventurarsi in una ricostruzione, sia pur a volo d’uccello, dei lineamenti essenziali della disciplina giuridica dei beni culturali di interesse religioso significa in buona sostanza tracciare i tre piani normativi ˗ confessionale, unilaterale e pattizio ˗ su cui vengono a collocarsi le disposizioni poste a fondamento della tutela e valorizzazione di tali beni.
Facendo precipuo riferimento ai bona culturalia riconducibili alla Chiesa cattolica, il primo piano si ravvisa nelle fonti di diritto canonico universale e particolare italiano[57]. Nel corso della sua storia plurisecolare la Chiesa ha in effetti mostrato una crescente attenzione alla variegata realtà del patrimonio culturale[58]; tuttavia, se è vero che l’ampia fioritura di disposizioni pontificie e di editti emanati dall’Ufficio del Camerlengo della Santa Sede circa la protezione delle antichità d’arte e della ricchezza monumentale di Roma[59] ha segnato il formarsi di una graduale sensibilità e cultura giuridica intorno ai beni culturali, è altrettanto vero che sul tema de quo tanto il Codex del 1917 quanto quello del 1983 pennellano un quadro assai frammentario[60].
Insoddisfacente è infatti l’approccio del Codice pio-benedettino che, pur proponendo una distinzione tra bona sacra, “quae consecratione vel benedictione ad divinum cultum destinata sunt”, e bona pretiosa, “quibus notabilis valor sit”, non soltanto “materiae”, ma anche “artis vel historiae causa” (can. 1497, § 2), di fatto tutela questi beni più in funzione del loro valore patrimoniale e della loro utilizzazione cultuale-liturgica piuttosto che in ordine alla loro valenza culturale[61]. Il legislatore del 1917 dedica “scarsissima attenzione al patrimonio storico-artistico della Chiesa”[62] e nella conseguente esiguità numerica delle norme ad esso relative pare difficile rintracciare un principio d’ordine sistematico[63].
Novità più interessanti si riscontrano in quelle fonti di rango differente dal dettato codiciale e, in specie, nelle quattro lettere circolari inviate tra il 1923 e 1925 ai vescovi italiani a firma dell’allora Segretario di Stato Cardinal Gasparri, le quali, oltre a istituire la Pontificia Commissione centrale per l’arte sacra in Italia[64], lasciano già intravedere una Sede Apostolica preoccupata per lo sviluppo di una politica culturale orientata alla mera conservazione dei propri beni[65]. Sullo sfondo poi del ripensamento ecclesiale intrapreso dal Concilio Vaticano II[66], Paolo VI, nel riformare la curia romana, attribuisce alla Congregazione per il clero il compito di regolare l’amministrazione afferente al patrimonio storico-artistico ecclesiastico[67].
Quest’ultima, nell’esercizio di siffatta funzione, in data 11 aprile 1971 trasmette ai presidenti delle Conferenze episcopali la lettera circolare Opera artis: eletta a magna charta per la cura e la valorizzazione dei beni culturali, essa esorta gli episcopati nazionali ad emanare norme “atte a regolare questa materia di tanta importanza”[68]. Il documento è ragguardevole giacché con esso la Conferenza episcopale italiana (d’ora in avanti CEI) viene investita “[…] di veri e propri poteri legislativi circa i beni culturali ecclesiastici”[69]. E in questa veste inedita, il 14 giugno 1974 la CEI promulga le Norme per la tutela e la conservazione del patrimonio artistico della Chiesa in Italia, le quali, quasi anticipando il contenuto dell’art. 12.1 dell’Accordo di Villa Madama, precisano la necessità di avere nella materia de qua una collaborazione tra Stato e Chiesa[70].
Ritornando a posare lo sguardo sulla legislazione canonica universale, rimane altrettanto deludente e lacunosa la disciplina dei beni culturali ecclesiastici nella codificazione vigente, ove gli sparsi canoni a essi dedicati, modellandosi sul Codex del 1917, considerano la dimensione culturale incidentalmente[71]. Del resto, sebbene il Codice del 1983 conosca la locuzione ‘bona culturalia’, essa ˗ come noto ˗ rimane confinata al solo canone 1283, § 2, in una disposizione relativa all’amministrazione dei beni che tratta dell’obbligo di inventario in capo agli amministratori affidatari[72].
Il difetto di una normativa codiciale di dettaglio comprova l’adozione di uno stile ‘minimal’ da parte del legislatore della Chiesa che, in tema di tutela e valorizzazione del patrimonio ecclesiastico, preferisce lasciare agli interventi extra-Codicem il compito della “predisposizione di un sistema normativo canonico”[73]. Tali interventi si muovono lungo due direttrici: a livello universale attraverso il riconoscimento del ruolo della Pontificia Commissione per la conservazione del patrimonio storico e artistico della Chiesa, tenendo a mente le modificazioni di assetto intervenute con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI[74], a livello particolare per mezzo delle singole Conferenze episcopali nazionali[75].
Volendo rapidamente illuminare gli interventi della Chiesa cattolica particolare in Italia, è paradigmatico il ruolo della CEI che, divenuta interlocutore privilegiato della sopracitata Pontificia Commissione, adotta nel 1992, ad integrazione delle Norme del 1974, il decreto I beni culturali della Chiesa in Italia. Orientamenti. Benché sia sprovvisto di valore legislativo, il documento è “tutt’altro che privo di autorevolezza”[76]: in esso traspare non solo lo sforzo di metodizzare le azioni di tutela e valorizzazione dei beni culturali ecclesiastici, ma anche l’intento di sviluppare una rete di relazioni che coinvolga le articolazioni territoriali della Chiesa e le parallele strutture secolari[77].
Piazzando il riflettore sul piano dell’ordinamento giuridico italiano[78], è con la legge Nasi (n. 185/1902) e con la legge Rava-Rosadi (n. 364/1909) che il legislatore nazionale, superando la stretta visione liberista della proprietà, avvia una prima forma di tutela pubblicistica delle cose d’arte e d’antichità, includendovi altresì quelle di proprietà di enti ecclesiastici[79]. Si tratta tuttavia di una normativa ancora frutto della politica giurisdizionalista dello Stato, che a una scarsa considerazione della dimensione socio-culturale del patrimonio unisce un marginale apprezzamento per l’interesse religioso che può caratterizzare alcuni dei predetti beni[80].
Del medesimo portamento è la legge Bottai (n. 1089/1939) che, al pari delle precedenti, difetta di disposizioni consapevoli del valore del patrimonio culturale italiano di interesse religioso[81]. A ciò si aggiunga che il suo art. 8, per quanto innovi la disciplina antecedente con l’introduzione di una specifica norma riguardante le “cose appartenenti ad enti ecclesiastici”[82] ˗ colmando, mediante disposizione unilaterale, la lacuna presente nel Concordato del 1929[83] ˗ predispone una forma di tutela che concerne esclusivamente i beni destinati al culto “e non quelli funzionali ad altre attività di natura religiosa”[84].
È noto che la disposizione, prevedendo che il Ministro competente nell’esercizio dei suoi poteri procederà in armonia con l’autorità ecclesiastica in relazione alle esigenze di culto[85], individua come oggetto del necessario accordo non i provvedimenti ˗ e dunque le scelte in essi contenute ˗ inerenti alla protezione e gestione dei beni, bensì “la previa verifica della compatibilità delle scelte amministrative con le esigenze cultuali”[86]. Detto altrimenti, l’art. 8, come appurato dalla giurisprudenza, si fonda sulla necessità di “evitare che l’esercizio meramente unilaterale dei poteri spettanti, a norma della legge 1089, all’autorità governativa, possa impedire, intralciare o comunque interferire sull’esercizio del culto e sull’attività degli enti ecclesiastici”[87].
Nell’incavo tracciato dal d.lgs. n. 112 del 1998, preceduto dalla legge n. 59 del 1997 (riforma Bassanini), si inserisce l’approvazione del T.U. n. 490 del 1999 che, in un settore dell’ordinamento ancora regolato nelle sue linee fondamentali dalla legge Bottai, ha l’intento di riordinare la materia e le numerose norme stratificatesi nel tempo[88]. Nato per operare entro i confini imposti dalla legge delega n. 352 del 1997[89], il T.U. riconosce nella “tutela dei beni culturali che compongono il patrimonio storico artistico nazionale” (art. 1) il proprio oggetto: se è apprezzabile il chiaro ancoraggio all’art. 9 della Costituzione, discutibile è invece il richiamo alla sola attività di tutela dacché l’art. 148 del d.lgs. 112/1998 esplicita tra i compiti dell’amministrazione anche “[…] la gestione, la valorizzazione e la promozione dei beni culturali”[90].
Ancorché il T.U. non manchi di sollevare alcune perplessità ˗ soprattutto riguardo ad alcuni aspetti di drafting legislativo[91] ˗ è senza dubbio nell’art. 19, 1° comma che esso mostra il suo profilo migliore[92]. La norma, pur ponendosi in continuità con l’art. 8 della legge n. 1089 del 1938 relativamente alla protezione delle esigenze di culto, non si limita a introdurre, sull’onda dell’art. 12 dell’Accordo del 1984, la locuzione ‘beni culturali di interesse religioso’, abbandonando la dizione dell’art. 8 concernente le ‘cose appartenenti ad enti ecclesiastici’, ma la espande, sino a comprendervi anche i beni di confessioni religiose diverse da quella cattolica[93]. Mutano inoltre i protagonisti chiamati a realizzare la salvaguardia delle esigenze di culto: in accordo con la riforma Bassanini ex parte Status sono competenti il Ministero, nell’esercizio delle sue funzioni di tutela, e le Regioni, per quanto a esse demandato in materia di fruizione e valorizzazione[94]; sul versante delle confessioni religiose i soggetti autorizzati si individuano facendo ricorso al 2° comma dell’art. 19[95].
L’entrata in scena dell’art. 9 del Codice Urbani sostituisce l’art. 19 del T.U., ma ne conserva interamente il contenuto[96]. Nonostante una lievissima limatura dell’incipit, la prima parte del nuovo disposto ripropone in via unilaterale la nozione ‘beni culturali di interesse religioso’, sia pur in quell’ampia accezione già evidenziata dal T.U.[97].
Inoltre, nel rinviare al contempo agli impegni del Ministero e delle Regioni, l’art. 9 del d.lgs. 42/2004 accoglie la diversa ripartizione delle competenze legislative e delle funzioni amministrative operata da quel tourbillon della riforma del titolo V della Costituzione, assicurando il rispetto delle esigenze di culto non solo con riferimento alla tradizionale attività di tutela riservata allo Stato, ma anche in relazione alle attività di valorizzazione che dal 2001 sono attribuite alla potestà concorrente delle Regioni[98]. Per di più, il mantenimento delle esigenze di culto, sulla scia dell’art. 8 della legge Bottai e del T.U., in luogo delle più ampie “esigenze di carattere religioso” ex art. 12.1, 2° comma dell’Accordo del 1984, genera un’asimmetria con la norma pattizia che pare superata con il richiamo alle intese contenuto nell’art. 19, 2° comma del T.U. e ora ripresentato nel 2° comma dell’art. 9[99].
L’obbligo di osservanza delle intese, nonostante “il confuso riferimento ad accordi di natura oggettivamente differente”[100], amplia la portata dell’art. 9, 2° comma del Codice Urbani giacché equivale all’accettazione unilaterale da parte statale del principio che sta alla loro base: il principio di collaborazione quale elemento che impregna di sé tutta la disciplina dei beni culturali di interesse religioso[101]. Pietra angolare su cui si regge l’intera architettura dell’art. 12 dell’Accordo di Villa Madama, la collaborazione, nei rispettivi ambiti, tra la Santa Sede e la Repubblica italiana “per la tutela del patrimonio storico artistico” (art. 12.1, 1° comma) esplicita il più generale impegno a un’azione comune per “la promozione dell’uomo e il bene del Paese” sancito all’art. 1 del medesimo Accordo[102].
Felicemente compendiato nella formula della sana cooperatio della Costituzione conciliare Guadium et Spes[103] e istituzionalizzato nel rispetto della distinzione degli ordini ˗ con un chiaro eco all’art. 7, 1° comma della Costituzione ˗ il principio di collaborazione memorabilmente fissato nell’art. 12.1, 1° comma esclude ingerenze e commistioni di competenze, fugando i timori sulla possibile creazione di una nuova res mixta[104]. Questo aspetto risulta confortato dal comma successivo della norma che nel prevedere “opportune disposizioni” da concordarsi tra le Parti “al fine di armonizzare l’applicazione della legge italiana con le esigenze di carattere religioso” (art. 12.1, 2° comma), non forgia un regime pattizio di tutela dei beni culturali ecclesiastici in deroga alla legge dello Stato, bensì “una normativa integrativa concordata, la quale presuppone l’accettazione e l’intangibilità della legislazione italiana”[105]. E quelle “opportune disposizioni” ex art. 12.1, 2° comma trovano attuazione nel ben noto trittico di intese che tra il 1996 e il 2005 sono sottoscritte dal Ministro per i beni culturali (nelle varie denominazioni che si sono susseguite negli anni) e il Presidente della CEI.
Condizionata da una precedente battuta d’arresto nel 1991[106], la prima intesa viene siglata il 13 settembre del 1996[107], rivelando un carattere spiccatamente procedurale: si limita in effetti a enucleare i soggetti competenti, gli obblighi e le modalità di informazione in ordine ai piani di intervento, nonché i luoghi della collaborazione, ridotti a una sequela di appuntamenti amministrativo-istituzionali[108]. Per quanto costituisca un primo significativo passo nel compimento degli impegni concordatari, con la sortita dei beni culturali ecclesiastici dalla nebbia dell’indistinto, sui profili sostanziali l’intesa del 1996 mostra un silenzio “quasi spettrale”[109].
Di più ampio respiro si dimostra invece l’intesa del 2000 che pur applicandosi a un preciso settore dei beni culturali ˗ archivi e biblioteche ecclesiastiche ˗ è cosciente del fatto che la collaborazione, se non ancorata a impegni precisi nei contenuti e nei tempi di realizzazione, rischia di rimanere flatus vocis[110]. Nel riflesso di questo nuovo spirito costruttivo, l’intesa sottoscritta dal Ministro Urbani e dal Presidente della CEI Cardinal Ruini il 26 gennaio 2005, sostitutiva di quella del 1996, transita da una “concezione aridamente procedurale ad un’altra più ampiamente programmatoria”[111], incardinandosi sulla “collaborazione materiale di tutti i soggetti interessati di parte ecclesiastica e di parte statale”[112].
Merita inoltre un breve cenno l’art. 8 di detta intesa, una disposizione che nel rinnovare parzialmente la norma che nell’accordo del 1996 riconosceva alle Regioni o ad altri enti territoriali la possibilità di stipulare intese con i competenti enti ecclesiastici in materia di beni culturali di interesse religioso, legittima ipotesi di collaborazione a livello regionale[113]. Invero, le fonti che attuano il dettato dell’art. 12 dell’Accordo del 1984 costituiscono un mosaico complesso, le cui tessere, nel segno del superamento di una visione verticale delle relazioni tra potere politico e religione, si incastonano entro la cornice dei rapporti centro-periferia[114].
Ne consegue che accanto alle tre intese ‘di vertice’ summenzionate si devono aggiungere, sul piano decentrato, i numerosi accordi tra Regioni civili ed ecclesiastiche, spesso accostati a convenzioni e sub-intese che vedono il coinvolgimento di comuni, province e diocesi[115]. Da ricordare, infine, che previsioni simili all’art. 12 dell’Accordo di Villa Madama sono contenute altresì nelle intese stipulate ex art. 8, 3° comma della Costituzione, previsioni che non hanno mancato di gettar luce sul profilo regionale[116].
3. Scorci sui beni archivistici e librari…
Nel corso del suo lungo cammino la Chiesa ha costantemente mostrato una peculiare sensibilità per quei templi della memoria deputati ad accogliere le ““carte” relative alla propria vita, […] alla propria identità”[117] e storia. Anzi, si potrebbe dire che essa sia stata la prima istituzione a percepire l’esigenza di avviare un’incisiva protezione per i suoi archivi e biblioteche[118], protezione che di fatto ha costituito il nucleo originario delle iniziative assunte dall’autorità ecclesiastica a tutela del patrimonio culturale di interesse religioso[119].
Pare opportuno preliminarmente osservare il ruolo che archivi e biblioteche hanno avuto, e continuano ad avere, entro la Chiesa per poi tentare di percorrere, nel paragrafo successivo, i sentieri della loro digitalizzazione.
Gli archivi ecclesiastici trovano la loro essenza costitutiva nell’assolvimento di una funzione di tipo amministrativo e certificativo[120]: essi sono innanzitutto ‘registri delle anime’, eterni réservoir ove conservare i principali documenti concernenti le vicende dei credenti[121]. In questo senso, la tenuta degli archivi costituisce per la Chiesa un mezzo indispensabile per l’esercizio della sua giurisdizione, coinvolgendo la sua sfera di sovranità e di libertà di organizzazione[122].
È dunque il profilo tuzioristico-legale e burocratico ad impregnare il dettato codiciale previgente; ragion per cui, quest’ultimo, nel proporre una disciplina a tutti gli archivi di enti costituzionali o essenziali per l’organizzazione ecclesiastica, li apprezza solo come “strumenti asseverativi di legali certezze”[123]. Oltretutto, se è la dimensione giuridico-amministrativa a preponderare su quella culturale allora la biblioteca, che nasce come bene culturale, diversamente dall’archivio che lo diventa[124], non può avere alcuna autonomia nel Codice del 1917, sicché “bisogna compiere non lievi sforzi ermeneutici per estendere anche ad essa la definizione di bonum ecclesiasticum pretiosum”[125] che ˗ giova rammentarlo ˗ il can. 1497 identificava in quelle res aventi un notevole valore materiale, storico o artistico[126].
Ad ogni modo, con ciò non si intende dire che il rilievo culturale di cui è manifestazione l’archivio e la biblioteca ecclesiastica sia sempre stato confinato dalla Chiesa nel limbo dell’irrilevanza giuridica[127]. È a ben vedere a partire dalle illuminanti riflessioni di Paolo VI che in merito agli archivi affiora la loro natura poliedrica, la molteplicità della loro vocazione, la consapevolezza cioè che accanto al tradizionale ruolo di custodia delle certezze, con cui salvaguardare i diritti dei christifideles, convive la funzione di memoria storica di una determinata collettività, e dunque la valenza di bene culturale[128].
Benché sia consapevole del fatto che l’archivio ecclesiastico non potrà mai privarsi del proprio tratto congenito ˗ le finalità giuridico-amministrative per le quali è stato costituito ˗ il Pontefice celebra la sostanza spirituale di quelle “antiche carte” che “irradiano scintille di fede vissuta”, che “parlano eloquentemente e testimoniano le vicende umili e grandi di cui è intessuta la storia bimillenaria della Chiesa”, divenendo “echi e vestigia del passaggio della Chiesa, anzi del Signore Gesù nel mondo”[129].
La mise en relief degli archivi nel loro spessore propriamente culturale come “tabernacoli della memoria”[130], “sapientae templa”[131] espressioni di civiltà, è lucidamente scolpita dal Codex del 1983, che pur preservando la distinzione operata dalla codificazione precedente tra archivio comune (cann. 486-487) e segreto (can. 489)[132], innova nella parte in cui contempla l’istituzione obbligatoria dell’archivio storico diocesano (can. 491): archivio per l’appunto destinato alla conservazione dei documenti che hanno un valore storico-culturale[133]. Si tratta in verità di un disposto di scarsa chiarezza perché il Codice, sebbene puntualizzi che le ‘carte’ devono essere custodite diligentemente e ordinate sistematicamente (can. 491, § 2), rimane silente sulle modalità di formazione di tale archivio, non specificando i criteri temporali qualificanti la storicità dei documenti[134].
Si chiarisce invece che è compito del Vescovo diocesano, oltre all’istituzione dell’archivio storico, dettare norme per la consultazione e l’asportazione degli atti in esso contenuti (can. 491, § 3). Viene peraltro precisato che la vigilanza del Vescovo si estende agli archivi di tutte le chiese ˗ cattedrali, collegiate, parrocchiali ˗ presenti nel territorio della diocesi (can. 491, § 1)[135].
Apre uno spiraglio interessantissimo il can. 489, § 2 che nel disporre la distruzione annuale dei fascicoli delle cause criminali in materia di costumi a seguito della morte del reo o a un decennio dalla sentenza di condanna, purché si conservi in quest’ultimo caso un breve sunto del fatto con il testo della sentenza definitiva, sembra porsi in conflitto con la dimensione culturale dei beni archivistici[136]. Se la ratio della norma è facilmente rintracciabile nella charitas evangelica che la Chiesa esprime “verso coloro che sono caduti in errore”[137], ciò non toglie che la distruzione di questi materiali privi gli studiosi di tesori assolutamente impreteribili per la conoscenza storica.
Di non minor importanza è il can. 535, § 4 che prescrive l’introduzione presso ogni parrocchia di un “tabularium seu archivum” per custodire e conservare, “necessitatis utilitatisve causa”, i libri parrocchiali, le lettere dei vescovi e altri documenti. Attraverso la creazione ex novo della categoria dei “libri paroeciales antiquiores”, di cui è consigliata una diligente custodia (can. 535, § 5), la norma consente di intuire l’esistenza di un archivio storico parrocchiale[138].
Un risalto particolare è finanche concesso alla dimensione pastorale del patrimonio archivistico ecclesiastico[139]. A riguardo il 2 febbraio 1997 la Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa ha emanato una lettera circolare sulla Funzione pastorale degli archivi ecclesiastici, definendoli centri di “cultura per la nuova evangelizzazione”, luoghi in cui sono “impresse le tracce del transitus Domini nella storia degli uomini” e nei quali “la Chiesa vede attestata in maniera cristallina la sua incessante e capillare opera di inculturazione e acculturazione, dando altresì riscontro della plantatio Ecclesiae”[140].
Nella loro multiforme geografia[141] e ricchezza gli archivi ecclesiastici rappresentano “un segno della presenza della chiesa nel mondo, un argomento della sua missione, un’orma del Corpo Mistico nel cammino secolare della storia”[142]. Cuori pulsanti di memoria storica e di fede, essi costituiscono un’importante opportunità per il miglioramento della comunità ecclesiale e non possono che essere “rilanciati nei circuiti vitali dell’azione missionaria, di annuncio, catechetica e di santificazione della Chiesa”[143].
Senza voler lasciare troppo in ombra le biblioteche ecclesiastiche, beni la cui tutela è sempre stata perseguita all’unisono con gli archivi[144], va rilevato come quest’ultime, ignorate nella loro valenza culturale dalla codificazione previgente ˗ come sopra ricordato ˗ siano del tutto orfane di norme specifiche persino nel Codice del 1983: si tratta di una mancanza evidente, agli occhi della dottrina anche grave, che può nondimeno essere compensata con la normativa extra-codiciale[145]. È ulteriormente emblematica la linea di impegno tracciata dalla Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, la quale, ancor prima di porre l’attenzione sugli archivi, pubblica il 19 marzo del 1994 la lettera circolare Le biblioteche ecclesiastiche nella missione della Chiesa[146].
Gettando luce su alcuni aspetti di carattere storico, metodologico e vocazionale del patrimonio librario ecclesiastico, la predetta Commissione non esita a qualificarlo come locus classicus di incontro e confronto fra le diverse forme di sapienza[147], “tesoro inesauribile di sapere, dal quale l’intera comunità ecclesiale e la stessa società civile possono attingere, nel presente, la memoria del loro passato”[148]. Si coglie, per concludere, l’effigie di una biblioteca “capace di tramandare la memoria della tradizione intellettuale ecclesiastica”[149], veicolo di storia religiosa, nonché terreno privilegiato per una produzione di conoscenza intrecciata a una riflessione interculturale dischiusa “ai processi di inculturazione […] del messaggio salvifico della Chiesa”[150].
4. …i sentieri della loro digitalizzazione
Se l’odierno ‘sentimento del tempo’ vive di virtualità elettronica e affida ogni attività informativa alla memoria di un computer, non sorprenderà il fatto che le diocesi italiane siano già da svariati anni impegnate a realizzare interventi di riordino dei beni archivistico-librari servendosi dello strumento informatico. Invero, l’inventariazione computerizzata del patrimonio culturale ecclesiastico prende le mosse nel 1996, allorquando l’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della CEI promuove il c.d. ‘progetto diocesano’[151].
Nato per schedare in via prioritaria beni artistici e storici mobili ˗ tra cui libri e archivi ˗ per poi procedere alla schedatura di quelli architettonici, il progetto diocesano si propone di ottenere una migliore consultazione e conservazione di detto materiale[152]. L’inventario costituisce però un primo passo giacché intende contribuire al compimento di quell’iniziativa più complessa e di respiro nazionale che è il catalogo: per questo motivo deve essere redatto in modo uniforme in tutte le diocesi italiane, seguendo sia gli standard ministeriali previsti per il catalogo sia “le variazioni e integrazioni introdotte dalla CEI per tenere conto delle specifiche esigenze ecclesiastiche”[153].
Va ricordato che il riguardo della Chiesa per l’attività di inventariazione era già stato messo in rilievo in una lettera circolare del 2 maggio 1994 intitolata L’inventariazione dei beni culturali ecclesiastici, ove la Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa ˗ pur tralasciando, in quel contesto, archivi e biblioteche ˗ sollecitava la predisposizione dell’inventario al fine di scoraggiare indebite appropriazioni di beni e facilitarne, in caso di sparizione, il recupero[154]. È tuttavia con il sopracitato documento La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici che la medesima Commissione, nel rammentare le norme del Codex Iuris Canonici dedicate alla stesura dell’inventario per gli archivi[155], lo consacra ad “atto fondamentale per la consultazione del patrimonio archivistico”[156], evidenziando il ruolo precipuo delle tecnologie digitali nella sua compilazione[157]. La consapevolezza in materia di inventariazione e catalogazione diviene matura con la lettera circolare Necessità e urgenza dell’inventariazione e catalogazione dei beni culturali della Chiesa dell’8 dicembre 1999, in cui lo stesso organismo della curia romana illustra ˗ senza disconoscere il valore del moderno mezzo informatico ˗ le differenti nuances tra le due attività: se l’inventariazione si pone come “un’attività conoscitiva di base”, la catalogazione, costituendo “un livello più approfondito di conoscenza […], prende in considerazione il bene nel suo complesso e nelle sue finalità intrinseche”[158].
Non pare peraltro opportuno far velo all’ampia attenzione che l’intesa del 18 aprile 2000 circa la conservazione e consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche degli enti e istituzioni ecclesiastiche[159] concede all’inventariazione, indicata ˗ relativamente al materiale archivistico ˗ come il primario obiettivo della collaborazione Stato-Chiesa[160]. Un proposito, questo, non destinato a rimanere vago e generico, un mero auspicio[161], dal momento che l’intesa àncora gli impegni che accomunano il Ministero per i beni e le attività culturali e la CEI nella coordinazione dei programmi di inventariazione e nel potenziamento della rete informatica (art. 4, 3° comma)[162].
Ulteriori disposizioni addossano all’autorità ecclesiastica l’incombenza di “promuovere l’inventariazione del materiale documentario e archivistico” (art. 2, 3° comma), mentre lo Stato, da parte sua, promette di offrire “per il tramite delle Soprintendenze archivistiche”, non solo “collaborazione tecnica e contributi finanziari” per la redazione di inventari, ma anche “lo scambio di materiale informatico (software) […]” (art. 3, 1° comma)[163].
Sul fronte delle biblioteche ecclesiastiche, si osserva l’impegno delle Parti “a concordare indirizzi e a definire strumenti omogenei in materia di inventariazione e catalogazione del materiale librario” (art. 5, commi 3° e 4°), nonché l’assunzione, “nel quadro dei processi di cooperazione tra biblioteche per quanto attiene all’informatizzazione”, della “rete italiana per le informazioni e i servizi bibliografici del Servizio bibliotecario nazionale (S.B.N.)” come “sistema di riferimento” (art. 5, 4° comma)[164].
Un passo in avanti viene compiuto con la convenzione tra l’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione (ICCD) del Ministero per i beni e le attività culturali e la CEI circa le modalità di collaborazione per l’inventario e il catalogo dei beni culturali mobili appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche, firmata l’8 aprile 2002 con lo scopo di implementare le disposizioni contenute nell’intesa del 2000[165]. L’accordo, che riguarda genericamente i beni culturali mobili di proprietà degli enti della Chiesa, e quindi non specificamente ˗ e soltanto ˗ quelli di interesse religioso, getta le fondamenta per la realizzazione di un sistema integrato di fruizione e valorizzazione del patrimonio culturale ecclesiastico e civile, individuando nel dialogo e nella collaborazione un modus procedendi necessario per l’omogeneizzazione di prassi metodologiche e operative sulla catalogazione e l’inventario[166].
Sull’onda di quest’ultima convenzione e delle summenzionate norme concordatarie, nel giugno del 2004 l’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici ha attivato un progetto denominato CEI-Ar (CEI Archivi) a favore degli archivi ecclesiastici[167]. L’iniziativa si propone di effettuare il censimento del patrimonio archivistico attraverso una sua schedatura informatizzata, creando una banca dati diocesana e nazionale[168]. A tal fine l’Ufficio mette a disposizione degli enti ecclesiastici una suite gratuita di programmi informatici tra i quali emerge CEI-Ar TS, un software di back-end che supporta il lavoro dell’archivista velocizzando le abituali procedure di descrizione, inventariazione ed eventuale riordino del materiale documentario[169].
È stato invece presentato nel settembre del 2005, divenendo operativo nel dicembre del 2006, CEI-Bib (CEI Biblioteche): progetto anche questo promosso dall’Ufficio nazionale e rivolto al complesso mosaico delle biblioteche ecclesiastiche[170]. CEI-Bib, che si affianca a CEI-Ar e a CEI-OA e CEI-A[171], è innanzitutto un tool informatico che basandosi su EOS.Web Enterprise, proposto in Italia da Ifnet[172], è direttamente fruibile in Internet, non necessitando di particolari installazioni: ciò permette di costituire in maniera agevole il catalogo collettivo delle biblioteche ecclesiastiche in dialogo con SBN (Servizio bibliotecario nazionale)[173].
Va tuttavia precisato che CEI-Bib non è solamente un software di catalogazione, bensì un sistema di gestione bibliotecaria composto da un insieme coordinato di biblioteche che, avvalendosi dell’applicativo omonimo, colloquiano con l’Indice SBN onde ricercare e condividere risorse catalografiche per mezzo di authority files, organizzare prestiti, svolgere attività di circolazione e acquisizione[174]. In questo senso, CEI-Bib rappresenta il polo ecclesiastico di SBN[175], un servizio di management della conoscenza[176].
Significativa è poi la premura dell’Ufficio nazionale a tesaurizzare il pregresso, ossia il lavoro che le biblioteche ecclesiastiche hanno svolto nel corso degli anni con l’allestimento di propri cataloghi elettronici[177]. Ecco perché è venuta alla luce una strategia di conversione, migrazione e allineamento dei dati che mediante specifici programmi informatici consente “la continuazione direttamente su CEI-Bib dei cataloghi recuperati”[178].
A ciò si aggiunga che il sistema proposto dalla CEI, oltre ad offrire uno strumento condiviso di comunicazione bibliografica, mette a disposizione una infrastruttura di rete che consente alle biblioteche ecclesiastiche aderenti di conservare la propria identità tipologica e gestionale[179]. Si è infatti sentita l’esigenza di ricorrere a forme non invasive di cooperazione, senza pregiudicare la natura delle singole biblioteche cosicché laddove quest’ultime siano già legate a un polo ˗ come spesso avviene ˗ hanno la possibilità di rimanerci, pur potendo al contempo far parte, se lo desiderano, del network CEI-Bib[180].
Dal 2000 il patrimonio archivistico e librario in congiunzione con quello storico, artistico e architettonico è raccolto su BeWeB ˗ Beni ecclesiastici in web ˗ un portale di front-end coordinato dall’Ufficio nazionale allo scopo di rendere visibile il lavoro di censimento informatizzato che le diocesi italiane e gli istituti culturali ecclesiastici hanno concluso sui beni di loro proprietà[181]. Grazie a un accesso cross domain ai dati, BeWeb consente una lettura integrata e trasversale delle proprie risorse; l’adozione di un linguaggio semplice e il “volto comunicativo”[182] delle sue pagine, percepibile nell’offerta di approfondimenti tematici e news, permettono invece l’apertura del portale a un pubblico ampio e non circoscritto alla nicchia degli specialisti[183].
Quanto pubblicato sul sito è comunque da intendersi un work in progress, e dunque non esente da eventuali modifiche e migliorie, considerato che l’Ufficio nazionale può sempre ricevere banche dati aggiornate e procedere alla sostituzione di quelle pubblicate fino a quel momento[184]. Non si dimentichi, infine, che nell’intento di raccontare il patrimonio alla luce di un’esegesi di carattere pastorale, catechetico e liturgico, BeWeb instaura un dialogo con le istituzioni pubbliche e i relativi sistemi informativi[185].
5. Musei ecclesiastici…
Come si è potuto dianzi osservare, l’impiego della virtualità nella Chiesa si è principalmente manifestato nel processo di inventariazione informatizzata dei beni culturali di interesse religioso ˗ in specie archivi e biblioteche ˗ e nella loro messa in mostra in quella ‘vetrina’ digitale che è BeWeb. In questa sede si poserà invece lo sguardo sul regime giuridico dei musei ecclesiastici per poi tentare di evidenziare, nel paragrafo successivo, la loro trasmigrazione in rete: lo scopo sarà quello di illustrare come l’elaborazione di specifiche soluzioni tecnologiche ˗ sperimentate solo in parte durante le restrizioni pandemiche ˗ possa aprire nuove piste di indagine contrassegnate da una più efficace valorizzazione del patrimonio culturale e da una riduzione dell’impatto ambientale.
È noto come i musei ecclesiastici costituiscano una galassia scarsamente esplorata sotto il profilo giuridico[186]. Il tema occupa in effetti uno spazio decisamente ridotto nella letteratura di settore, soprattutto se paragonato alla copiosa produzione dottrinale relativa alla disciplina dei beni culturali di interesse religioso[187].
Le ragioni di questa esigua attenzione sembrerebbero discendere non solo dall’insufficienza di espressi riferimenti normativi all’interno dell’ordinamento secolare[188], ma anche dalla passata convinzione che in generale i musei non rientrassero nell’alveo dei beni culturali e quelli “ecclesiastici meno che mai tra i beni culturali di interesse religioso in senso stretto”[189]. Era infatti diffusa la tendenza a considerare i musei ˗ ecclesiastici e non ˗ nella loro dimensione ‘statica’ o ‘reale’, ossia come universitas rerum, luoghi unicamente finalizzati alla raccolta ed esposizione di collezioni[190].
Questa concezione pareva avvalorata anche dalle prime interpretazioni dottrinali attinenti l’art. 12 dell’Accordo di Villa Madama, le quali, focalizzandosi maggiormente sulle “esigenze di carattere religioso” dei beni culturali ecclesiali (art. 12.1, 2° comma), trascuravano il più ampio e significativo principio di collaborazione tra Santa Sede e Repubblica italiana “per la tutela e valorizzazione del patrimonio storico e artistico nazionale” (art. 12.1, 1° comma). Peraltro, l’esplicito rinvio nella norma pattizia all’impegno delle Parti a favorire “la conservazione e consultazione degli archivi e delle biblioteche appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche” (art. 12.1, 3° comma), sommato al silenzio sui musei, contribuiva a rinvigorire la tesi dell’esclusione di quest’ultimi dal novero dei beni culturali ecclesiastici[191].
Ma sullo sfondo di una collaborazione divenuta il perno dei rapporti Stato-Chiesa la svolta non tarda ad arrivare. Ne sono un chiarissimo esempio l’introduzione di una definizione di museo elaborata dalla legislazione civile e il fiorire di documenti provenienti dalle istituzioni ecclesiastiche e dal magistero pontificio[192].
In armonia con la nozione proposta dall’ICOM (International Council of Museums)[193], il legislatore italiano supera il concetto ‘statico’ di museo per sposare una visione ‘soggettiva’ e ‘dinamica’ che pone al centro l’aspetto organizzativo e le attività da esso svolte[194]. La scelta è confermata dal T.U. del 1999, il quale, all’art. 99, 2° comma lett. a), considera il museo “una struttura comunque denominata organizzata per la conservazione, la valorizzazione e la fruizione pubblica di raccolte di beni culturali”[195].
Successivamente il Codice Urbani, sospinto dalla caratterizzazione proposta dal T.U., colloca il museo tra gli “istituti o luoghi di cultura”, identificandolo in una “struttura permanente che acquisisce, conserva, ordina ed espone i beni culturali per finalità di educazione e di studio” (art. 101)[196]. A ciò si aggiunga che i musei della Chiesa, come i musei privati ˗ categoria cui vengono assimilati dalla dottrina stante la natura privatistica degli enti ecclesiastici[197] ˗ se aperti al pubblico esplicano a detta del Codice Urbani “un servizio privato di utilità sociale” (art. 101, 4° comma) e in quanto tali “possono essere oggetto di tutte quelle forme di intervento e coinvolgimento che sono previste per questa tipologia museale”[198].
Non meno importante è ricordare che nella formulazione antecedente il 2001, l’art. 117 della Costituzione riservava la materia dei musei e delle biblioteche alla competenza concorrente delle Regioni[199]. È noto che nell’ambito del trasferimento delle funzioni amministrative per detti beni, la rimodulazione dell’inciso “di enti locali” nel più ampio “di enti e di interesse locale” aveva dato impulso a una feconda produzione legislativa regionale, consentendo di annoverare entro le maglie della nuova locuzione anche i musei e le biblioteche ecclesiastiche[200].
Oggi, in virtù del novellato dettato costituzionale, la materia dei musei è contemplata dal d.lgs. 42/2004 tra gli strumenti di valorizzazione e fruizione del patrimonio culturale ˗ con il limite soggettivo posto dall’art. 101, 2° comma ˗ e continua a ricadere nella potestà normativa concorrente regionale, purché esercitata nel rispetto dei principi fondamentali fissati dal Codice Urbani (art. 7, 1° comma) [201]. In sostanza, sia nella loro odierna equiparazione ai musei privati, sia nella loro precedente accezione di musei di interesse locale, i musei ecclesiastici rientrano nella competenza concorrente delle Regioni[202].
Se ci si sposta sul terreno dell’ordinamento canonico, il mutismo che connota tanto il Codice del 1917 quanto quello del 1983 in materia di musei viene colmato ˗ come per le biblioteche ˗ dalla copiosa normativa extra-codiciale. Invero già le Norme CEI del 1974, dopo aver precisato che “le opere d’arte devono restare, possibilmente, nei luoghi di culto, per conservare alle chiese, agli oratori, ai monasteri e conventi l’aspetto significativo della [loro] fisionomia originaria […]”, raccomandavano, laddove tale conservazione nei luoghi originari non fosse più possibile perché gravemente rischiosa o “perché le opere e le suppellettili non hanno più funzione di culto […]”, l’istituzione “di musei diocesani o interdiocesani”[203].
L’impegno a favore dei musei ecclesiastici viene rinsaldato, a livello di diritto canonico universale, dalla Costituzione apostolica Pastor Bonus del 28 giugno 1988, la quale, nell’istituire la Pontificia Commissione per la conservazione del patrimonio storico-artistico della Chiesa[204] rammenta la sua cooperazione con le Chiese nazionali e gli organismi episcopali per la costituzione di musei, archivi e biblioteche[205]. Ma, scendendo sul piano del diritto canonico particolare italiano, è nel documento della CEI I beni culturali della Chiesa in Italia. Orientamentidel 1992 che il museo, in specie quello diocesano, trova la sua consacrazione quale “naturale punto di riferimento per le analoghe istituzioni ecclesiastiche sotto il profilo organizzativo, tecnico-scientifico e per le iniziative culturali e pastorali”[206].
Si erge a manifesto della Chiesa universale per il rilancio dell’attività museale[207] la lettera circolare della Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa intitolata La funzione pastorale dei musei ecclesiastici del 29 giugno 2001. Scolpito come “luogo che documenta l’evolversi della vita culturale e religiosa”, il museo ecclesiastico è per la Pontificia Commissione “direttamente collegato all’azione della Chiesa […]” in quanto è “il riscontro visibile della sua memoria storica”, testimone del suo percorso plurisecolare “nel culto, nella catechesi, nella cultura e nella carità”[208].
Motivo per cui quest’ultimo “non può essere inteso in senso “assoluto”, cioè sciolto dall’insieme delle attività pastorali”, ma deve giocoforza inserirsi in tale ambito con “il compito di riflettere la vita ecclesiale tramite un approccio complessivo al patrimonio storico-artistico”[209]. Con il suo costante rimando a una comunità vivente, il museo non si riduce a una mera “raccolta di “antichità e curiosità” […], al “tempio delle Muse””[210], ma rientra tra le “strutture ordinate alla valorizzazione dei beni culturali “posti al servizio della missione della Chiesa” […]”, centro di animazione culturale in cui la “rivisitazione del passato” si annoda alla “scoperta del presente”[211].
Quanto alla disciplina pattizia, per concludere, il mancato riferimento ai musei ecclesiastici nell’art. 12 dell’Accordo di Villa Madama non li esclude dal generale impegno bilaterale da esso sancito per la tutela del patrimonio storico-artistico. Emblematica in questo senso è l’intesa del 2005 la quale, oltre a manifestare un certo favor per la species degli istituti museali ecclesiastici, visibile in quel ventaglio di richiami espressi che trapuntano la trama delle sue disposizioni[212], individua nell’art. 8 la norma chiave su cui incardinare intese regionali atte a sviluppare la collaborazione già messa in atto per il più ampio genus dei beni culturali ecclesiali[213].
6. …e digitale: alcune piste di indagine per una valorizzazione potenziata e amplificata
E se dal 2000, come si è in precedenza illustrato, il patrimonio culturale della Chiesa è esposto su BeWeb, è soprattutto a partire dal 2014 che l’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici ha deciso di sollecitare le realtà ecclesiali locali a realizzare e condividere su tale portale progetti di valorizzazione dei propri complessi museali[214]. In questo modo BeWeb si è dotato di una complessa struttura narrativa, la quale, grazie alla pubblicazione di un tool nel 2015 per la creazione di visite virtuali, è stata arricchita dall’introduzione di percorsi di visualizzazione online di mostre ed edifici di culto[215].
L’immersione nel digitale di chiese e istituti culturali ecclesiastici si è tuttavia tradotta in iniziative sporadiche, che hanno visto il coinvolgimento di un ristretto numero di diocesi italiane[216]. Un trend, questo, che relativamente ai musei non sembra essere mutato con l’evento pandemico: se è vero che la chiusura dei luoghi di cultura durante l’emergenza sanitaria ha convinto la maggior parte dei musei statali ad abbracciare tecnologie virtuali avanzate[217], prime fra tutte le sopracitate visite virtuali, è pur vero che all’interno della Chiesa il fenomeno ha specialmente toccato i Musei Vaticani, lasciando nell’ombra la variopinta costellazione di musei parrocchiali e diocesani che diamantano il territorio nazionale[218].
Eppure i virtual tour, laddove si ipotizzasse una loro più incisiva estensione ai musei ecclesiastici, lascerebbero intravedere significativi vantaggi: riduzione del sacrificio paesistico-ambientale per effetto di una diminuzione di attività e spostamenti umani[219]; superamento delle difficoltà connesse alla fruizione fisica, con la possibilità di visionare collezioni che per motivi di sicurezza, degrado o lontananza geografica sarebbero inaccessibili al pubblico. Si tratterebbe però di accostare, o alternare, la visita virtuale a visite in presenza onde scongiurare un ‘effetto sostituzione’ che potrebbe avere ripercussioni negative sulla crescita economica del territorio[220].
Inoltre, l’utilizzo di virtual tour in combinato disposto con la prenotazione gratuita, mediante apposite app, di visite in presenza a numero ridotto, potrebbe limitare la pressione esercitata sulle aree turistiche maggiormente frequentate[221], conservando l’ecosistema e con l’auspicio di rimediare, almeno in parte, a quella sovrapposizione tra esigenze di natura culturale e cultuale particolarmente visibile negli edifici di culto di straordinario valore storico-artistico[222]. Ad ogni modo, anche qualora non si volesse ricorrere alla visita virtuale come strumento di affiancamento a quella in presenza, essa potrebbe fungere da efficace preview al tour reale, valorizzando in via anticipata il bene culturale ecclesiale con l’intento di incuriosire l’utente, suscitandogli il desiderio di una visita in loco.
Ma nell’andare ‘per lo gran mar’ dei musei ecclesiastici occorre sempre tenere la barra dritta sulla loro specificità che sta ˗ come direbbe Enzo Bianchi ˗ nella “differenza cristiana”[223], nel loro farsi presenza fondamentale per un’educazione alla pastorale, alla catechesi e al culto: nell’essere cioè un servizio alla tradizione della fede da attivarsi in un’“azione pertinente all’oggi e al qui della Chiesa”[224]. Stando così le cose, la proiezione del museo ecclesiastico sul web non dovrebbe essere una replica elettronica di quello reale, un’asettica riproduzione in un video delle sale e delle opere con il loro cartellino, bensì una proiezione visuo-interattiva e comunicativa che possa non soltanto abbagliare il cyber-visitatore, ma anche educarlo al sensus Ecclesiae[225].
In questo senso, si ipotizzano nuovi modi di osservare e narrare l’heritage religioso al fine di rendere i musei ecclesiastici, in specie quelli diocesani, dei “nodi di trasmissione di una locale/universale storia della Chiesa”[226] ove il manufatto d’arte sacra in essi conservato da semplice oggetto-cimelio messo in mostra diventi, come soleva affermare Giovanni Paolo II, il “volto concreto e fruibile della memoria storica del cristianesimo”[227]. Ecco perché il virtual tour dovrebbe offrire esperienze di navigazione personalizzata dei contenuti, percorsi di lettura autonomi attraverso i quali l’utente possa comprendere, finanche ‘da casa’, la ricchezza del messaggio rivelato, rafforzando la propria appartenenza alla comunità ecclesiale.
È chiaro che la visita virtuale sarà profondamente diversa da quella in presenza giacché, per quanto possa incentrarsi su uno storytelling attrattivo, rimarrà sempre e comunque un’esperienza caratterizzata dallo stare fermi davanti a uno schermo su cui scorrono immagini. Ed è bene allora rimarcare un aspetto che nell’epoca del predominio tecnologico si tende forse a sottovalutare: il museo “si percepisce anche, e non secondariamente, con il corpo e non solo con gli occhi”[228]. Muoversi nelle gallerie attorno e davanti agli oggetti, avendo il senso della posizione e dello spazio, genera un’impressione percettiva certamente non comparabile a quella che si sperimenta nel vedere un quadro al pc[229].
Pertanto, nel tentare di preservare il più possibile questa ‘corporeità’ della visita museale, i tour in presenza potrebbero essere arricchiti con racconti visivi di qualità, coinvolgenti e di grande impatto ricorrendo alle due maggiori potenzialità delle attuali tecnologie digitali: la realtà aumentata e la realtà virtuale. Se la prima consiste, come noto, in una sovrapposizione di oggetti digitali al mondo reale, permettendo a chi la fruisce di continuare a vivere nel proprio spazio fisico conscio di ciò che lo circonda, ma con l’opportunità di acquisire informazioni aggiuntive che non potrebbero essere percepite dai cinque sensi; la seconda trasporta l’utente, mediante l’uso di un visore[230], in un ambiente sintetico totalmente fittizio e artificiale, isolandolo dal mondo reale circostante[231].
Così definita si comprende come la augmented reality richieda una potenza di elaborazione minore rispetto alla virtual reality in quanto è sufficiente cogliere solamente la geometria della scena in cui verranno a collocarsi i contenuti digitali, non essendo necessario un rendering completo di quest’ultima[232]. Di conseguenza, essa viene agevolmente veicolata attraverso smartphone o tablet[233]: le informazioni potranno apparire sullo schermo inquadrando con la fotocamera il marker relativo, uno schema bidimensionale di forma quadrata composto da celle nere e bianche (c.d. marker-based augmented reality); oppure, in un approccio di tipo markerless, esse si otterranno a prescindere dal riconoscimento della fotocamera di uno specifico pattern d’immagine (c.d. markerless augmented reality)[234]. In quest’ultimo caso, ogni parte dell’ambiente fisico potrà fungere da base per il posizionamento di oggetti virtuali cosicché l’utente, svincolatosi dai limiti dell’area tracciabile con il marker, avrà la possibilità di ‘bersagliare’ con il proprio dispositivo qualsiasi punto dell’opere d’arte a cui è maggiormente interessato, godendo di una fruizione potenziata e amplificata[235].
In questo senso, sia la realtà aumentata sia quella virtuale consentirebbero non solo l’attivazione di itinera stuporis funzionali all’appeal del museo ecclesiastico, ma anche la creazione di layer aggiuntivi di conoscenza che, senza snaturare “il diverso quadro valoriale di riferimento”[236], potrebbero aiutare “l’uomo contemporaneo […] a ritrovare lo stupore religioso davanti al fascino della bellezza e della sapienza […]”[237]. Del resto, come amava ricordare Giovanni Paolo II, i musei ecclesiastici “non sono depositi di reperti inanimati, ma perenni vivai […]”[238] in cui il credente, tramite l’incontro con manufatti d’arte visibili che rinviano all’invisibile[239], riscopre il valore incrollabile della storia e della cultura religiosa.
Last but not least, in una temperie culturale contraddistinta da un dilagante analfabetismo religioso che sempre più sterilizza la capacità di comprensione della bellezza, lo sviluppo di un software progettato per simulare una conversazione con un essere umano (c.d. chatbot)potrebbe estendere, nella prospettiva dell’audience engagement e dell’edutainment, la scoperta della collezione museale anche ai più giovani[240]. L’intreccio di moduli comunicativi informali con dinamiche di gamification, unito alla facilità di implementazione sui dispositivi mobili ˗ si pensi a solide piattaforme come Telegram e Facebook (oggi Meta) Messenger ˗ rendono il chatbot un mezzo efficace per raggiungere e coinvolgere la platea dei nativi digitali, sicuramente la più difficile da intercettare e indirizzare verso la fruizione di un museo in generale ed ecclesiastico soprattutto[241].
7. Pillole di informatica per una fruizione eco-friendly dei beni culturali ecclesiali: spunti di prospettiva e postille conclusive
Se è vero che l’emergenza epidemiologica è stata per le realtà museali ˗ specialmente statali ˗ un incubatore e un acceleratore di processi di innovazione, è altrettanto vero che l’‘abbuffata’ digitale dovuta all’evento pandemico ha costituito un turning point persino nel settore dell’informatica, contribuendo all’erogazione di risorse hardware e software più rispettose dell’ambiente. Il paradigma di questo new deal dei servizi IT è stata l’Agenda 2030 dell’ONU per lo Sviluppo Sostenibile, la quale, nell’inglobare 17 Sustainable Development Goals (SDGs) che interessano da vicino l’ambiente, l’economia, il sociale e le istituzioni, intende promuovere la crescita economica salvaguardando il pianeta[242]. In tal guisa, i governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite sono stati chiamati ad adottare programmi d’azione che incidano sulla produzione e sul consumo in maniera responsabile, allo scopo di contrastare il cambiamento climatico, tutelando in modo più efficace i beni ambientali: finalità, queste, che alla luce del quadro critico cagionato dagli effetti della pandemia da Covid-19 sono divenute indifferibili[243].
Sebbene la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che ha approvato l’Agenda 2030 ometta di considerare la rilevanza delle confessioni religiose nell’attuazione degli SDGs, non v’è dubbio che queste ultime giochino un ruolo decisivo nell’orientare il dibattito internazionale sul tema del diritto all’ambiente[244]. Invero le religioni, in specie quella cattolica, sono da sempre impegnate nella sfida ecologica, economica e sociale dello sviluppo sostenibile, consapevoli che i principi comuni di solidarietà, fratellanza e uguaglianza di cui sono portatrici costituiscono il fondamento assiologico su cui modellare “una visione umanistica integrale, che guarda all’uomo e ai suoi bisogni in maniera onnicomprensiva”[245].
Mostrando uno sguardo attento e per nulla evasivo sulla tematica dell’ambiente, il magistero della Chiesa cattolica opera in euritmia con le strategie poste in essere dalle Nazioni Unite per l’affermazione degli SDGs[246]. Del resto, già Paolo VI, in occasione del 25° anniversario della FAO, rimarcava l’impellenza di “un mutamento radicale nella condotta dell’umanità, se questa vuol essere sicura della sua sopravvivenza”[247] ed esortava il fedele ˗ nella lettera apostolica Octogesima adveniens del 14 maggio 1971 ˗ a prendere coscienza del fatto che “attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura, egli rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione”[248].
Successivamente Giovanni Paolo II, nello stimolare una generale conversione ecologica[249], sottolineava nell’Enciclica Redemptor hominis del 4 marzo 1979 che “lo sviluppo della tecnica non controllato né inquadrato in un piano a raggio universale ed autenticamente umanistico, porta spesso con sé la minaccia all'ambiente naturale dell'uomo, lo alienano nei suoi rapporti con la natura, lo distolgono da essa”[250]. Da questa angolazione, il Pontefice incoraggiava l’uomo a comunicare con la natura non “come sfruttatore e distruttore”, bensì come “custode intelligente e nobile”[251].
Per non infrangere la linea dei predecessori Papa Francesco, con l’Enciclica Laudato sì del 24 maggio 2015, “dà sostanza e sostegno etico, spirituale e giuridico al modello di sviluppo sostenibile auspicato dall’Agenda ONU 2030”[252], gettando le fondamenta per la creazione di “una cittadinanza ecologica” che riposi sulla cura del creato e su “un’educazione alla responsabilità ambientale”[253]. Tale impegno si cementifica il 3 ottobre 2020, allorquando nell’Enciclica Fratelli tutti Bergoglio dichiara che “prendersi cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa prendersi cura di noi stessi”[254].
Nel segno di questa Enciclica nel novembre del medesimo anno il Santo Padre invita all’evento di Assisi The Economy of Francesco. I giovani, un patto, il futuro chi “oggi si sta formando e sta iniziando a studiare e praticare una economia diversa, quella che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del creato e non lo depreda”[255]. Ad Assisi è venuta alla luce una community denominata The Economy of Francesco, formata da un gruppo di giovani professionisti che oltre a trattare argomenti di carattere economico-filosofico, teologico e sociologico, si occupa di risorse naturali e nuove tecnologie[256].
Nonostante la recente istituzione, essa rappresenta un esempio virtuoso dell’agire dei giovani verso il raggiungimento degli SDGs e in quel ricchissimo crogiolo di saperi di cui è espressione va sottolineato come si stagli con particolare nitore il connubio tra tutela dell’ambiente e ICT (Information and Communication Technologies): un connubio che, favorito dall’emergenza sanitaria, pare presentarsi come la nuova bussola per la via della sostenibilità. Di notevole interesse è allora la Green IT o Green Computing, branca della scienza informatica che nell’intersecare la software engineering classica con le tematiche della climatologia, del mercato dell’energia e del design di hardware e data center mira a confezionare un abito eco-sostenibile a tutto il lifecycle di un’infrastruttura IT[257].
Si augura l’estensione di questa disciplina anche al comparto dei beni culturali ecclesiali dal momento che l’inventariazione informatizzata di biblioteche e archivi ˗ pur avendo i suoi benefici nel possibile calo di utilizzo della carta ˗ non sembra sufficiente a minimizzare l’impatto ambientale. E lo stesso dicasi per la loro trasposizione sul web assieme ai musei ecclesiastici: è noto infatti che qualsiasi applicazione, per il solo fatto di essere eseguita, necessita di corrente elettrica e ciò significa emettere Co2 a ogni run. E sapendo quanto alcune di esse possano diventare ‘virali’, non si fatica a comprendere come una scelta non ragionata in un’architettura o in un algoritmo possa avere l’effetto di quel famoso battito d’ali di farfalla[258].
Con l’intento di sviluppare applicazioni energy-efficient, la Green IT allude principalmente a soluzioni di cloud computing[259]: un set di tecnologie informatiche che nel fornire risorse computazionali condivise e distribuite in remoto in una tipica architettura client/server si muovono verso la progressiva decarbonizzazione dei processi operativi[260]. Il cloud provider permetterebbe infatti di votarsi a dei green data center, data center che oltre a servirsi di fonti di energia rinnovabile per alimentare e raffreddare gli impianti, sono costituiti da infrastrutture meno monolitiche e meno energivore in quanto virtualizzate[261].
Nei suoi termini più generalisti la virtualizzazione dei server (anche detta virtualizzazione lato hardware) consiste nell’astrazione di risorse fisiche per rendere disponibili dei pool di risorse su macchine virtuali (c.d. virtual machine o strato di middleware)[262]. Tale approccio introduce senza dubbio un aspetto innovativo: difatti se il deployment tradizionale di una applicazione ˗ anche quella che traduce in bit un bene culturale ecclesiale ˗ è basato su più macchine fisiche, attraverso la virtualizzazione questo concetto viene completamente ribaltato perché è possibile collocare su un’unica macchina fisica una pluralità di server virtuali[263].
Il vantaggio più ovvio consiste nel risparmio economico ottenuto con la riduzione del numero dei calcolatori[264] a cui si aggiunge una riorganizzazione e razionalizzazione ottimale dei servizi IT a disposizione, considerato che il server fisico in questione ˗ ospitando tanti server virtuali ˗ verrebbe impiegato fino a saturare la propria capacità elaborativa, ovviando al noto problema del sottoutilizzo dei server[265]. Ma è altrettanto evidente che laddove venisse diminuito il numero di macchine fisiche ne deriverebbe un significativo risparmio in termini di alimentazione, visto che si tratta di sistemi progettati per funzionare 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, con un conseguente abbassamento di consumi e sprechi energetici[266].
La macchina virtuale è un computer a tutti gli effetti, su cui è possibile installare un sistema operativo e le applicazioni necessarie in maniera del tutto analoga a quanto avverrebbe su una macchina fisica. Nello specifico, essa agisce come un sistema guest (ospite), mentre l’host, il sistema ospitante, è il server fisico sul quale vengono eseguite più virtual machine in contemporanea[267]. Il livello di astrazione tra risorse fisiche e il pool di risorse che caratterizza l’ambiente virtuale si ottiene utilizzando un hypervisor (o virtual machine monitor), un software che consente di eseguire più sistemi guest su un singolo sistema host[268].
Significativo è rilevare come la CEI stia muovendo i suoi primi passi sul terreno della virtualizzazione nell’ambito dell’offerta di Webdiocesi, una piattaforma, rectius un Content management system che permette di realizzare, in modo gratuito, il sito web diocesano senza conoscere le tecniche di programmazione specialistica per il web[269]. È infatti durante la creazione del sito che la diocesi può avvalersi, sempre gratuitamente, di una serie di servizi disponibili sui server della CEI: non solo spazio web in hosting condiviso, ma anche soluzioni di hosting dedicato su virtual machine[270].
Ma non sempre la virtualizzazione dei server è la soluzione ideale. Un consolidamento mal pianificato potrebbe in effetti portare a seri rischi dal punto di vista economico nonché ridurre i benefici sull’ambiente. Si vedano le situazioni più frequenti: il collocamento di un numero eccessivo di macchine virtuali sulla stessa macchina fisica e la mancanza di una strategia per far fronte a situazioni critiche[271].
Il primo caso riguarda la proliferazione virtuale. Se si eccede nella creazione di server virtuali, perché ad esempio viene sviluppata una virtual machine per ogni servizio, gli effetti positivi del consolidamento tendono a svanire: le risorse utilizzate aumentano velocemente, con il rischio di ‘ingolfare’ la macchina, e la manutenzione diviene articolata per colpa della maggior complessità logica dell’infrastruttura[272].
Il secondo caso fa riferimento al disaster recovery: un disservizio grave su un elaboratore che ospita decine e decine di applicazioni su macchine virtuali provoca danni superiori rispetto alla precedente soluzione fisica che ne gestiva sicuramente di meno. Ciò significa che per garantire un minimo di tolleranza ai guasti (c.d. fault tolerance), sarà utile mantenere dei computer di riserva con caratteristiche analoghe a quelli che stanno erogando i servizi, pronti a entrare in funzione per sostituire un’eventuale macchina fisica guasta[273]. Chiaramente questo comporta non solo una duplicazione dell’investimento necessario per l’acquisto di hardware per la virtualizzazione ˗ senza considerare che la sostituzione di un componente malfunzionante ha in genere un costo maggiore a causa della qualità dei pezzi ˗ ma anche un dissolversi dell’aspetto ‘green’ per via di un aumento dei server fisici.
Non va tuttavia dimenticato che al giorno d’oggi accanto all’esecuzione diretta su macchine fisiche e/o virtuali sta prendendo popolarità il dispiegamento di applicazioni tramite container. Si tratta di una seconda tipologia di virtualizzazione, a livello di sistema operativo, più leggera rispetto a quella hardware perché, a differenza delle macchine virtuali, i container sono ambienti di runtime isolati che condividendo il kernel con il sistema operativo dell’host non necessitano di un hypervisor[274]. Tale soluzione, rispetto a una classica virtual machine sulla quale ˗ giova rammentarlo ˗ grava il peso di un sistema operativo completo, risulta più flessibile nella gestione, ma al contempo gode di un livello di isolamento inferiore rispetto al sistema host, potendo risultare nel complesso più vulnerabile[275].
Preme precisare che ove si ipotizzasse di sviluppare un’applicazione organizzata in container (e ciò vale anche per quella che digitalizza un bene culturale ecclesiale), sarebbe necessario uno strumento per metterla in esecuzione, vale a dire un software capace di eseguire applicativi containerizzati al fine di renderli facilmente fruibili. Siffatta funzione è svolta da Kubernetes (d’ora in avanti K8s), una piattaforma di orchestrazione di container (c.d. container orchestrator engine) sviluppata da Google e resa open source nel 2014[276].
Un’infrastruttura K8s è generalmente fornita da un cloud provider[277] e adotta il modello del cluster computing, un insieme di computer interconnessi tra loro tramite una rete locale (LAN)[278]. Ogni macchina, fisica o virtuale, che esegue al suo interno container di applicazioni, costituisce un nodo (o host) del cluster e mette a disposizione le proprie risorse hardware in termini di CPU, RAM e storage[279]. K8s si servirà di queste risorse per eseguire su più nodi, o su uno singolo, i container dei vari servizi[280].
Più nel dettaglio, K8s raggruppa i container che compongono gli applicativi in unità logiche chiamate pod[281]. Si tratta di strutture che contengono uno o più container destinati ad eseguire specifiche applicazioni; collocati su uno o più nodi del cluster sono in grado di cooperare e comunicare tra di loro (per esempio un pod A che espone un servizio web, come il sito di un museo ecclesiastico, può richiedere a un pod B di effettuare un calcolo o a un pod C di salvare dati in un database)[282]. Dialogando con il container runtime, il software che gestisce l’esecuzione di container (solitamente Docker)[283], K8s decide non solo quanti pod adoperare e su quali host allocarli, ma può altresì decidere di replicarli in più istanze, rendendole eseguibili su uno stesso nodo o su nodi diversi per distribuire meglio il carico[284].
Una particolare caratteristica di questo container orchestrator engine è la scalabilità automatizzata (autoscaling), ossia la capacità di un cluster K8s ˗ mediante tre sue componenti (Horizontal Pod AutoScaler, Vertical Pod Autoscaler e Cluster Autoscaler) ˗ di aumentare o diminuire di dimensione in base al carico di richieste degli utenti[285]. Ed è nell’autoscaling di K8s, unito alla sua generale capacità di bilanciare il workload sui vari nodi, che si scorgerebbe l’aspetto ‘green’ di questa peculiare tecnologia: un’allocazione dinamica e distribuita delle risorse potrebbe ridurre sovraccarichi energetici che di norma sono più frequenti nella virtualizzazione lato hardware, essendo basata su infrastrutture maggiormente consolidate e centralizzate.
Una prospettiva quella della virtualizzazione hardware e software, quale principale declinazione della Green IT, che nell’accelerazione inaspettata e apparentemente irreversibile impressa dall’esperienza pandemica non dovrebbe essere ignorata dalla scienza canonistica ed ecclesiasticistica. Il processo di inventariazione informatizzata esposto nelle pagine precedenti rappresenta indubbiamente uno snodo significativo dell’avanzare della Chiesa cattolica ˗ ma analogamente altresì, mutatis mutandis, delle altre confessioni religiose in relazione ai beni culturali ad esse avvinti ˗ sul sentiero della tecnica. Dinanzi a un domani che già bussa alla porta tale inventariazione dovrebbe porsi come un punto di partenza per lo studio e l’elaborazione di formule innovative: formule che siano cioè in grado di sfruttare appieno tutte le potenzialità dei moderni strumenti tecnologici.
Pertanto, nell’evolversi di un destino in cui la virtualità si afferma come la chiave di interpretazione principe del nostro tempo, si auspica, nelle direzioni di indagine illustrate dal presente contributo, un’implementazione più intensa e consapevole dell’informatica al comparto dei beni culturali ecclesiali, affinché quest’ultima possa divenire un fecondo terreno per la costruzione di rinnovati modelli di fruizione e valorizzazione, un telaio su cui intessere la trama di una nuova ricucitura di senso. Un’informatica, quindi, che nello smarrimento collettivo causato dall’emergenza sanitaria diventi la via privilegiata per restituire significato e vitalità ai bona culturalia, dischiudendoli, come amava dire Leibniz, a infiniti mondi possibili, a inedite esegesi immersive ed eco-friendly.
Del resto, se non si vuole naufragare nella fiumana della digitalizzazione, è forse giunto il momento, in una società post-pandemica che si regge appena, di congedarsi dai lidi della parcellizzazione e segmentazione dei saperi per approdare a nuove convergenze ad unità e contaminazioni, a più profonde alleanze culturali. Certo, è richiesto, in particolare alla Chiesa cattolica, un discernimento coraggioso, quasi audace, che le permetta di superare steccati e schemi oramai datati: ma non v’è dubbio che la sua tradizionale capacità di scrutare il mondo le consentirà, ancora una volta, di intus legere i segni del tempo al fine di rinvenire, nel mezzo tecnologico applicato al suo patrimonio, una nuova epifania di bellezza.
Abstract: Starting from an examination of the juridical discipline reserved for ecclesial cultural heritage ˗ in the light of their liens étroits with cultural tourism of religious interest ˗ this contribution aims first of all to dwell on the role of the ecclesiastical archives and libraries, underlining their digitization. Subsequently, by highlighting the transposition on the web of ecclesiastical museums, we will try to open up new avenues of research in order to highlight the fruitful effects that specific digital tools could have on the aforementioned cultural institutes. It will end with a foray into the IT sector, trying to glimpse how the application of particular technological solutions, in the translation into bits of an ecclesial cultural asset, could contribute to a transition towards models of full sustainability, cementing that now inseparable link between the teachings of the Catholic Church and "care of the common home".
Key words: Ecclesial cultural heritage; ecclesiastical archives, libraries and museums; IT; environment; teachings of the Catholic Church.
*Università di Bologna (ilaria.samore2@unibo.it).
** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] Vorrei in questa sede ringraziare il Professore Vittorio Ghini del Dipartimento di Informatica ˗ Scienza e Ingegneria dell’Università degli Studi di Bologna ˗ sede di Cesena ˗ per la disponibilità e il prezioso aiuto offertomi nell’elaborazione della parte informatica del presente contributo.
[2] Significativo è stato il successo dell’applicazione digitale Miracle. Lanciata nel 2018 e disponibile su Android e IOS, essa ha triplicato, durante il periodo pandemico, il numero di download. Nata con l’obiettivo di creare una comunità cattolica virtuale e un hub di supporto per i fedeli, l’app presenta funzionalità diverse: dall’individuazione del santo del giorno, alle preghiere fino al rosario. Benché non abbia ancora una ‘validazione’ ufficiale dal Vaticano, Miracleha suscitato ampio interesse soprattutto per la presenza di alcuni tool che la fanno assomigliare a un social network. Tra le app più scaricate compare altresì CEI-Liturgia delle ore, strumento digitale della Conferenza episcopale italiana che permette di ascoltare la liturgia, restando aggiornati sulle news più recenti del mondo cattolico. Di non minor importanza è Click to pray, l’app promossa dalla Rete Mondiale di Preghiera del Papa e contenente il profilo personale di Bergoglio: cfr. https://www.miracle.app; https://www.liturgico.chiesacattolica.it; https://www.clicktopray.org(consultato 25 marzo 2022)
[3] Cfr. M. Cammelli, Pandemia: the day after e i problemi del giorno prima, in Aedon. Rivista di arti e diritto online (www.aedon.mulino.it), 1 (2020), p. 1.
[4] A. Spadaro, Una nuova immagine del possibile. Sette immagini di Francesco per il post Covid-19, in La civiltà cattolica, 2 (2020), quad. 4080, pp. 567-580.
[5] Cfr. A. Sau, Le frontiere del turismo culturale, in Aedon. Rivista di arti e diritto online (www.aedon.mulino.it), 1 (2020), p. 46.
[6] Papa Francesco, Lettera Enciclica Laudato sì sulla cura della casa comune, 24 maggio 2015, in https://www.vatican.va.
[7] A.G. Chizzoniti ˗ A. Gianfreda, Il turismo religioso: nuove dimensioni per la valorizzazione del patrimonio culturale, in Aedon. Rivista di arti e diritto online (www.aedon.mulino.it), 2 (2020), p. 123; A.G. Chizzoniti, Il turismo religioso tra normativa statale e normativa religiosa, in Codice del Turismo religioso, a cura di A.G. Chizzoniti, Milano, 1999, pp. 1-37.
[8] Cfr. A. Pignatti, L. Baraldi, Il patrimonio culturale di interesse religioso. Sfide e opportunità tra scena italiana e orizzonte internazionale, Milano, 2017, pp. 33-34.
[9] Cfr. A.G. Chizzoniti - A. Gianfreda, Il turismo religioso: nuove dimensioni per la valorizzazione del patrimonio culturale, cit., p. 121; A. Pignatti, L. Baraldi, Il patrimonio culturale di interesse religioso. Sfide e opportunità tra scena italiana e orizzonte internazionale, cit., p. 34.
[10] Sul tema si rinvia a G. Arrighi, Gli uomini della distanza. Esperienze di pastorale del turismo, Roma, 1985, passim; A. Marchetto, Le tourisme, une réalité transversale: aspects pastoraux, in People on the Move, 102 (2006), p. 147 ss; Id., Aspectos de pastoral de la mobilidad humana, in People on the Move, 106 (2008), p. 83 ss.
[11] Concilio Vaticano II, Decreto sull’apostolato dei laici Apostolicam Actuositatem, 18 novembre 1965, in https://www.vatican.va, n. 14.
[12] Cfr. M. Ganarin, Turismo religioso, valorizzazione e fruizione del patrimonio culturale religioso, in corso di pubblicazione.
[13] Pontificia Commissione per la pastorale delle migrazioni e del turismo, Lettera circolare alle Conferenze Episcopali sul tema Chiesa e mobilità umana, 26 maggio 1978, in On the Move, 8 (1978), p. 7 ss. Nell’ambito della parabola evolutiva che contraddistingue la produzione e il consumo turistico emerge l’espressione ‘turismo dell’heritage’, volta a sottolineare non solo la dimensione immateriale del patrimonio culturale (compreso quello religioso), ma anche i saperi tecnici e artigianali che concorrono allo sviluppo di un territorio e della comunità ivi stanziata. A ciò si aggiunga quello che da qualche anno viene chiamato ‘turismo esperienziale’ o ‘turismo creativo’, rivolto alle performing arts e alle molteplici forme della creatività contemporanea (visual arts, moda, design): cfr. W. Santagata, La fabbrica della cultura. Ritrovare la creatività per aiutare lo sviluppo del paese, Bologna, 2007, passim; G. Severini, L’immateriale economico nei beni culturali, in Aedon. Rivista di arti e diritto online (www.aedon.mulino.it), 3 (2015), passim.
[14] Pontificia Commissione per la pastorale delle migrazioni e del turismo, Lettera circolare alle Conferenze Episcopali sul tema Chiesa e mobilità umana, cit., n. 5.
[15] Cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio di Sua Santità per la XXII giornata mondiale del turismo 2001, 9 giugno 2001, in https://www.vatican.va, n. 2.
[16] Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, Messaggio in occasione della giornata mondiale del turismo 2009, 24 giugno 2009, in https://www.press.vatican.va.
[17]Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso all’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (Unesco), 2 giugno 1980, in www.vatican.va, n. 10: “Per creare la cultura, bisogna […] affermare l’uomo per se stesso e non per qualche altro motivo o ragione: unicamente per se stesso! Ancor più, bisogna amare l’uomo perché è uomo”. Si rinvia altresì a C. Valenzano, Chiesa e beni culturali. Prospettive teologiche e pastorali, in Arte Cristiana, 80 (1980), pp. 226-227.
[18] Concilio Vaticano II, Costituzione conciliare Gaudium et Spes, 7 dicembre 1965, in https://www.vatican.va, n. 60, ove la nozione di bene culturale è associata al diritto di ciascun uomo a “una cultura umana e civile conforme alla dignità della persona”.
[19] G. Silvestri, Cultura e culto, in La rivista del clero italiano, 77 (1996), pp. 690-691.
[20] C. Azzimonti, I beni culturali ecclesiali nell’ordinamento canonico e in quello concordatario italiano, Bologna, 2001, p. 24.
[21]Giovanni Paolo II, Discorso all’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (Unesco), cit., n. 7. Ponendo sempre al centro delle sue riflessioni l’uomo, il Santo Padre, nel Discorso ai Vescovi della Liguria in visita «ad limina Apostolorum», 8 gennaio 1982, in https://www.vatican.va, n. 5, ricorda che bisogna evitare il rischio “di strumentalizzare la persona umana, fino a capovolgere i termini e fare l’uomo per il turismo, e non il turismo per l’uomo”. Nello stesso senso si esprime Benedetto XVI, Lettera Enciclica Caritas in veritate sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità, 29 giugno 2009, in https://www.vatican.va, n. 61.
[22] Giovanni Paolo II, Discorso all’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (Unesco), cit., n. 6.
[23] Cfr. P. Rossi, Cultura e antropologia, Torino, 1983, pp. 1143-1155; C. Chenis, Fondamenti teorici dell’arte sacra: Magistero post-conciliare, Roma, 1991, p. 25.
[24] Cfr. G. Silvestri, Cultura e culto, cit., pp. 688-698.
[25] C. Azzimonti, I beni culturali ecclesiali nell’ordinamento canonico e in quello concordatario italiano, cit., p. 26.
[26] Ivi, p. 27.
[27] Giovanni Paolo II, Discorso all’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (Unesco), cit., n. 8.
[28] Cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione conciliare Gaudium et Spes, cit., n. 53: “Con il termine generico di “cultura” si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l’uomo affina ed esplica le molteplici sue doti di spirito e corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale […], mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l’andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano”. Sulla poliedricità della nozione di cultura si rinvia a F. Merusi, Significato e portata dell’art. 9 Costituzione, in AA.VV., Aspetti e tendenze del diritto costituzionale. Scritti in onore di Costantino Mortati, vol. III, Milano, 1977, p. 806 ss; M. Ainis, Cultura e politica. Il modello costituzionale, Padova, 1991, p. 33 ss; M.S. Giannini, Sull’art. 9 Cost. (la promozione culturale), in AA.VV., Scritti in onore di Angelo Falzea, vol. III, Milano, 1991, pp. 433-442.
[29] A questo proposito si rinvia alla Sacra Congregazione per il clero, Direttorio Generale per la Pastorale del Turismo Peregrinans in terra, 30 aprile 1969, in https://www.vatican.va, laddove raccomanda la formazione non solo spirituale ma anche culturale delle guide turistiche. Nello stesso senso si esprime il Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, Orientamenti per la pastorale del turismo, 29 giugno 2001, in https://www.vatican.va, n. 28: “Quando le guide presentano ai turisti luoghi, monumenti o avvenimenti di carattere religioso, devono farlo con consapevolezza e competenza, del tutto coscienti di essere in qualche modo dei veri evangelizzatori, commisurando sempre prudenza e rispetto”.
[30] Come noto, la commissione Franceschini, dal nome del suo presidente, fu insediata dal Parlamento italiano con legge 26 aprile 1964, n. 310 come “Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione delle cose di interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio”: cfr. D. Resta, I beni culturali nella Costituzione e nella legislazione ordinaria, in Amministrare, a cura di D. Mandolfino, Milano, 1977, p. 432; M.S. Giannini, I beni culturali, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 3 (1976), p. 5.
[31] Come ricorda I. Zuanazzi, Beni culturali ecclesiali e dismissione del patrimonio monastico, in In_bo, 12 (2021), p. 63: “Il carattere culturale è dato dalla capacità di testimoniare la fede vissuta nelle comunità cristiane; il carattere prezioso non guarda tanto al valore materiale quanto al valore spirituale; il carattere sacro è da intendere in senso ampio, non solo in riferimento alla dedicazione formale al culto, ma alla categoria del sacramento, come manifestazione del divino attraverso le opere di fattura umana”. Si veda altresì B. Serra, La protección de los bienes culturales de la Iglesia católica: la experiencia italiana, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 42 (2017), pp. 1-21.
[32] Cfr. F. Petroncelli Hübler, I beni culturali religiosi: quali prospettive di tutela, Napoli, 2008, p. 113.
[33] Anche la giuspubblicistica italiana si sta muovendo intorno a una concezione di bene culturale la cui qualifica in termini di proprietà risulta sempre più sfumata: il bene non sarebbe più inquadrabile sotto il profilo dell’appartenenza pubblica o privata, statuale o ecclesiastica, ma secondo il regime della fruibilità, ovverosia della persona e della collettività che fruiscono di cultura. A questo proposito si parla di ‘beni comuni’, categoria che guarda alla funzione sociale della res in una dimensione esclusivamente collettiva. Del resto, lo stesso Giannini, nel distinguere il valore culturale del bene dall’oggetto materiale, spiegava che “il bene culturale è pubblico non in quanto bene di appartenenza, ma in quanto bene di fruizione” (M.S. Giannini, I beni culturali, cit., p. 31): sul punto si rinvia, per tutti, a U. Mattei, Beni comuni: un manifesto, Roma-Bari, 2011, p. 34 ss; N. Genga, Beni comuni tra Stato e mercato: sui casi di ripubblicizzazione del servizio idrico in Francia, in I beni comuni tra costituzionalismo e ideologia, a cura di N. Genga – M. Prospero – G. Teodoro, Torino, 2014, p. 119 ss; M. Prospero, Beni comuni. Tra ideologia e diritto, in I beni comuni tra costituzionalismo e ideologia, cit., p. 1 ss.
[34]Cfr. A. Nicora, I beni culturali ecclesiastici e il nuovo Concordato, in La rivista del clero italiano, 67 (1996), p. 296.
[35] In verità, come ricorda E. Camassa, I beni culturali di interesse religioso. Principio di collaborazione e pluralità di ordinamenti, Torino, 2013, p. 7, l’espressione compare per la prima volta nel 1982, nel corso delle trattative dell’Accordo del 1984 e, segnatamente, nella redazione della quinta bozza bis. Peraltro, la stessa Autrice evidenzia che nelle intese stipulate con le confessioni acattoliche l’espressione non compare, preferendo “[…] parlare, con sfumature leggermente differenti, di “beni afferenti al patrimonio storico, artistico e culturale”, facendo riferimento in alcuni casi al patrimonio ambientale, architettonico, o al “patrimonio storico morale e materiale””.
[36] Cfr. A. Roccella, I beni culturali ecclesiastici, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1 (2004), p. 201 ss.
[37] Cfr. C. Corral Salvador, El patrimonio cultural de la Iglesia y su normativa plural, in Estudios eclesiásticos, 76 (2001), pp. 105-113.
[38] È risaputo che la legge n. 1089 del 1939 non parla ancora di bene culturale, bensì di “cose d’interesse artistico e storico” e nell’art. 8 di “cose appartenenti ad enti ecclesiastici”. Nell’ordinamento giuridico italiano la nozione di bene culturale è introdotta dal decreto legge 14 dicembre 1974, n. 657, convertito nella legge 29 gennaio 1975, n. 5, istitutivo del Ministero dei beni culturali. Sul piano internazionale, la stessa espressione risale a un tempo anteriore. Come noto, è infatti l’art. 1 della Convenzione dell’Aja del 14 maggio 1954, promossa dall’UNESCO e resa esecutiva in Italia con legge 7 febbraio 1958, n. 279, a inaugurare per la prima volta la predetta locuzione, non mancando di individuare i riferimenti alla dimensione religiosa: cfr. M. Frigo, La protezione dei beni culturali nel diritto internazionale, Milano,1986, passim; F. Margiotta Broglio, La tutela dei beni culturali di interesse religioso nel diritto internazionale, in Patrimonio culturale di interesse religioso in Italia. La tutela dopo l’Intesa del 26 gennaio 2005, a cura di M. Madonna, Venezia, 2007, p. 172.
[39] È nell’inciso “beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti ed istituzioni della Chiesa cattolica o di altre confessioni” dell’art. 9 del d.lgs. 42/2004 che si deve cogliere una delle novità più importanti di questa norma e dell’art. 19 del T.U., suo precedente omologo. Come ricorda A.G. Chizzoniti, Il Testo Unico sui beni culturali e le novità di interesse ecclesiastico. Una prima lettura, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2 (2000), p. 452: “La formula, infatti, presenta un’ampiezza tale da coprire oltre ai soggetti legati alla Chiesa cattolica ˗ gli unici già tutelati dall’art. 8 della legge n. 1089 del 1939 ˗ anche quelli che hanno stipulato una intesa con lo Stato ai sensi dell’art. 8, 3° comma della Costituzione e tutti gli enti ed istituzioni che siano organicamente legati ad una confessione religiosa legittimamente operante nel territorio italiano”: cfr. altresì F. Margiotta Broglio, I beni culturali di interesse religioso (art. 19 D.Lvo 490/1999), in Aedon. Rivista di arti e diritto online (www.aedon.mulino.it), 1 (2000), p. 82; M.V. Missiroli, I beni culturali di interesse religioso dall’Accordo del 1984 al «Codice Urbani», in Iustitia, 2-3 (2004), pp. 313-314.
[40] Agli occhi della dottrina la nozione formulata dalla commissione Franceschini costituirebbe una reazione alla visione umanistico-idealistica dell’opera d’arte e, per estensione concettuale, del bene culturale. La concezione umanistico-idealistica ha alla base un’idea di cultura aristocraticamente individualista ed elitaria, individuando nel manufatto d’arte/bene culturale l’opera del soggetto ben dotato, l’espressione dell’eccezionalità dello spirito, l’incarnazione di una creatività e bellezza ‘alta’. In quest’ottica, vengono escluse dal novero delle testimonianze umane da conservare e tramandare al futuro tutte quelle opere considerate non auliche. Per contro, la commissione Franceschini immerge il bene culturale, e l’idea di cultura ad esso sottesa, in una dimensione antropologica: il bene culturale rileverebbe cioè nel suo significato ecologico, essendo legato a un territorio inteso non come semplice spazio geografico, bensì come spazio umano in cui una collettività esprime la propria maturità civile e identità storica: cfr., per tutti, P. Rossi, Cultura e antropologia, cit., pp. 1143-1155; A. Villani, Beni culturali e istituzioni. Beni culturali religiosi e leggi di tutela, in Città e Società, 2 (1972), pp. 52-91; G. Angelini, I beni culturali. Alcune considerazioni sulle questioni di principio sottese, in Città e Società, 2 (1979), pp. 34-51.
[41] G. Saraceni, Cultura e beni religiosi (il fenomeno), Napoli, 1983, p. 31.
[42] Sulla differente natura degli interessi insistenti su tali beni cfr. F. Passaseo, La tutela dell’interesse religioso dei beni culturali. Riflessioni tra ius conditum e ius condendum, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 7 (2018), p. 1.
[43] Cfr. C. Valenziano, Chiesa e beni culturali. Prospettive teologiche e pastorali, in Arte Cristiana, 80 (1988), pp. 225-234.
[44] È significativo rammentare come siano state le riflessioni di un insigne giurista laico, quale Francesco Carnelutti, a offrire alla canonistica uno spunto importante per l’avvio di una comprensione teologica dei beni culturali. È stato infatti l’avvocato e accademico di Udine a contrapporre alla finitezza della cosa materiale l’infinito che vi è racchiuso, ovverosia quel quid pluris che non è fisico, ma metafisico, non tanto naturale quanto soprannaturale (cfr. F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1940, p. 125 ss). Per approfondire la prospettiva teologica dei bona culturalia si rinvia, per tutti, a C. Valenziano, La Chiesa locale e la formazione degli artisti e dei produttori di arte per la liturgia. Parte prima, in Arte Cristiana, 79 (1991), pp. 301-307 e pp. 379-386; Id., Beni culturali tra conservazione e fruizione, memoria e sviluppo, in Arte Cristiana, 76 (1993), pp. 131-132; Id., Sei tesi per l’arte cristiana, in Arte cristiana, 83 (1995), pp. 447-453; Id., Interesse culturale e valenza religiosa: problemi di applicazione della normativa vigente. a) Beni storico-artistici, in Beni culturali di interesse religioso, a cura di G. Feliciani, Bologna, 1995, pp. 207-216.
[45] Si tratta del versetto: ‘Il Padre mio opera sempre e anch’io opero’ (Giovanni 5, 17).
[46] C. Valenziano, Chiesa e beni culturali. Prospettive teologiche e pastorali, cit., p. 228.
[47] Ibid.
[48] Come ricorda C. Azzimonti, I beni culturali ecclesiali nell’ordinamento canonico e in quello concordatario, cit., p. 46: “Con-creatore, con-ricapitolatore sono sviluppi categoriali dell’‘ad immagine e somiglianza’ genesiaca”.
[49] Ciò significa che collaboratore all’attività di Dio non è solo l’artista (cfr. Agostino, De Trinitate XII, 15,24), colui che tradizionalmente viene qualificato come con-creatore, bensì ogni uomo che prosegue l’opera del Verbo: si rinvia a C. Valenziano, Beni culturali tra conservazione e fruizione, memoria e sviluppo, cit., p. 131 ss.
[50] Cfr. Papa Francesco, Messaggio del Santo Padre ai partecipanti al Convegno “Dio non abita più qui?” Dismissione di luoghi di culto e gestione integrata dei beni culturali ecclesiastici”, [Pontificia Università Gregoria, 29-30 novembre 2018], 29 novembre 2018, in https://www.vatican.va.
[51]C. Valenziano, Chiesa e beni culturali. Prospettive teologiche e pastorali, cit., p. 233.
[52] Ibid.
[53] Cfr. M. Ganarin, Turismo religioso, valorizzazione e fruizione del patrimonio culturale religioso, cit.
[54] M. Luisi, La casa religiosa: dalla vita comune alla tutela del bene ecclesiastico. Itinerari canonistici, in In_bo, 12 (2021), p. 79.
[55] Pontificio Consiglio della cultura, Per una pastorale della cultura, 23 maggio 1999, in https://www.vatican.va, n. 17.
[56] Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla prima assemblea plenaria della Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, 12 ottobre 1995, in https://www.vatican.va, n. 6.
[57] Relativamente alla disciplina canonica dei beni culturali cfr., per tutti, G. Feliciani, Il patrimonio dei beni culturali della Chiesa nella revisione del Codice di diritto canonico, in La rivista del clero italiano, 61 (1980), p. 61 ss; R. Bertolino, Nuova legislazione canonica e beni culturali ecclesiali, in Il diritto ecclesiastico, 93 (1982), pp. 250-308; M. Ganarin, Beni culturali della Chiesa cattolica. La disciplina canonica, in Beni ecclesiastici di interesse culturale. Ordinamento, conservazione, valorizzazione, a cura di Acri. Commissione per le Attività e i Beni culturali, Bologna, 2021, p. 13 ss; A. Gianfreda, I beni culturali di interesse religioso nelle fonti di diritto canonico universale e particolare italiano: stato dell’arte e spunti di prospettiva, in Il patrimonio culturale di interesse religioso in Italia. Religioni, diritto ed economia, a cura di G. Mazzoni, Soveria Mannelli, 2021, pp. 61-71.
[58] La Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa ha dunque potuto a buon diritto affermare che “la Chiesa è stata fra le prime istituzioni pubbliche che abbiano regolato con leggi proprie la creazione, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio artistico posto al servizio della propria missione”: cfr. Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, lettera circolare Necessità e urgenza dell’inventariazione e catalogazione dei beni culturali della Chiesa, 8 dicembre 1999, in https://www.vatican.va.
[59] Come noto, è celebre l’Editto del Cardinal Pacca del 7 aprile 1820 che, traendo origine dalle spoliazioni napoleoniche e ponendosi in continuità con il chirografo di Pio VII (1° ottobre 1802), costituisce una prima regolamentazione organica della materia, fungendo altresì da modello per le legislazioni degli Stati preunitari: cfr. M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati preunitari. L’età delle riforme, vol. I, Milano, 1988, p. 191 ss; C. Capizzi, La Chiesa e il suo patrimonio artistico e storico, in La civiltà cattolica, 141 (1990), p. 27 ss.
[60] Cfr. A.G. Chizzoniti, Profili giuridici dei beni culturali di interesse religioso, Tricase, 2008, p. 70 ss.
[61] Sul ruolo dei beni culturali nel Codex del 1917 cfr. G. Feliciani, Normativa della Conferenza Episcopale Italiana e beni culturali di interesse religioso, in Beni culturali di interesse religioso, a cura di G. Feliciani, Bologna, 1995, p. 125 ss; R. Bertolino, Nuova legislazione canonica e beni culturali ecclesiastici, cit., p. 250 ss; M. Madonna, I beni culturali nel diritto della Chiesa cattolica: i soggetti della tutela, in Il patrimonio culturale di interesse religioso in Italia. Religioni, diritto ed economia, cit., p. 72.
[62] G. Feliciani, Normativa della Conferenza Episcopale Italiana e beni culturali di interesse religioso, cit., p. 129 ss.
[63] Cfr. F. Finocchiaro, I beni culturali di interesse religioso: tra formalismo giuridico e sistema delle fonti, in Il diritto ecclesiastico, 105 (1994), p. 427 ss.
[64] Cfr. Segreteria di Stato, Lettera circolare ai Vescovi di Italia, 15 aprile 1923, prot. n. 16605, in Codice dei beni culturali di interesse religioso, a cura di M.V. Missiroli, M. Renna, V.M. Sessa, Milano, 2003, pp. 188-196; Id., Lettera circolare agli Ordinari d’Italia, 1° settembre 1924, prot. n. 34215, in Codice dei beni culturali di interesse religioso, cit., pp. 196-198; Id., Lettera circolare ai Vescovi d’Italia, 1° dicembre 1925, prot. n. 48829, in C. Costantini, La legislazione ecclesiastica sull’arte, in Fede e Arte, 5 (1957), p. 425; Id., Lettera circolare ai Vescovi d’Italia, 1° dicembre 1925, prot. n. 49158, in C. Costantini, La legislazione ecclesiastica sull’arte, cit., pp. 425-426.
[65] Cfr. C. Chenis, Natura, competenze organizzazione e attività della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, in Enchiridion dei beni culturali della Chiesa. Documenti ufficiali della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, Bologna, 2002, p. 23 ss.
[66] Come noto, il magistero conciliare si è occupato di beni culturali nella Costituzione Sacrosanctum Concilium n. 46 e nella Costituzione Gaudium et Spes nn. 56 e 60. La prima stabilisce che “oltre alla commissione di sacra liturgia siano costituite, in ogni diocesi, per quanto possibile, anche le commissioni di musica sacra e di arte sacra” (Concilio Vaticano II, Costituzione conciliare sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, 4 dicembre 1963, in https://www.vatucan.va). La seconda affronta i rapporti tra cultura umana, arte e insegnamento cristiano utilizzando la locuzione bonorum culturalium in un’accezione ampia, “senza alludere a quei beni che sono estrinsecazione materiale di fede ecclesiale di rilevanza storica, artistica o documentale”: C. Azzimonti, I beni culturali ecclesiali nell’ordinamento canonico e in quello concordatario italiano, cit., p. 177, nota 55.
[67] Cfr. Paolo VI, Costituzione apostolica Regimini Ecclesiae universae, 15 agosto 1967, in https://www.vatican.va, Capo VI, n. 70.
[68] Sacra Congregazione per il clero, Lettera circolare Opera Artis de cura patrimonii historico-artistici Ecclesiae, ad Praesides Conferentiarum Episcopalium, 11 aprile 1971, in Acta Apostolicae Sedis, 63 (1971), pp. 315-317.
[69] G. Feliciani, Autorità ecclesiastiche competenti in materia di beni culturali di interesse religioso, in Aedon. Rivista di arti e diritto online (www.aedon.mulino.it), 1 (1998).
[70] Cfr. A.G. Chizzoniti, Profili giuridici dei beni culturali di interesse religioso, cit., p. 76 ss.
[71] Cfr. G. Feliciani, I beni culturali nel nuovo Codice di diritto canonico, cit., p. 249 ss. Si tratta di norme eterogenee sparse tra i diversi Libri del Codice e che possono essere raggruppate secondo quattro profili: conservazione e tutela del patrimonio storico, artistico e culturale (cann. 562, 1171, 1210, 1216, 1220, 1234 § 2, 1283-1284); interventi di restauro (cann. 1189 e 1216); alienazione di beni culturali di proprietà ecclesiastica (cann. 638 § 3, 1190, 1269, 1270, 1290-1292, 1377); archivi, libri e documenti (cann. 486-491, 535, 555 § 3): si veda D. Dimodugno, I beni culturali ecclesiali dal Codice del 1917 al Pontificio Consiglio della Cultura, disponibile open access in https://iris.unito.it, p. 11 ss.
[72] Cfr. M. Ganarin, Beni culturali della Chiesa cattolica. La disciplina canonica, cit., p. 16 ss; A. Gianfreda, I beni culturali di interesse religioso nelle fonti di diritto canonico universale e particolare italiano: stato dell’arte e spunti di prospettiva, cit., pp. 62-64.
[73] A.G. Chizzoniti, Profili giuridici dei beni culturali di interesse religioso, cit., p. 79.
[74] Come noto, l’organismo viene alla luce come Pontificia Commissio de patrimonio artis et historiae conservando con la Costituzione apostolica Pastor Bonus del 28 giugno 1988 che la incardina presso la Congregazione per il Clero. Nata dunque con una limitata autonomia, essa diverrà completamente autonoma con il Motu Proprio Inde a Pontificatus nostri initio del 25 marzo 1993 che la rinomina come Pontificia Commissio de Ecclesiae bonis culturalibus. Non si tratta di una mera questione nominale giacché il cambio di denominazione indica la rinnovata importanza attribuita dalla Chiesa ai beni culturali: dalla tradizionale e statica azione di conservazione si deve passare a una loro valorizzazione in un’ottica di animazione culturale e pastorale. Dal 2012, con il Motu Proprio Pulchritudinis fidei, Benedetto XVI la unisce al Pontificio Consiglio della cultura: cfr. C. Chenis, I beni culturali al servizio della Chiesa. Il ruolo della «Pontificia Commissione», in Rivista liturgica, 83 (1996), pp. 102-117.
[75] Come ricorda A.G. Chizzoniti, Profili giuridici dei beni culturali di interesse religioso, cit., pp. 79-100, meritano attenzione anche le conventiones sottoscritte tra la Santa Sede e i singoli Stati che “se nella prospettiva dell’ordinamento internazionale sono assimilate a tutti gli effetti a Trattati tra Stati sovrani, dal punto di vista canonistico concorrono a definire il diritto particolare della Chiesa nazionale di riferimento”. Per una disamina dei vari concordati che toccano il tema dei beni culturali si rinvia a R.M. Ramírez Navalón, El patrimonio cultural eclesiástico en los acuerdos entre la Iglesia Católica y los Estados miembros de la Union Europea, in Iglesia Católica y relaciones internacionales, Actas del III Simposio Internacional de Derecho Concordatario, Almeria, 7-9 novembre 2007,a cura diM. Del Mar Martín - M. Salido - J.M. Vázquez García-Peñuela Granada, 2008, p. 529 ss.
[76] G. Feliciani, Autorità ecclesiastiche competenti in materia di beni culturali di interesse religioso, cit.
[77] È noto come gli Orientamenti del 1992 offrano un particolare rilievo alla dimensione regionale in generale e alle Conferenze episcopali regionali in particolare, tanto che l’Introduzione (n. 1), nell’enunciare i motivi che hanno portato alla revisione delle Norme del 1974, individua l’attuazione dell’ordinamento regionale civile. Gli Orientamenti danno altresì rilevanza alla figura dell’ordinario diocesano che nel “coordinare, disciplinare e promuovere quanto attiene ai beni culturali ecclesiastici” si avvale dell’ausilio dell’Ufficio diocesano per i beni culturali e della Commissione diocesana per l’arte sacra e i beni culturali (Orientamenti, n. 4): su questi aspetti si rinvia a G. Santi, I beni culturali della Chiesa in Italia. Le recenti disposizioni della Conferenza episcopale italiana in materia di beni culturali, in Vita e Pensiero, 76 (1993), pp. 56-66. Non va peraltro dimenticato che nel 1995 la CEI per promuovere la conoscenza, la tutela, la fruizione e la promozione dei beni culturali di proprietà ecclesiastica ha istituito presso la sua Segreteria generale l’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici. È risaputo che dal 27 settembre 2016 il Consiglio episcopale permanente ha dato vita a un nuovo ufficio, l’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto, nato dalla fusione tra l’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e il Servizio nazionale per l’edilizia di culto: cfr. V. Pennasso, L’attività dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della CEI, in In_bo, 12 (2021), p. 42.
[78] Per una ricostruzione della normativa italiana cfr., per tutti, A. Talamanca, I beni culturali ecclesiastici tra legislazione statale e normativa bilaterale, in Il diritto ecclesiastico, 46 (1985), pp. 3-36; A.G. Chizzoniti, La tutela dei beni culturali di interesse religioso nell’ordinamento giuridico italiano, in Derecho y Religión, 5 (2010), p. 171 ss; N. Fiorita, I beni culturali di interesse religioso: la prospettiva statuale, in Il patrimonio culturale di interesse religioso in Italia. Religioni, diritto ed economia, cit., pp. 39-51; G. Sciullo, La disciplina unilaterale dello Stato italiano: la normativa del Codice Urbani, in Beni ecclesiastici di interesse culturale. Ordinamento, conservazione, valorizzazione, cit., pp. 84-95.
[79] Cfr. L. La Croce, I beni culturali di interesse religioso e l’intesa sull’art. 12 dell’Accordo del 1984, in Il diritto ecclesiastico, 109 (1998), p. 484.
[80] Nella legge Rava-Rosadi l’interesse religioso dei beni è preso in considerazione solo in relazione alla loro accessibilità al pubblico, mentre è del tutto ignorato nella legge Nasi: cfr. C. Lucchetti, L’evoluzione della normativa sulla tutela del patrimonio culturale (la “legge Nasi” e l’attualità delle sue previsioni), in GiustAmm.it, 5 (2018), pp. 1-14.
[81] Cfr. N. Fiorita, I beni culturali di interesse religioso: la prospettiva statuale, cit., p 43 ss.
[82] L’art. 8 dispone: “Quando si tratti di cose appartenenti ad enti ecclesiastici il Ministro per l’educazione nazionale, procederà, per quanto riguarda le esigenze di culto, d’accordo con l’autorità ecclesiastica”.
[83] Come noto, il Concordato lateranense non prevedeva alcuna disposizione a tutela del patrimonio storico-artistico di interesse religioso, salvo quanto stabilito dall’art. 33 relativamente alle catacombe presenti sul suo italiano. In verità, nei progetti che avevano preceduto la stesura definitiva del Concordato, la materia era stata inserita per poi venire esclusa a seguito delle preoccupazioni di parte statale circa un possibile allargamento dei poteri della Chiesa. L’art. 33 è stato poi trasfuso nell’art. 12.2 dell’Accordo di Villa Madama, aggiungendo l’aggettivo ‘cristiane’ accanto a catacombe: cfr. G. Feliciani, I beni culturali ecclesiastici. Dall’Accordo di revisione del Concordato Lateranense alla recente Intesa, in Vita e Pensiero, 80 (1997), p. 497 ss; A. Roccella, I beni culturali di interesse religioso della Chiesa cattolica, in AA.VV., Studi in onore di Umberto Pototschning, vol. II, Milano, 2002, p. 1093 ss.
[84] M.V. Missiroli, I beni culturali di interesse religioso dall’Accordo del 1984 al «Codice Urbani», cit., p. 315.
[85] Cfr. supra, nota 82.
[86] S. Amorosino, I beni culturali di interesse religioso nell’ordinamento amministrativo italiano, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2 (2003), pp. 377-378.
[87] Si veda Cons. Stato, Sez. VI, 7 marzo 1950, n.73, in Rivista amministrativa della Repubblica italiana, 73 (1950), p. 652.
[88] Sul T.U. si rinvia, per tutti, a G. Giovetti, Brevi osservazioni circa il nuovo statuto giuridico dei beni culturali di interesse religioso, in Il diritto ecclesiastico, 116 (1999), p. 737 ss ; M. Cammelli, La semplificazione amministrativa alla prova: il Testo Unico dei beni culturali e ambientali, in La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali: commento al Testo unico approvato con il Decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, a cura di M. Cammelli, Bologna, 2000, p. 7 ss; A. Roccella, Il testo unico dei beni culturali: contesto, iter formativo, lineamenti, conferme, innovazioni, in Diritto pubblico, 6 (2000), p. 555 ss; G. Sciullo, I beni e le attività culturali, in Le Istituzioni del Federalismo, 12 (2001), p. 965 ss.
[89] Come ricorda A.G. Chizzoniti, Il Testo Unico sui beni culturali e le novità di interesse ecclesiasticistico. Una prima lettura, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2 (2008), p. 447: “Il T.U. dei beni culturali e ambientali può essere descritto come “codicistico” ,“delegato o normativo”: con il primo termine se ne sottolinea la funzione di risistemazione della materia, di reductio ad unum di una vasta gamma di provvedimenti legislativi preesistenti, con il secondo, invece, ricollegando l’azione del Governo ad una delega ex art. 76 della Costituzione, da un lato si chiarisce l’obbligo all’emanazione entro i termini temporali e le materie previste dalla delega, dall’altro si mettono in risalto il grado di vincolatività e gli effetti abrogativi relativamente alla normativa previgente”.
[90] A.G. Chizzoniti, Il Testo Unico sui beni culturali e le novità di interesse ecclesiasticistico. Una prima lettura, cit., p. 447; G. D’angelo I beni culturali di interesse religioso: il livello regionale e locale, in Il Patrimonio culturale di interesse religioso in Italia. Religioni, diritto ed economia, cit., pp. 51-58.
[91] A tal proposito si rammenti la lacuna in cui incorre l’art. 2, 1° comma lett. b) del T.U. che nell’attribuire la qualifica di bene culturale alle “cose immobili” che “rivestono un interesse particolarmente importante” in virtù del “loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere”, ignora totalmente la storia religiosa, sebbene l’art. 9.2 dell’Accordo del 1984 riconosca i principi del cattolicesimo come parte integrante del patrimonio storico del popolo italiano: cfr. A.G. Chizzoniti, Il Testo Unico sui beni culturali e ambientali e le novità di interesse ecclesiasticistico. Una prima lettura, cit., p. 449.
[92] Per un commento all’art. 19 si rinvia a M. Costanza, Riflessioni di diritto ecclesiastico e civile: Beni culturali e beni di enti ecclesiastici: un regime unitario, in Vita notarile, 53 (2001), p. 74 ss.
[93] Cfr. supra § 1, nota 39.
[94] È noto come il d.lgs. 112/1998, base della riforma del titolo V della Costituzione, riservi allo Stato le attività dirette alla tutela, ovverosia quelle dirette a conoscere, conservare e proteggere i beni culturali. Alle Regioni e agli enti locali è invece affidato il compito di curare e migliorare la valorizzazione e fruizione dei beni culturali: cfr. G. Pastori, La redistribuzione delle funzioni: profili istituzionali, in Le Regioni, 24 (1997), p. 749 ss.
[95] Cfr. S. Amorosino, I beni culturali di interesse religioso nell’ordinamento amministrativo italiano, cit., p. 384.
[96] Sull’art. 9 del Codice Urbani si rinvia a A.G. Chizzoniti, Il nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio: prime considerazioni di interesse ecclesiasticistico, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2 (2004), pp. 399-406; V.M. Sessa, Art. 9. Beni culturali di interesse religioso, in Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di G. Leone – A.L. Tarasco, Padova, 2006, p. 78 ss; F. Margiotta Broglio, Art. 9. Beni culturali di interesse religioso, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio: commento al Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modifiche, a cura di M. Cammelli, Bologna, 2007, p. 84 ss.
[97] Il cambio di incipit “Per i beni culturali di interesse religioso […]” al posto di “Quando si tratta di beni culturali di interesse religioso […]” è una sostituzione puramente formale.
[98] Sul legame tra riforma del titolo V e beni culturali vedasi, per tutti, G. Sciullo, Beni culturali e riforma costituzionale, in Aedon. Rivista di arti e diritto online (www.aedon.mulino.it), 1 (2001), passim; E. Buoso, La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale dopo la riforma del titolo V della Costituzione: una proposta interpretativa alla luce della giurisprudenza costituzionale, in Rivista giuridica di urbanistica, 4 (2006), pp. 471-512; A. Poggi, La difficile attuazione del Titolo V: il caso dei beni culturali, in federalismi.it, 8 (2003), pp. 1-10. Per la definizione di tutela e valorizzazione data dal Codice Urbani, e saldamente ancorata al nuovo impianto costituzionale, si rinvia a L. Tarantino, Tutela e valorizzazione dei beni culturali tra riforma del Titolo V e Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Urbanistica e appalti, 8 (2004), p. 1017 ss.
[99] Le disposizioni “[…] stabilite dalle intese concluse ai sensi dell'articolo 12 dell'Accordo di modificazione del Concordato lateranense […]” (art. 9, 2° comma del Codice Urbani e in modo analogo art. 19, 2° comma del T.U.) hanno infatti un ambito di applicazione che si pone ben oltre alle esigenze di culto. Con questo richiamo si individua “il superamento del concetto funzionale di “esigenze di culto” che si risolve in una più ampia nozione di tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione, espressione dell’identità culturale delle confessioni” (F. Margiotta Broglio, Art.19. Beni culturali di interesse religioso, in La nuova disciplina dei beni culturali ambientali, cit., p. 84, concetti che l’Autore ripropone nel Commento all’art. 9. Beni culturali di interesse religioso, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio: commento al Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modifiche, cit., p. 96). Dubbi sul superamento delle esigenze di culto si mostrano invece in A.G. Chizzoniti, Profili giuridici dei beni culturali di interesse religioso, cit., pp. 187-188.
[100] E. Camassa, I beni culturali di interesse religioso. Principio di collaborazione e pluralità di ordinamenti, cit., p. 104, nota 99, ricorda infatti che “se la denominazione è identica, non lo sono le fonti. Si accomunano le intese generali con le confessioni religiose coperte costituzionalmente dall’art. 8, terzo comma, e le intese di attuazione dell’art. 12 dell’Accordo di modificazione del Concordato, recepite nel nostro ordinamento tramite decreti di esecuzione del Presidente della Repubblica”.
[101] Cfr. G. Dalla Torre, I beni culturali ecclesiastici. Appunti per una riflessione, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1 (1993), pp. 109-121; G. Giovetti, Brevi osservazioni circa il nuovo statuto giuridico dei beni culturali di interesse religioso, cit., p. 1008.
[102] Cfr. G. Pastori, I beni culturali di interesse religioso: le disposizioni pattizie e la normazione più recente, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1 (2005), p. 191 ss.
[103] Cfr.Concilio Vaticano II, Costituzione conciliare Gaudium et Spes, cit., n. 76.
[104] È noto come i timori per la creazione di una res mixta siano nati con la prima bozza di revisione del Concordato nella quale si prevedeva l’introduzione di una commissione paritetica con il compito di provvedere alla formulazione di norme per la tutela del patrimonio culturale ecclesiastico da sottoporre all’approvazione delle due Parti. Si temeva cioè la creazione di una competenza istituzionale italo-vaticana che avrebbe potuto provocare una perdita di sovranità dello Stato, perdita che sarebbe stata incompatibile con l’art. 9 della Costituzione: cfr. P. Bellini, Come nasce una “res mixta”: la tutela del patrimonio artistico nella bozza del nuovo Concordato, Bologna, 1978, p. 268 ss; A Roccella, I beni culturali ecclesiastici, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1 (2004), pp. 203-204; G. Boni, Introduzione, in Il patrimonio culturale di interesse religioso in Italia. Religioni, diritto ed economia, cit., p. 13.
[105] G. Pastori, L’art. 12 del nuovo Concordato: interpretazione e prospettive di attuazione, in Jus, 36 (1989), p. 84. Già la CEI nelle Norme del 1974 al n. 4 individuava una collaborazione nel pieno rispetto della potestà civile: “Se lo Stato […] interviene in un ambito nel quale i diritti della Chiesa sono universalmente riconosciuti, l’osservanza della legislazione predisposta da parte civile a favore e a tutela del patrimonio culturale è doverosa, perché lo Stato ha la responsabilità della conservazione di esso di fronte alla società” (vedasi le Norme CEI inhttps://bce.chiesacattolica.it/1974/06/01/norme-per-la-tutela-e-la-conservazione-del-patrimonio-storico-artistico-della-chiesa-in-italia/).
[106] Come noto, una prima bozza di intesa era stata predisposta nel 1991 e sottoposta alla commissione cultura della Camera dei deputati ma, a seguito delle vivaci critiche mosse nei confronti del testo, essa venne accantonata. Le contestazioni avevano ad oggetto il contenuto dell’intesa, la quale mirava ad estendere alla materia dei beni culturali di interesse religioso i recenti strumenti introdotti dal legislatore in tema di semplificazione dei procedimenti amministrativi (le conferenze di programma e di servizi), con il rischio di creare in via pattizia un regime speciale per la tutela dei beni culturali degli enti ecclesiastici: cfr. L. Guerzoni, Nuovo Concordato e beni culturali: profili politico-costituzionali della «bozza» d’Intesa, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1 (1993), p. 138 ss; G. Feliciani, L’Intesa tra il Ministro per i beni e le attività culturali e il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana relativa alla conservazione e consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche degli enti e istituzioni ecclesiastiche, in L’Amico del Clero, 82 (2000), pp. 793-794.
[107] Si ricordi che l’intesa tra il Ministro dei beni culturali e ambientali e il Presidente della CEI relativa ai beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti ed istituzioni ecclesiastiche è entrata in vigore nell’ordinamento italiano con il d.p.r. 26 settembre n. 571 e nell’ordinamento canonico il 29 ottobre successivo con decreto del Presidente della CEI: cfr. G. Santi, Le novità dell’Intesa, in Orientamenti pastorali, 44 (1996), pp. 26-28; P. Ferrari Da Passano, L’Intesa sui beni culturali ecclesiastici, in Aggiornamenti sociali, 48 (1997), pp. 211-222.
[108] L’intesa individua innanzitutto i soggetti competenti per le due Parti: a livello centrale «il Ministro per i beni culturali e ambientali e i direttori generali degli uffici centrali del Ministero da lui designati, il presidente della CEI e le persone da lui eventualmente delegate»; a livello locale «i Soprintendenti e i vescovi diocesani o le persone delegate dai vescovi stessi» (art. 1). Per quanto concerne le sedi in cui realizzare la collaborazione, esse sono costituite da «apposite riunioni» alle quali «i competenti organi centrali e periferici del Ministero […] invitano […] i corrispondenti organi ecclesiastici» (art. 2, n. 1). Lo scopo delle riunioni è la «definizione dei programmi o delle proposte di programmi pluriennali e annuali di interventi per i beni culturali e i relativi piani di spesa» (art. 2, n. 2): cfr. C. Redaelli, L’Intesa tra il Ministro per i beni culturali e ambientali e il Presidente della CEI circa la tutela dei beni culturali ecclesiastici. Profili canonistici, in Quaderni di diritto ecclesiale, 11 (1998), pp. 213-240; C. Cardia, Lo spirito dell’accordo, in Patrimonio culturale di interesse religioso in Italia. La tutela dopo l’Intesa del 26 gennaio 2005, cit., p. 29. Di felice intuizione è l’istituzione, a norma dell’art. 8, dell’Osservatorio centrale per i beni culturali di interesse religioso di proprietà ecclesiastica che apre un qualche spiraglio a una volontà programmatoria: si rinvia a R. Cecchi, L’Osservatorio centrale per i beni culturali di interesse religioso di proprietà ecclesiastica, in Patrimonio culturale di interesse religioso in Italia. La tutela dopo l’Intesa del 26 gennaio 2005, cit., pp. 63-66.
[109] C. Cardia, Lo spirito della nuova intesa, in Patrimonio culturale religioso in Italia: la tutela dopo l’Intesa del 26 gennaio 2005, cit., p. 30.
[110] Cfr. ivi, p. 35. Per una disamina dell’intesa del 2000 cfr. infra §§ 3.
[111] G. Feliciani, Le intese sui beni culturali ecclesiastici: bilanci e prospettive, in Il diritto ecclesiastico, 117 (2006), p. 10. L’intesa è stata resa esecutiva con d.p.r. 4 febbraio 2005, n. 78.
[112] G. Feliciani, Le intese sui beni culturali ecclesiastici: bilanci e prospettive, cit., p. 10; A. Roccella, La nuova intesa con la Conferenza episcopale italiana sui beni culturali di interesse religioso, in Aedon. Rivista di arti e diritto online (www.aedon.mulino.it), 1 (2006), pp.2-5. A questo proposito l’intesa del 2005, nell’individuare gli impegni reciproci tra soggetti ecclesiastici e civili, parrebbe travalicare i limiti dell’art. 12.1, 2° comma relativi alla tutela delle esigenze di carattere religioso, per collocarsi nel più ampio orizzonte del primo comma: cfr. A.G. Chizzoniti, L’intesa del 26 gennaio 2005 tra Ministero per i beni e le attività culturali e la Conferenza Episcopale italiana: la tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche tra continuità e innovazione, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2 (2005), p. 392 ss.
[113] L’art. 8 dell’intesa del 2005 stabilisce che “entro i limiti fissati in materia dalla Costituzione della Repubblica e dai principi della legislazione statale”, le disposizioni di tale accordo “costituiscono indirizzi per le eventuali intese tra le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano e gli enti ecclesiastici, fatte salve le autorizzazioni richieste dalla normativa canonica”. Nel riprendere l’art. 8 dell’intesa del 1996, il nuovo accordo introduce rilevanti novità. Innanzitutto si individuano precisi limiti di compatibilità con la normativa costituzionale e ordinaria, rendendo più incisivo il richiamo alle disposizioni dell’intesa, non più qualificate come mera “base di riferimento”, bensì “indirizzi” di cui tener conto. Per di più, se è vero che la nuova intesa dimostra un certo favor per gli accordi di carattere regionale, indicando per la parte pubblica le Regioni e le province autonome, e non più gli enti pubblici territoriali in generale come nell’intesa del 1996, è pur vero che la formula sembrerebbe non escludere la stipulazione di accordi con province e comuni. Si ricordi inoltre che l’espresso richiamo alle autorizzazioni canoniche rinvia alla specifica natura delle Conferenze episcopali regionali che sono notoriamente prive di potestà legislativa. Ne consegue che gli accordi regionali hanno efficacia vincolante solo se hanno ottenuto la recognitio della Santa Sede a norma del can. 455, § 2: cfr. I. Bolgiani, I beni culturali di interesse religioso tra Intesa nazionale e accordi regionali (“vecchi” e “nuovi”), in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 33 (2012), p. 5 ss.
[114] Cfr. A. Bettetini, Tra autonomia e sussidiarietà: contenuti e precedenti delle convenzioni a carattere locale tra Chiesa e Istituzioni pubbliche, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 2010, p. 3 ss; A. Losanno, La disciplina regionale e locale dei beni culturali di interesse religioso. La tutela partecipata e le varie forme di collaborazione, in Diritto e religioni, 2 (2010), pp. 177-245.
[115] Sul tema si veda, per tutti, A. Roccella, Regioni e beni culturali ecclesiastici, in Il diritto ecclesiastico, 112 (2001), pp. 919-931; D. Milani, La tutela degli interessi religiosi delle comunità locali tra riforma della Costituzione e nuovi statuti regionali, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1 (2005), pp. 202-204; I. Bolgiani, Le intese concluse tra Regioni civili ed autorità ecclesiastiche, in Ephemerides Iuris Canonici, 50 (2010), p. 363 ss; A.G. Chizzoniti - I. Bolgiani, L’evoluzione della disciplina regionale del fenomeno religioso, in Regionalismo e Regioni in Italia (1861-2011), a cura di E. Longobardi, Roma, 2011, pp. 142-145; G. D’angelo, L’incerta costruzione di un «diritto ecclesiastico regionale» nelle nuove enunciazioni statutarie: spunti interpretativi, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2 (2011), pp. 383-406.
[116] A questo proposito si ricordi che l’8 giugno 2005 è stato sottoscritto il protocollo d’intesa tra la Regione Sicilia e l’Unione delle Comunità Ebraiche italiane il cui art. 2 individua, tra i settori da promuovere, quello della tutela dei beni e delle tradizioni culturali ebraiche: cfr. A.G. Chizzoniti - G. Mazzoni, Il regime generale dei beni culturali di interesse religioso. Beni culturali di altre confessioni religiose, in Beni ecclesiastici di interesse culturale. Ordinamento, conservazione, valorizzazione, cit., p. 97.
[117] A. Zanotti, Prefazione a G. Boni, Gli archivi della Chiesa cattolica: profili ecclesiasticistici, Torino, 2005, p. V; G. Boni, Biblioteche e archivi ecclesiastici, in AA.VV., Volume Aggiornamento della Enciclopedia Giuridica, Roma, 2007, pp. 1-9.
[118] Sul tema si veda, per tutti,G. Dammaco, Archivi ecclesiastici e legislazione concordataria, Firenze, 1989, passim; S. Bordonali, Normativa nazionale e regionale in materia di biblioteche. Verso intese Chiesa-Stato, in Il diritto ecclesiastico, 106 (1995), pp. 614-630; P. Bellini, Un patrimonio a rischio. Note poco liete sulla collaborazione con la Chiesa in fatto di cose d’arte e antichità, in Il tetto, 192 (1995), pp. 437-454; G. Aragone Di Valentino, Nuovi orientamenti in tema di valorizzazione e tutela delle biblioteche ecclesiastiche, in Il diritto ecclesiastico, 113 (2002), pp. 597-610; A. Crosetti, I beni archivistici e librari di interesse religioso, in Aedon. Rivista di arti e diritto online (www.aedon.mulino.it), 2010, n. 3, passim; G. Boni, Gli archivi della Chiesa cattolica: profili ecclesiasticistici, cit., passim.
[119] Cfr. S. Berlingò, Le biblioteche e gli archivi ecclesiastici, in AA.VV., Beni culturali e interessi religiosi. Atti del Convegno degli studi di Napoli: 26-28 novembre 1981, Napoli, 1983, p. 171.
[120] Cfr. A. D’Addario, Archivi e biblioteche. Affinità e differenze, in Rassegna degli Archivi di Stato, 37 (1977), p. 12 ss.
[121] Cfr. A. Zanotti, Prefazione, cit., p. V.
[122] Cfr. G. Boni, Gli archivi della Chiesa cattolica: profili ecclesiasticistici, cit., pp. 8-21.
[123] S. Berlingò, Le biblioteche e gli archivi ecclesiastici, cit., p. 169. Sebbene non contenesse una disciplina organica, il Codice del 1917 trattava il tema degli archivi nel Libro II De personis: cfr. F.A. Adami, Archivi e biblioteche di enti e istituzioni ecclesiastiche, in Il nuovo Accordo tra Italia e Santa Sede, a cura di R. Coppola, Milano, 1987, p. 231 ss; A. Longhitano, Gli archivi ecclesiastici, in Ius Ecclesiae, 4 (1992), pp. 649-667.
[124] Cfr. F.A. Adami, Archivi e biblioteche di enti e istituzioni ecclesiastiche, cit., p. 236. Osserva A. Balduin, La legislazione e le provvidenze della chiesa per le biblioteche ecclesiastiche dal 1878 al 1979, in Le biblioteche ecclesiastiche aperte al pubblico. Atti del primo convegno: Roma 24-25 aprile 1979, a cura di D. Balboni, Roma, 1980, p. 94 ss, che “nelle biblioteche ecclesiastiche il fondo storico è spesso prevalente e non manca quasi mai”, giustificando l’inclusione di quest’ultime nel novero dei beni culturali ecclesiali.
[125] S. Berlingò, Le biblioteche e gli archivi ecclesiastici, cit., p. 170.
[126] Cfr. supra, §§ 2.
[127] Cfr. S. Berlingò, Le biblioteche e gli archivi ecclesiastici, cit., p. 170.
[128] Come ricorda F. Petroncelli Hübler, Problemi e prospettive per la tutela e la valorizzazione degli archivi ecclesiastici in Italia, in Il diritto ecclesiastico, 92 (1981), p. 153: “Sempre più diffusa, infatti, è la convinzione che gli archivi non debbano essere tutelati solo per il loro rilievo amministrativo, ma anche perché concorrono al progresso e alla diffusione della cultura, come testimonianza della vita di enti o di persone in un determinato periodo storico. Anzi, questa caratteristica dell’archivio, quale “bene culturale”, sembra assumere, via via, una dimensione predominante”.
[129] Paolo VI, Discorso agli archivisti ecclesiastici, 26 settembre 1963, in https://www.vatican.va, che prosegue: “Ed ecco che, allora, l’avere il culto di queste carte, dei documenti, degli archivi, vuol dire, di riflesso, avere il culto di Cristo, avere il senso della Chiesa, dare a noi stessi e dare a chi verrà la storia del passaggio di questa fase del transitus Domini nel mondo”.
[130] Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, lettera circolare La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici, 2 febbraio 1997, in www.vatican.va, n. 4.6.
[131] Giovanni Paolo II, Discorso all’inaugurazione della mostra per il centenario dell’apertura dell’Archivio Segreto Vaticano, 4 aprile 1981, in https://www.vatican.va.
[132] Come noto, la norma prevede che presso ogni curia diocesana sia costituito un archivio segreto, separato dall’archivio comune, per custodire documenti riservati per loro natura o perché definiti come tali dalle norme canoniche: cfr. G. Boni,Archivio secreto, in Diccionario General de Derecho Canónico, vol. I (A iure - Celibato), Cizur Menor (Navarra), 2012, pp. 456-460.
[133] Cfr. M. Ganarin, Beni culturali della Chiesa cattolica. La disciplina canonica, cit., p. 17.
[134] Cfr. F.A. Adami, Archivi e biblioteche di enti e istituzioni ecclesiastiche, cit., p. 231 ss.
[135] Cfr. F. Petroncelli Hübler, In tema di tutela degli archivi storici delle confessioni religiose, in Il diritto ecclesiastico, I (1995), p. 473 ss.
[136] Cfr. F. Petroncelli Hübler, In tema di tutela degli archivi storici delle confessioni religiose, cit., p. 473 ss.
[137] R. Maceratini, La legislazione canonica e gli archivi ecclesiastici, in Archivio Giuridico Filippo Serafini, 212 (1992), p. 531.
[138] Dal momento che il canone richiama le norme di diritto particolare che devono essere emanate dall’ordinario, la dottrina sostiene che l’archivio parrocchiale potrà essere dislocato anche presso l’archivio storico diocesano se, per ragioni di sicurezza, l’ordinario lo ritenga opportuno: cfr. ivi, p. 515 ss.
[139] Cfr. X. Toscani, Gli archivi ecclesiastici come fonte per la storia e possibile strumento pastorale, in La rivista del clero italiano, 64 (1993), p. 262 ss.
[140] Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, lettera circolare La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici, cit.
[141] La lettera circolare La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici, al n. 1 spiega che “è davvero impossibile descrivere interamente la geografia degli archivi ecclesiastici, i quali, pur nell’osservanza delle disposizioni canoniche, sono autonomi nella loro regolamentazione, diversi nell’organizzazione, propri per ognuna delle istituzioni formatesi nella storia bimillenaria della Chiesa”.
[142] Paolo VI, Discorso ai partecipanti al VI Convegno degli archivisti ecclesiastici, 6 novembre 1964, in https://www.vatican.va.
[143] G. Boni, Gli archivi della Chiesa cattolica: profili ecclesiasticistici, cit., p. 23. Sul tema del rilancio degli archivi ecclesiastici ulteriori riflessioni si rinvengono nella lettera circolare La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici, cit., n. 2.
[144] È noto infatti che per la ricorrenza di alcune similitudini, le biblioteche sono state tradizionalmente disciplinate insieme agli archivi. È vero che si tratta in entrambi i casi di beni culturali che “rivestono la forma di documenti del pensiero e della storia degli uomini affidati alla carta per mezzo di una rappresentazione grafica di una qualsiasi espressione linguistica, e che è possibile che un bene sia, indifferentemente, librario o archivistico, a seconda che sia conservato in archivi […] ovvero […] nelle biblioteche” (F.A. Adami, Archivi e biblioteche di enti ed istituzioni ecclesiastiche, cit., pp. 232-233), ma è pur vero che mentre l’archivio costituisce una universalità necessaria, i cui ‘pezzi’ sono inscindibilmente connessi tra loro, la biblioteca si configura come una universitas volontaria, nella quale i singoli elementi, libri o manoscritti che siano, “vivono di vita propria” (ivi, p. 235). In sostanza, come ricordato da A. D’Addario, Archivi e biblioteche. Affinità e differenze, cit., p. 15, contrariamente all’archivio, tra le componenti di una biblioteca difetta un nesso di “interdipendenza ontologica”.
[145] Cfr. L. Musselli, I beni culturali nel diritto canonico, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino, 1992, p. 226 ss.
[146] Cfr. Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, lettera circolare Le biblioteche ecclesiastiche nella missione della Chiesa, 19 marzo 1994, in https://www.vatican.va.
[147] Cfr. Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, lettera circolare Le biblioteche ecclesiastiche nella missione della Chiesa, cit., n. 2.3.
[148] Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, lettera circolare Le biblioteche ecclesiastiche nella missione della Chiesa, cit., n. 1.2.
[149] A. Pignatti - L. Baraldi, Il patrimonio culturale di interesse religioso. Sfide e opportunità tra scena italiana e orizzonte internazionale, cit., p. 86.
[150] Ibid.
[151] Cfr. L. Gavazzi, Inventariazione e catalogazione, in Patrimonio culturale di interesse religioso in Italia, cit., p. 71 ss.
[152] Cfr. ivi, p. 71.
[153] Ivi, p. 72.
[154] Cfr. A. Roccella, Il regime giuridico delle opere d’arte negli edifici di culto in Italia, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 2010, p. 3.
[155] Cfr. cann. 486, § 3 e 491, § 1 del Codex Iuris Canonici e cann. 256, § 2 e 261, § 1 del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium.
[156] Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, lettera circolare La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici, cit., n. 3.3.
[157] Cfr. Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, lettera circolare La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici, cit., n. 3.3.
[158] Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, lettera circolare Necessità e urgenza dell’inventariazione e catalogazione dei beni culturali della Chiesa, cit., n. 2.1.
[159] L’intesa, che dà notoriamente esecuzione alla disposizione dell’Accordo del 1984 relativa agli archivi e biblioteche ecclesiastiche (art. 12.1, 3° comma), ha trovato esecuzione in Italia con il d.p.r. n. 189 del 16 maggio 2000 e, nell’ordinamento canonico, con il decreto del Presidente della CEI del 10 luglio 2000: cfr. G. Senin Artina, Brevi annotazioni a proposito dell’Intesa sugli Archivi di interesse storico e sulle biblioteche appartenenti a enti ed istituzioni ecclesiastiche, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2 (2000), pp. 495-501; A. Roccella, I beni culturali ecclesiastici, cit., p. 216-219; Id., Conservazione e consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche degli enti e istituzioni ecclesiastiche tra ordinamento canonico e ordinamento statuale, cit., p. 29 ss; G. Boni, Gli archivi della Chiesa cattolica: profili ecclesiasticistici, cit., pp. 83-182.
[160] Cfr. G. Feliciani, I capisaldi dell’intesa, in Le carte della Chiesa: archivi e biblioteche nella normativa pattizia, a cura di A.G. Chizzoniti, Bologna, 2003, pp. 129-130. L’art. 4, 2° comma dell’intesa prevede infatti che la collaborazione “si attua, in primo luogo, nell’ambito dell’inventariazione del patrimonio documentario e archivistico, che costituisce fondamento costitutivo di ogni elaborazione scientifica e di ogni intervento di tutela”.
[161] Il n. 2 della circolare dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della CEI del 7 marzo 2001 attuativa dell’intesa del 18 aprile 2000 dispone infatti: “Poiché l’Intesa indica una serie articolata di impegni, non di semplici auspici, il primo adempimento al quale la Chiesa cattolica, nelle sue diverse articolazioni territoriali, è tenuta consiste nell’identificare con precisione tali impegni, nel verificare se e fino a che punto essi sono stati assunti […]”.
[162] Cfr. G. Boni, Gli archivi della Chiesa cattolica: profili ecclesiasticistici, cit., p. 137; A.G. Chizzoniti - A. Gianfreda, Conservazione, valorizzazione e riuso dei beni culturali ecclesiastici. La disciplina di diritto ecclesiastico italiano, cit., p. 195.
[163] Cfr. G. Boni, Gli archivi della Chiesa cattolica: profili ecclesiasticistici, cit., p. 138; G. Feliciani, I capisaldi dell’intesa, cit., p. 130; A. Roccella, Conservazione e consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche degli enti e istituzioni ecclesiastiche tra ordinamento canonico e ordinamento statale, cit., p. 69.
[164] Cfr. G. Feliciani, I capisaldi dell’intesa, cit., p. 130; A.G. Chizzoniti - A. Gianfreda, Conservazione, valorizzazione e riuso dei beni culturali ecclesiastici. La disciplina di diritto ecclesiastico italiano, cit., p. 196.
[165] Come specifica A. Roccella, I beni culturali ecclesiastici, cit., p. 221, “va rimarcato che la convenzione è stata sottoscritta, da parte italiana, non da un’autorità politica, bensì dal direttore dell’ICCD. In coerenza con la natura del soggetto di parte italiana stipulante, la convenzione non contiene disposizioni normative ma regola soltanto alcune modalità della collaborazione in via amministrativa, con carattere prevalentemente tecnico”.
[166] In questo senso si ricordi che l’art. 1 della convenzione stabilisce che “gli interventi di inventariazione promossi dalla CEI si uniformano alle direttive di merito e di metodo stabilite dall’ICCD in osservanza del proprio mandato istituzionale” e che le medesime attività vanno programmate d’intesa con l’ICCD, le Soprintendenze competenti e le amministrazioni regionali (art. 2). Sulla scia di tale convenzione è stato firmato il 5 dicembre 2006 tra l’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della CEI e l’Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche (ICCU) del Ministero per i beni e le attività culturali l’accordo in materia di descrizione bibliografica e trattamento di raccolte appartenenti alle biblioteche ecclesiastiche. Il documento promuove la creazione di sistemi di collegamento integrati con le attività nazionali coordinate dell’ICCU mediante la predisposizione di un OPAC collettivo delle biblioteche ecclesiastiche: cfr. A.G. Chizzoniti - A. Gianfreda, Conservazione, valorizzazione e riuso dei beni culturali ecclesiastici. La disciplina di diritto ecclesiastico italiano, cit., p. 197.
[167]Cfr. A. Crosetti, I beni archivistici e librari d’interesse religioso, in Aedon. Rivista di arti e diritto online (www.aedon.mulino.it) 3 (2010), passim. Si rinvia altresì al sito web del Servizio informatico della CEI: www.servizioinformatico.chiesacattolica.it.
[168] Cfr. F.M. D’Agnelli, CEI-Ar: un progetto di riordino e descrizione degli archivi storici a servizio della comunità ecclesiale, in Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici (a cura di), Archivi e biblioteche ecclesiastiche del Terzo Millennio. Dalla tradizione conservativa all’innovazione dei servizi, Roma, 2012, p. 151 ss.
[169] Cfr. https://www.servizioinformatico.chiesacattolica.it(consultato 30 marzo 2022).
[170] Il sito web del Servizio informatico della CEI specifica che possono partecipare al progetto tutte le biblioteche ecclesiastiche, diocesane e non, che “possiedono una collezione di almeno 10-15.000 volumi o in alternativa che possiedono una collezione particolarmente caratterizzata e che dispongono di personale specializzato” (www.servizioinformatico.chiesacattolica.it). Sul tema vedasi M. Corbosiero - A. Di Sante, Il catalogo collettivo delle biblioteche ecclesiastiche. CEI-Bib: obiettivi, strumenti e prospettive, in Bollettino AIB, 47 (2007), pp. 43-62; S. Russo, Gli archivi e le biblioteche ecclesiastiche, in Aedon. Rivista di arti e diritto online (www.aedon.mulino.it), 1 (2008).
[171] Nel corso degli anni l’Ufficio nazionale ha elaborato quattro progetti, ciascuno dotato di un proprio software, con lo scopo di superare quello diocesano del 1996 e descrivere beni culturali di diversa natura: beni storico-artistici (CEI-OA), archivistici (CEI-Ar), architettonici (CEI-A) e librari (CEI-Bib): cfr. per la descrizione dei singoli progetti il sito https://www.servizioinformatico.chiesacattolica.it (consultato il 30 marzo 2022).
[172] Cfr. Ifnet s.r.l. in https://www.ifnet.it (consultato il 30 marzo 2022).
[173] Cfr. M. Corbosiero - A. Di Sante, Il catalogo collettivo delle biblioteche ecclesiastiche. CEI-Bib: obiettivi, strumenti e prospettive, cit., p. 47.
[174] Precisa a questo proposito G. Solimine, La biblioteca: scenari, culture, pratiche di servizio, Roma-Bari, 2004, p. 36: “Se volessimo definire oggi la mission cui la biblioteca deve rispondere non potremmo certo identificarla unicamente nella sua funzione di raccolta e immagazzinamento, di tipo archiviale, ma dovremmo porre l’accento su quella di servizio (non perché la prima non sia importante, ma perché è la seconda che giustifica la conservazione, anche quando essa sembra prevalere sull’uso)”.
[175] Il Polo SBN di Biblioteche ecclesiastiche (c.d. PBE) è attivo dal 22 marzo 2010: cfr. https://www.servizioinformatico.chiesacattolica.it(consultato il 30 marzo 2022).
[176] D’altronde, come ricorda M. Corbosiero - A. Di Sante, Il catalogo collettivo delle biblioteche ecclesiastiche. CEI-Bib: obiettivi, strumenti e prospettive, cit., p. 56: “Il servizio bibliotecario nella società dell’informazione passa attraverso la strutturazione, l’aggregazione logica, la condivisione, in altre parole una mediazione più consapevole di manifestazioni, espressioni, opere e loro contenuti, una localizzazione e circolazione efficace di esemplari e riproduzioni”.
[177] Cfr. https://www.servizioinformatico.chiesacattolica.it(consultato il 30 marzo 2022).
[178] M. Corbosiero - A. Di Sante, Il catalogo collettivo delle biblioteche ecclesiastiche. CEI-Bib: obiettivi, strumenti e prospettive, cit., p. 53.
[179] Cfr. ibid.
[180] Cfr. S. Russo, Gli archivi e le biblioteche ecclesiastiche, cit.; M. Corbosiero - A. Di Sante, Il catalogo collettivo delle biblioteche ecclesiastiche. CEI-Bib: obiettivi, strumenti e prospettive, cit., p. 53.
[181] Cfr. G. Caputo, Il portale dei beni culturali ecclesiastici BeWeb, in DigItalia, 2 (2013), pp. 108-116; D. Busolini - F.M. D’Agnelli, et. al., BeWeb: un giovane progetto che compie vent’anni, in DigItalia, 1 (2021), pp. 89-100; V. Pennasso, L’attività dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della CEI, cit., p. 44; L. Gavazzi, Inventariazione e catalogazione, cit., p. 74.
[182] D. Busolini - F.M. D’Agnelli, et. al., BeWeb: un giovane progetto che compie vent’anni, cit., p. 99.
[183] Cfr. ibid.
[184] Cfr. V. Pennasso, L’attività dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della CEI, cit., p. 44; https://www.chiesacattolica.it/beweb (consultato il 30 marzo 2022)
[185] A questo proposito sono stati siglati accordi e convenzioni che permettono di rendere visibili i dati su BeWeb anche nell’Anagrafe delle Biblioteche Italiane, nel SBN e in Manus online dell’Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche (ICCU), nonché in Material Evidence of Incunabula, coordinato dal Consortium of European Research Libraries (CERL), e nel Sistema Archivistico Nazionale dell’Istituto Centrale per gli Archivi (ICAR): cfr. https://www.chiesacattolica.it/beweb (consultato il 30 marzo 2022).
[186] Sul tema, cfr. per tutti, A.G. Chizzoniti, I musei ecclesiastici: profili normativi, in I musei ecclesiastici: organizzazione, gestione e marketing, a cura di O. Fumagalli Carulli - A.G. Chizzoniti Milano, 2008, p. 47 ss; A. Denuzzo, L’ingresso dei musei ecclesiastici nel novero dei beni culturali: alcune riflessioni nella prospettiva di diritto costituzionale, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 25 (2013), p. 1 ss; F. Colombo, I musei ecclesiastici nell’ordinamento italiano: spunti di prospettiva, in Il patrimonio culturale di interesse religioso in Italia. Religioni, diritto ed economia, cit., pp. 151-155; G. Casati, Evoluzione della disciplina canonica in tema di musei ecclesiastici, in Il patrimonio culturale di interesse religioso in Italia. Religioni, diritto ed economia, cit., pp. 143-150.
[187] Cfr. F. Colombo, I musei ecclesiastici nell’ordinamento italiano: spunti di prospettiva, cit., p. 151; A. Denuzzo, L’ingresso dei musei ecclesiastici nel novero dei beni culturali: alcune riflessioni nella prospettiva di diritto costituzionale, cit., p. 3 ss.
[188] Di fatto l’unica fonte unilaterale interna che menziona apertis verbis i musei ecclesiastici è il d.p.r. n. 78 del 2005 che dà esecuzione alla già ricordata intesa del 26 gennaio 2005: cfr. F. Colombo, I musei ecclesiastici nell’ordinamento italiano: spunti di prospettiva, cit., p. 151.
[189] A.G. Chizzoniti, Profili giuridici dei beni culturali di interesse religioso, cit., p. 200; Id., I musei ecclesiastici: profili normativi, cit., pp. 47-48.
[190] Cfr. G. Casati, Evoluzione della disciplina canonica in tema di musei ecclesiastici, cit., p. 145.
[191] Cfr. ivi, p. 143.
[192] Cfr. A.G. Chizzoniti, Profili giuridici dei beni culturali di interesse religioso, cit., p. 201.
[193] Secondo l’art. 2 dello statuto ICOM “il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. È aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali dell’umanità e del suo ambiente: le acquisisce, le conserva, le comunica e, soprattutto, le espone ai fini di studio, educazione e diletto”: cfr. A. Denuzzo, L’ingresso dei musei ecclesiastici nel novero dei beni culturali: alcune riflessioni nella prospettiva di diritto costituzionale, cit., p. 4.
[194] Cfr. F. Colombo, I musei ecclesiastici nell’ordinamento italiano: spunti di prospettiva, cit., p. 152; A.G. Chizzoniti, I musei ecclesiastici: profili normativi, cit., p. 80; Id., Profili giuridici dei beni culturali di interesse religioso, cit., p. 202 ss.
[195] L. Nivarra, Art. 97, in La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali: commento al testo unico approvato con il decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, a cura di M. Cammelli, Bologna, 2000, p. 326 ss.
[196] Come evidenziato da A.G. Chizzoniti, I musei ecclesiastici: profili normativi, cit., p. 81: “Il ricorso al termine ‘struttura’ non manca comunque di ambiguità perché, ove letto in senso statico, potrebbe essere interpretato nel solo significato di ‘sede’ e pertanto va temperato (specie nella definizione del Codice Urbani) alla luce delle attività che la struttura-museo pone in essere, tra le quali nella formulazione del Codice Urbani mancano ancora all’appello quelle di ricerca e di diletto presenti nella definizione dell’ICOM”. Sulla definizione di museo nel Codice Urbani si rinvia altresì a R. Rotigliano, Art. 101, in Il codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M. Cammelli, Bologna, 2004, p. 414 ss; P. Carpentieri, Art.101, in Il codice dei beni culturali e del paesaggio. Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, a cura di R. Tamiozzo, Milano, 2005, p. 439 ss; G. Sciullo, Le funzioni, in Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati, M. Cammelli, Bologna, 2006, p. 79 ss.
[197] Sull’annosa diatriba al riguardo cfr., per tutti, V. Santarsiere, Gli enti ecclesiastici secondo la legge n. 222/1985, in Il diritto ecclesiastico, 103 (1992), pp. 728-736; E.E. Grimaldi, La specialità degli enti ecclesiastici, in Enti ecclesiastici e attività notarile, a cura di V. Tozzi, Napoli, 1989, p. 118 ss; C. Cardia, Principi di diritto ecclesiastico. Tradizione europea legislazione italiana, Torino, 2019, pp. 348-355.
[198] A.G. Chizzoniti, I musei ecclesiastici: profili normativi, cit., p. 82.
[199] Cfr. A. Denuzzo, L’ingresso dei musei ecclesiastici nel novero dei beni culturali: alcune riflessioni nella prospettiva del diritto costituzionale, cit., p. 11.
[200] Cfr. A. Amelotti, Il rapporto tra Stato e Regioni in materia di beni culturali: per una politica gestionale possibile tra diarchia delle funzioni e dualismo d’interesse, I beni culturali tra interessi pubblici e privati, a cura di G. Cofrancesco, Roma, 1996, p. 149 ss; N. Aicardi L’ordinamento amministrativo dei beni culturali. La sussidiarietà nella tutela e nella valorizzazione, Torino, 2002, p. 229 ss.
[201]L’art. 101, 2° comma prevede che “la legislazione regionale disciplina la fruizione dei beni presenti negli istituti e nei luoghi della cultura non appartenenti allo Stato o dei quali lo Stato abbia trasferito la disponibilità sulla base della normativa vigente”. Secondo la dottrina la norma deve essere letta alla luce del successivo art. 111, 2° comma che dispone: “Nel rispetto dei principi richiamati al comma 1, la legislazione regionale disciplina le funzioni e le attività di valorizzazione dei beni presenti negli istituti e nei luoghi della cultura non appartenenti allo Stato o dei quali lo Stato abbia trasferito la disponibilità sulla base della normativa vigente”: cfr. M. Renna, I beni museali (privati ed ecclesiastici) nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Aedon. Rivista di arti e diritto online (www.aedon.mulino.it), 1 (2005), p. 1 ss.
[202] Non è dunque un caso che i musei ecclesiastici siano stati inseriti nei sistemi museali regionali, divenendo oggetto di specifici provvedimenti legislativi emanati dalle singole Regioni: cfr. S. Bagdadli, Le reti di musei. L’organizzazione a rete per i beni culturali in Italia e all’estero, Milano, 2001, passim; S. La Porta, I sistemi museali nella legislazione regionale, in Cultura e istituzioni. La valorizzazione dei beni culturali negli ordinamenti giuridici, a cura di L. Degrassi, Milano, 2008, p. 239 ss.
[203] Conferenza episcopale italiana, Norme per la tutela e la conservazione del patrimonio storico-artistico della Chiesa in Italia, cit., n. 10.
[204]Cfr. supra §§ 2.
[205] Cfr. Giovanni Paolo II, Costituzione apostolica Pastor Bonus, 28 giugno 1988, in https://www.vatican.va, art. 102.
[206] Conferenza episcopale italiana, I beni culturali della Chiesa in Italia. Orientamenti, 9 dicembre 1992, in https://bce.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/25/1992/12/Orientamenti_Beni_Culturali_1992.pdf, n. 20.
[207] Cfr. O. Fumagalli Carulli, Il Magistero pastorale della memoria e della bellezza: i musei ecclesiastici in Lombardia, in I musei ecclesiastici: organizzazione, gestione, marketing, cit., p. 8.
[208] Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, lettera circolare La funzione pastorale dei musei ecclesiastici, 29 giugno 2001, in https://www.vatincan.va.
[209] Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, lettera circolare La funzione pastorale dei musei ecclesiastici, cit.
[210] Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, lettera circolare La funzione pastorale dei musei ecclesiastici, cit., n. 1.2.
[211]Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, lettera circolare La funzione pastorale dei musei ecclesiastici, cit.
[212] Si rammenti che l’art. 2, 4° comma dell’intesa sancisce che laddove il mantenimento dei beni culturali nel luogo di originaria collocazione non ne garantisca la sicurezza e la conservazione, il Soprintendente, previo accordo con i competenti organi ecclesiastici, ne può disporre il deposito presso i musei ecclesiastici, se muniti di idonei impianti di sicurezza, o in musei pubblici. Una norma analoga è rinvenibile per i beni ridotti all’uso profano (art. 6, 4° comma) e, con riferimento a un deposito temporaneo, per i beni culturali coinvolti in catastrofi naturali (art. 6, 5° comma): cfr. A.G. Chizzoniti, I musei ecclesiastici: profili normativi, cit., pp. 86-87.
[213] Cfr. A.G. Chizzoniti, Profili giuridici dei beni culturali di interesse religioso, cit., p. 210, il quale specifica “che, come avvenuto per gli archivi e le biblioteche ecclesiastiche, sarebbe opportuna la sottoscrizione di una intesa a livello nazionale nella quale fissare regole e indirizzi generali entro i quali consentire alle articolazioni regionali civili ed ecclesiastiche di concretizzare l’impegno alla collaborazione. A ciò non osterebbe […] il mancato richiamo dei musei ecclesiastici nell’art. 12 dell’Accordo del 1984, potendosi ricondurre tale attività pattizia sotto l’egida del generale principio di collaborazione statuito al n. 1, 1° comma della medesima disposizione”.
[214] Cfr. F.M D’Agnelli - S. Gallarato - M.T. Rizzo, Istituti culturali ecclesiastici: una visione generativa, inclusiva, sostenibile e prospettica, in DigItalia, 14 (2019), p. 73 ss.
[215] Cfr. ivi, pp. 74-75.
[216] Nel 2015 la diocesi di Bergamo ha avviato un racconto online della propria cattedrale, sfociato nel 2018 con la realizzazione di una visita virtuale che ha consentito un’esplorazione dell’edificio di culto a 360° (https://www.beweb.chiesacattolica.it/percorsi/percorso/102/Lo+spazio+liturgico+della+cattedrale+di+Bergamo). Nel 2016 la diocesi di Catania ha sperimentato una visita virtuale per la Cattedrale di Sant’Agata Vergine e Martire, con la possibilità di approfondire una serie di punti di interesse tramite link a schede di dettaglio con foto commentate (https://www.beweb.chiesacattolica.it/cattedrali/cattedrale/650/Chiesa+di+Sant%27Agata+Vergine+e+Martire). Nel 2016 l’iniziativa Sui sentieri dei libri ha proposto la versione digitalizzata della mostra realizzata dalla Biblioteca del Seminario di Lodi, illustrando, attraverso una narrazione specificamente progettata per il web, i ‘sentieri’ che alcuni libri del XV-XVII secolo hanno percorso per giungere nel Fondo Antico della Biblioteca (cfr. E. Drufuca, M. Pezzoni, P. Sverzellati, Seguire i Sentieri dei libri in BeWeb: l’itinerario online come opportunità di valorizzazione, in DigItalia, 12 (2017), pp. 193-205). L’anno giubilare dell’Abbazia di Nonantola è invece un percorso online realizzato nel 2019 che ha celebrato la riapertura dell’abbazia dopo il sisma del 2012. Oltre a illustrare la bellezza del complesso abbaziale, il percorso presenta altresì il catalogo della mostra dedicata alle opere salvate dal terremoto, consultabile attraverso testi in formato digitale (https://www.beweb.chiesacattolica.it/percorsi/percorso/228/L%27anno+giubilare+dell%27Abbazia+di+Nonantola). Tutti i siti indicati sono stati consultati il 30 marzo 2022.
[217] A questo proposito si ricordi l’iniziativa promossa durante il lockdown dal Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo (Mibact) con il lancio del c.d. Gran Virtual Tour che ha consentito agli utenti della rete di fruire delle bellezze del patrimonio culturale italiano stando comodamente a casa. Tra i siti culturali e i musei visitabili virtualmente si possono ritrovare il Museo di Capodimonte, la Galleria degli Uffizi, il Parco archeologico del Colosseo, di Pompei ed Ercolano: cfr. https://www.beniculturali.it/virtualtour; A. Ciervo, La chiusura dei musei e degli altri istituti e luoghi di cultura pubblici durante l’emergenza sanitaria, in Aedon. Rivista di arti e diritto online (www.aedon.mulino.it), 2 (2020), pp. 105-112.
[218] Sui sette tour virtuali proposti dai Musei Vaticani si rinvia a https://m.museivaticani.va (consultato il 2 aprile 2022).
[219] Si tratterebbe cioè di perseguire una riduzione del consumo di suolo, obiettivo concreto e strumentale ad attuare il principio di protezione dell’ambiente: cfr. E. Boscolo, Oltre il territorio: il suolo quale matrice ambientale e bene comune, in Urbanistica e appalti, 18 (2014), p. 129 ss; P. Urbani, A proposito della riduzione del consumo di suolo, in Rivista giuridica dell’edilizia, 3 (2016), p. 226 ss; F. Follieri, Lo “sviluppo urbano sostenibile”. Considerazioni de iure condito e de iure condendo, in federalismi.it, 14 (2018), pp. 2-17.
[220] Secondo infatti la definizione promossa dall’Organizzazione Mondiale del Turismo nel 1988, sulla base della nozione di sviluppo sostenibile proposta dalla World Commission on Environment and Development nel Rapporto Brundtland del 1987, le attività turistiche sono sostenibili “quando si sviluppano in modo tale da mantenersi vitali in un’area turistica per un tempo illimitato, non alterano l’ambiente (naturale, sociale e artistico) e non ostacolano o inibiscono lo sviluppo di altre attività sociali ed economiche”: cfr. A. Sau, Le frontiere del turismo culturale, cit., p. 46.
[221] Cfr. S. Mangano - G.M. Ugolini, Nuove tecnologie e smart map per un turismo urbano e una mobilità intelligente, in Bollettino della Associazione italiana di Cartografia, 160 (2017), pp. 8-21.
[222] Si potrebbe in questo senso risolvere l’annoso problema del ticket. Se è noto che tra gli argomenti generalmente addotti a favore del sistema di bigliettazione, oltre a quello dei benefici ricavabili dagli introiti, viene sovente citato quello relativo alla possibilità di realizzare, attraverso il ticket, un controllo e una regolamentazione dei flussi turistici, con conseguente riduzione della pressione insistente sul luogo di culto, è altrettanto noto come la previsione di un biglietto per l’accesso alle chiese sia in palese contrasto con la loro dimensione liturgico-pastorale, quale finalità primaria e primigenia dell’edificio sacro. Secondo la dottrina l’introduzione del biglietto d’ingresso rischierebbe di privilegiare l’aspetto turistico-culturale del luogo sacro, a discapito di quello cultuale che passerebbe in secondo piano: cfr. G. Feliciani, La questione del ticket d’accesso alle chiese, in Aedon. Rivista di arti e diritto online (www.aedon.mulino.it), 3 (2010), p. 4 ss; F. Franceschi, L’accesso alle chiese aperte al culto: fruizione cultuale, fruizione turistica, questione del ticket, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 33 (2014), pp. 1-51.
[223] E. Bianchi, La differenza cristiana, Torino, 2006.
[224]P. Petraroia, Valori e funzioni dei musei ecclesiastici: gli odierni strumenti di programmazione e il ruolo delle “risorse umane”, in I musei ecclesiastici: organizzazione, gestione, marketing, cit., p. 38.
[225] L’idea di un sito web come mera copia elettronica del museo reale, spesso propaganda di se stesso, è efficacemente espressa da F. Antinucci, Il museo e il web: uno sguardo critico, in Galassia web: la cultura nella rete, a cura si P. Galuzzi – P.A. Valentino, Firenze, 2008, pp. 3-15.
[226] P. Petraroia, Valori e funzioni dei musei ecclesiastici: gli odierni strumenti di programmazione e il ruolo delle “risorse umane”, cit., p. 41.
[227] Giovanni Paolo II, Messaggio ai partecipanti all’Assemblea Plenaria della Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, 25 settembre 1997, in https://www.vatican.va, n. 3.
[228]F. Antinucci, Il museo e il web: uno sguardo critico, cit., p. 7.
[229] Cfr. ibid.
[230] Tra i visori più comuni che si sono sviluppati negli ultimi anni si ricorda Hololens di Microsoft, Oculos VR acquistato da Facebook nel 2014 e Cardboard di Google: cfr. H. Shaikh, Extended reality: a sneak peak into an alternate reality, in https://martechlive.com/extended-reality, 22 aprile 2020 (consultato il 4 aprile 2022).
[231] Cfr., per tutti, R.T. Azuma, A Survey of Augmented Reality, in Presence: Teleoperators and Virtual Environments, 6 (1997), pp. 355-385; F.P. Brooks, What’s real about virtual reality?, in IEEE Computer Graphics and Applications, 19 (1999), pp. 16-27; G.C. Burdea, P. Coiffet, Virtual reality Technology, New Jersey, 2003, passim; A.B. Craig, Understanding Augmented Reality. Concepts and Applications, Massachusetts, 2013, passim; T. Marinoni, Tutto quello che vorreste sapere sulla realtà virtuale. Applicazione e sviluppo nel mondo di ieri, oggi e domani, Milano, 2017; passim; F.A. Cornel, Realtà virtuale e realtà aumentata, in https://italian-directory.it/realta-virtuale-realta-aumentata (consultato il 4 aprile 2022).
[232] Come per qualsiasi altra applicazione, anche la realizzazione di applicazioni di realtà aumentata richiede l’utilizzo di software development kit (c.d. SDK), pacchetti di strumenti e informazioni che rendono possibile la programmazione di un software in uno specifico linguaggio di programmazione. Tra i più comuni vi sono Vuforia (https://developer.vuforia.com), un SDK multi-piattaforma che permette di includere nel mondo reale contenuti virtuali, tracciando immagini sia in 2D che in 3D e Wikitude (https://www.wikitude.com), un SDK per Android e IOS tramite il quale è possibile implementare funzionalità immersive in base ai dati ottenuti dalla geo-localizzazione. Per la realizzazione di esperienze di realtà aumentate si ricorre altresì a Unity 3D (https://unity.com), un game engine e ambiente di sviluppo integrato (c.d. IDE) nato per la creazione di media interattivi e in particolare di videogiochi. Unity gira su Microsoft Windows, macOs e Linux.
[233] Sebbene la creazione di applicazioni di realtà aumentata per dispositivi mobili sia quella più comune, tali dispositivi spesso offrono esperienze di bassa fascia e scomode all’utente, dal momento che quest’ultimo, al fine di catturare l’immagine del mondo fisico su cui sovrapporre l’adattamento digitale, è costretto a tenere costantemente in mano il proprio mobile o tablet. Inoltre, le limitate dimensioni dello schermo offrono all’utente un campo visivo ristretto. Per esperienze più ‘comode’ di realtà aumentata si potrebbero preferire le cuffie. Nonostante siano per ora utilizzate principalmente da aziende e sviluppatori, quest’ultime assumono l’aspetto di grandi fasce munite di lenti traslucide su cui proiettare le immagini virtuali da sovrapporre alla realtà. Se alcune di esse, come HoloLens, sono entità completamente autonome in grado di consentire maggiore libertà di movimento a discapito della potenza di elaborazione; altre, come Meta2, essendo legate a un pc, sacrificano la prima per la seconda. Anche gli occhiali, di cui Google è stato pioniere con il progetto Google Glass del 2012, rientrano tra quei device che permettono interazioni a mani libere. I glasses non solo contengono il proprio processore e la corrispondente fornitura di energia, ma anche moduli hardware e software per riconoscere l’ambiente circostante e includervi digitalmente dati visivi e uditivi: cfr. P. Mealy, Augmented reality devices: features, in https://www.dummies.com(consultatoil 4 aprile 2022); Id., Virtual & Augmented Reality for Dummies, New Jersey, 2018, pp. 55-74.
[234] Cfr. N. Maheshwari, Augmented reality: the future of application development, in www.mgtechnologies.com.
[235] La markerless augmented reality permette quindi di superare i limiti dell’interattività con il marker. Essa si basa su sistemi di riconoscimento più sofisticati, che riescono a stimare la tridimensionalità dell’ambiente circostante all’utente sfruttando sensori di posizione e orientamento (GPS, accelerometri e bussola). Se attraverso il GPS si effettua la geo-localizzazione della persona sulla scena, con le informazioni provenienti dal magnetometro è possibile ricavare in che direzione sta osservando e grazie ai vari accelerometri si riescono a definire eventuali spostamenti. Di questa tecnologia esistono quattro sotto-categorie: location-based (offre contenuti virtuali in base alle informazioni date dalla posizione geografica), projection-based (proietta oggetti 3D virtuali su superfici fisiche), super-imposition (sostituisce parzialmente o totalmente la vista originale dell’oggetto con una versione originale dello stesso aggiornata), outling (consente, in condizioni di scarsa visibilità e/o illuminazione, di delineare i bordi di alcuni oggetti prestabiliti): cfr. S. Schetcher, What is markerless augmented reality?, in https://www.marxentlabs.com/what-is-markerless-augmented-reality-dead-reckoning/ (consultato il 4 aprile 2022); N. Maheshwari, Augmented reality: the future of application development, cit.
[236]P. Petraroia, Valori e funzioni dei musei ecclesiastici: gli odierni strumenti di programmazione e il ruolo delle “risorse umane”, cit., p. 42.
[237] Giovanni Paolo II, Messaggio ai partecipanti all’Assemblea Plenaria della Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, cit., n. 4.
[238] Ivi, n. 2.
[239] Cfr. Giovanni Paolo II, Allocuzione ai membri della Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa in occasione della terza assemblea plenaria, 31 marzo 2000, in https://www.vatican.va, n. 3: “Specialmente l’arte cristiana, bene culturale quanto mai significativo, continua a rendere un suo singolare servizio comunicando con straordinaria efficacia, attraverso la bellezza delle forme sensibili, la storia dell’alleanza tra Dio e l’uomo e la ricchezza del messaggio rivelato”.
[240] Nel 2016 è stato realizzato per le quattro Case Museo di Milano un chatbot (anche detto bot o talk-bot) con l’obiettivo di allargare la platea dell’istituto museale ai più giovani. Il bot, disponibile su Messenger di Facebook (oggi Meta), sfrutta forme e dinamiche del gioco ˗ in questo caso la modalità‘caccia al tesoro’˗ dialogando con i giocatori per la ricerca di indizi sparsi nel museo. MAXXI è invece il chatbot del Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo di Roma, disponibile in italiano e in inglese, è stato sviluppato nel 2018 ed è anch’esso disponibile su Facebook (Meta) Messenger. In questo caso, il bot nasce combinando la modalità guida virtuale con il gioco a quiz: cfr. K. Lee, Augmented reality in Education and Training, in TechTrends, 56 (2012), pp. 13-21; G. Gaia - S. Boiano - A. Borda, Enganging Museum Visitors with AI: The Case of Chatbots, in Museums and Digital Culture, ed.T. Giannini - J.P. Bowen, New York, 2019, pp. 309-329; P. Castellucci - E. Gomelino, Chatbot, un giorno al museo, in DigItalia, 2 (2021), pp. 9-23.
[241] Cfr. ivi, p. 19. Nella prospettiva dell’intrattenimento educativo, il mondo del gaming sta fornendo un valido supporto alla conoscenza e fruizione della cultura anche attraverso la piattaforma Minecraft Education (https://education.minecraft.net), una versione del noto videogioco che, destinata ai più giovani, consente a quest’ultimi la creazione di edifici in 3D da collocare liberamente in quel mondo costituito da blocchi che è tipico di Minecraft. Sotto la guida dei propri insegnanti o esperti, i ragazzi potrebbe allora riprodurre all’interno del videogioco anche la facies architettonica di un luogo di culto, con la possibilità di apprendere ˗ giocando ˗ non soltanto la storia e l’arte cristiana, ma anche i valori espressi dal variegato patrimonio culturale ecclesiale.
[242] Va ricordato che l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è stata sottoscritta il 25 settembre 2015 dai 193 Paesi membri delle Nazioni Unite. I 17 Goals, nel prendere in considerazione la dimensione economica, sociale ed ecologica dello sviluppo sostenibile, si propongono di porre fine alla povertà, di lottare contro l’ineguaglianza, di affrontare il cambiamento climatico e di costruire società pacifiche nel rispetto dei diritti umani: cfr. https://www.agenziacoesione.gov.it (consultato il 5 aprile 2022).
[243] Cfr. J. Tatay, L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e le religioni, in La civiltà cattolica, 1 (2021), quad. 4094, pp. 105-117; V. Grassi, Le strategie di intervento della Chiesa cattolica per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, in Il patrimonio culturale di interesse religioso in Italia. Religioni, diritto ed economia, cit., pp. 177-178.
[244] Cfr. O. Aime, La natura non spenta. Religioni e sostenibilità, in Religioni e sviluppo sostenibile, a cura di L. Battaglini – I. Zuanazzi, Torino, 2021, pp. 6-14; A. P. Tavani, Le religioni e le nuove sfide di sviluppo sostenibile, in Religioni e sviluppo sostenibile, cit., pp. 14-17.
[245] V. Grassi, Le strategie di intervento della Chiesa cattolica per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, cit., p. 178.
[246] Per un approfondimento si rinvia, per tutti, a K. Gosler, Religioni ed ecologia. La responsabilità verso il creato nelle grandi religioni, Bologna, 1995, passim; S. Santangelo, La Chiesa Cattolica e la sfida ecologista, in Silvae, 3 (2005), pp. 17-24; T. Gorringe, Le Chiese e i cambiamenti climatici, in Il Regno-Documenti, 13 (2012), p. 441 ss; M.R. Piccinni, La tutela dell’ambiente nel diritto delle religioni, Roma, 2013, passim; F. Balsamo, Religioni ed ambiente: il contributo delle confessioni religiose alla costruzione di una democrazia ambientale, in Diritto e religioni, 9 (2014), pp. 113-151; F. Sorvillo, Eco-fede. Uomo, natura, culture religiose, in Esercizi di laicità interculturale e pluralismo religioso, a cura di A. Fuccillo, Torino, 2014, pp. 107-113.
[247] Paolo VI, Discorso in occasione del 25° anniversario della FAO, 16 novembre 1970, in www.vatican.va, n. 5. Per un commento al discorso papale si veda B. Sorge, La crisi ecologica. Un problema di scienza e di cultura, in La civiltà cattolica, 121 (1970), p. 417 ss.
[248] Paolo VI, Lettera apostolica Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, in https://www.vatican.va, n. 21.
[249] Cfr. Giovanni Paolo II, Udienza generale, 17 gennaio 2001, in www.vatican.va, n. 4.
[250] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Redemptor hominis, 4 marzo 1979, in https://www.vatican.va, n. 15.
[251] Ibid.
[252] L. Battaglini, I. Zuanazzi, Religioni e sviluppo sostenibile, cit., p. VIII; V. Grassi, Le strategie di intervento della Chiesa cattolica per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, cit., p. 183.
[253] Papa Francesco, Lettera Enciclica Laudato sì sulla cura della casa comune, cit., n. 211. Sul tema si rinvia altresì ad A.G. Chizzoniti - A. Gianfreda, Una nuova sfida per il diritto canonico del Terzo millennio. La Laudato sì e il magistero pontificio, in AA.VV., Laudato sì. Risonanze. La cura della casa comune e l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 2016, pp. 35-45; G. Zeppegno, Gli obiettivi dello sviluppo sostenibile nell’Enciclica Laudato sì, in Religioni e sviluppo sostenibile, cit., pp. 109-137.
[254] Papa Francesco, Lettera Enciclica Fratelli tutti sulla fraternità e l’amicizia sociale, 3 ottobre 2020, in https://www.vatican.va, n. 17.
[255] Papa Francesco, Lettera per l’evento “Economy of Francesco”, Assisi, 26-28 marzo 2020, in https://www.vatican.va. L’evento era stato inizialmente previsto per il 26-28 marzo 2020, rinviato a causa della pandemia si è tenuto online tra il 19 e il 21 novembre 2020.
[256] Cfr. E. Trevisi, Custodire il creato con la tecnologia: follia o necessità?, in Laudato sì. Risonanze. La cura della casa comune e l’Università Cattolica del Sacro Cuore, cit., pp. 61-75.
[257] Sulla Green IT o Green Computing cfr., per tutti, T. Geller, Green Computing: Are you ready for a personal energy meter?, in Communications of the ACM, 51 (2008), pp. 11-12; S. Murugesan, Harnessing Green IT: Principles and Practices, in IT Professional, 10 (2008), pp. 24-33; G. Sissa, Green Software, in Mondo digitale, 3 (2009), pp. 46-54; S. Biswajit, Green Computing, in International Journal of Computer and Trends and Technologies, 14 (2014), pp. 46-50; C. Zecca, Sostenibilità ambientale e digitalizzazione, in Policlinic, 7 (2021), pp. 45-52.
[258] Cfr. R. Vergallo, Green Software Engineering: cos’è, perché è importante per l’ICT, in https://www.ebergyup.tech(consultato il 10 aprile 2022).
[259] Sulla letteratura informatica in materia cfr., per tutti, S. Upson, Cloud Computing, in IEEE Spectrum, 1 (2011), p. 43 ss; S. Subashini- V. Kavitha, A survey on security issues in service delivery models of cloud computing, in Journal of Network and Computer Applications, 34 (2011), p. 1 ss; R. Pareek, Cloud Computing, in Journal of Global Research in Computer Science, 7 (2011), p. 157 ss; G. Kumar - J. Raheja Sodhi, Cloud Computing, in International Journal of Computers & Technology, 1 (2013), p. 5 ss.
[260] Nonostante sia diventato molto popolare negli ultimi anni, il cloud computing si considera nato nel 2006, ma una definizione ufficiale è stata fornita dal National Institute of Standards and Technology solo nel 2011: “Il cloud computing è un modello per consentire l’accesso via rete, su domanda, in modo conveniente e in qualunque momento, a delle risorse computazionali condivise e configurabili, che possono essere rapidamente fornite e rilasciate con sforzo di gestione o interazione con il fornitore minimi”. Questa definizione mette in luce gli aspetti fondamentali del cloud: l’uso della rete per accedere alle risorse (potendo accedervi anche se ci si trova fisicamente a grandi distanze da esse), la condivisione di tali risorse con altri utilizzatori e la gestione elastica della quantità di risorse utilizzata (l’utente può richiedere solo quelle di cui ha strettamente bisogno in quel momento): cfr. H. Mei: Cloud computing: Ten years and Beyond, in https://forum.huawei.com(consultato il 5 aprile 2022).
[261] Secondo lo studio A quick guide to your digital carbon footprint di Ericsson il 6% delle emissioni globali di anidride carbonica, che corrispondono a circa 370 milioni di tonnellate di Co2 immesse ogni anno nell’atmosfera, è imputabile ai data center. Lo studio stima che entro il 2025 i data center consumeranno una quota poco inferiore al 5% dell’energia prodotta nel mondo: cfr. https://www.ericsson.com (consultato il 5 aprile 2022).
[262] Cfr. J.E. Smith - N. Ravi, Virtual Machine: versatile platforms for systems and processes, Amsterdam, 2005, pp. 6-22; E. Baldino, R. Rondano, A. Spano, C. Iacobelli, Internetworking: sistemi e reti, Milano, 2018, pp. 215-218.
[263] Cfr. E. Baldino, R. Rondano, A. Spano, C. Iacobelli, Internetworking: sistemi e reti, cit., pp. 215-218; G. Sissa, Green Software, cit., p. 48; S. Murugesan, Harnessing Green IT: Principles and Practices, cit., p. 24 ss.
[264] La virtualizzazione dei server consentirebbe quindi una riduzione del total cost of ownership che dipende sia dal costo nudo delle macchine e dei software, sia dalle spese necessarie a garantire il loro funzionamento, nelle quali rientrano a pieno titolo anche i consumi energetici e il personale IT.
[265] Cfr. F. La Trofa, Cos’è la virtualizzazione e quali sono i suoi vantaggi per le aziende, in https://universeit.blog/virtualizzazione (consultato il 5 aprile 2022).
[266] Cfr. E. Baldino - R. Rondano - A. Spano - C. Iacobelli, Internetworking: sistemi e reti, cit., p. 216.
[267] Cfr. ivi, p. 215.
[268] Quando l’hypervisor si configura come layer sull’hardware host viene chiamato hypervisor di tipo 1 o bare metal. L’hypervisor di tipo 2 è invece un software installato nel sistema operativo host con il quale condivide l’impiego dei driver e dei software che consentono di gestire e virtualizzare le risorse della macchina fisica. Nonostante le due tipologie, il concetto alla base degli hypervisor è il medesimo: gestire le risorse hardware del sistema host (CPU, RAM, storage) per creare dei sistemi guest virtualizzati: cfr. ivi, p. 215.
[269]Cfr. https://www.servizioinformatico.chiesacattolica.it(consultato il 5 aprile 2022).La CEI offre altresì una piattaforma per la creazione di siti web parrocchiali: PWeb. Basata su Word Press, Pweb consente a ogni parrocchia di gestire il proprio sito in maniera autonoma e con semplicità, aggregando contenuti da fonti autorevoli (news da vatican.va, tweet da @pontifex), integrandoli sui propri canali social. Inoltre, PWebintende essere una community aperta a tutte le parrocchie, un ambiente dove partecipare attivamente allo scambio di idee, condividere contenuti, portare suggerimenti e proposte.
[270] Cfr. https://www.servizioinformatico.chiesacattolica.it. L’hosting è un servizio che consente all’utente di noleggiare uno spazio su un server (fisico o virtuale) che rimane di proprietà del provider. Quello più comune e meno costoso è l’hosting condiviso (shared hosting), fornito anche dalla CEI, che prevede la presenza di siti web diversi (o di altre applicazioni) all’interno dello stesso server, condividendone le risorse. La CEI offre inoltre il servizio di hosting dedicato, ove l’utente acquista non solo lo spazio ma anche la macchina (virtuale, come nel caso della CEI, o fisica) del provider. È poi importante non confondere l’hosting con l’housing che permette invece di ospitare server che sono di proprietà dell’utente all’interno della farm del provider in una particolare struttura nota come rack, una sorta di armadio composto da sezioni ognuna delle quali è dotata di un cartellino che permette l’immediato inserimento o estrazione del server dell’utente.
[271] Cfr. M. Uddin - A.A. Rahman, Virtualization implementation Model for Cost Effective &Efficient Data Centers, in International Journal of Advanced Computer Science and Applications, 2 (2011), pp. 69-74.
[272] Cfr. ivi, p. 73.
[273] Cfr. ibid.
[274] Un ambiente di runtime è tecnicamente l’ambiente di esecuzione fornito a un’applicazione o software dal sistema operativo. I container sono dunque partizioni all’interno del sistema operativo del server fisico (host) e condividono con esso il kernel, vale a dire il nucleo, la parte principale e fondamentale del suo sistema operativo.
[275] Una caratteristica della virtualizzazione dei server, su cui forse non è stata posta sufficiente attenzione nel corso della trattazione, è quella di realizzare vincoli di isolamento molto stringenti. Questa metodologia consente infatti di collocare applicazioni su macchine virtuali che sono separate e isolate dall’hardware fisico sottostante. Ciò avviene grazie all’hypervisor che di fatto si interpone tra il sistema operativo host (quello della macchina fisica) e la macchina virtuale. Da questa prospettiva si riscontra anche un vantaggio in termini di sicurezza: qualora ci fosse una minaccia a un’applicazione virtualizzata il sistema host non dovrebbe subire alcun danno, dal momento che sarà sufficiente chiudere o rimuovere l’istanza corrotta sulla virtual machine e sostituirla con una nuova dotata delle medesime caratteristiche. Nel caso di un container l’isolamento è invece più rilassato proprio perché si tratta di una ‘bolla’, per così dire, all’interno del sistema operativo dell’host: cfr. F. La Trofa, Cos’è la virtualizzazione e quali sono i suoi vantaggi per le aziende, cit.
[276] Cfr. G. Sayfan, Mastering Kubernetes: master the art of container management by using the power of Kubernetes, Birmingham, 2018, pp. 6-17; C. Richardson, Microservices Patterns: With examples in Java, New York, 2019, pp. 393-401.
[277] Oltre ai tre classici modelli di servizio del cloud (Infrastructure as a Service, Platform as a Service e Software as a Service), stanno emergendo ulteriori categorie che spesso sono una combinazione o un caso specifico di quelle sopraindicate. In generale ricadono nel c.d. XaaS (Anything as a Service), ossia fornire qualsiasi cosa attraverso un servizio, il Cluster as a Service e il Container as a Service. Nel Cluster as a Service viene offerta al cliente la possibilità di richiedere interi cluster, prefigurati o meno. Alcuni esempi di cloud provider che offrono questo modello sono Amazon Web Services, Google Cloud Platform e Microsoft Azure; essi consentono di richiedere anche un cluster K8s. Nel Container as a Service si dà invece al cliente la possibilità di effettuare il deployment, sull’infrastruttura cloud, di applicazioni containerizzate: cfr. R. Pareek, Cloud Computing, cit., p. 157 ss; G. Kumar - J. Raheja Sodhi, Cloud Computing, cit., p. 5 ss.
[278] Cfr. A.S. Tanenbaum, D.J. Wetherall, Reti e calcolatori, Milano-Torino, 2011, p. 555 ss.
[279] G. Sayfan, Mastering Kubernetes: master the art of container management by using the power of Kubernetes, cit., pp. 10-17; C. Richardson, Microservices Patterns: With examples in Java, cit., pp. 399-402.
[280] Il cluster K8s è costituito da due tipologie di nodi: il Master Node (o Control Plane) contiene le componenti che consentono di gestire il cluster, vale a dire quelle che permettono di accettare richieste dai client, di effettuare lo scheduling dei container e i cicli di controllo per mantenere il cluster funzionante; i Worker Nodes sono invece i nodi che si occupano dell’esecuzione dei container: cfr. G. Sayfan, Mastering Kubernetes: master the art of container management by using the power of Kubernetes, cit., pp. 22-26.
[281] Cfr. ivi, p. 12.
[282] Cfr. ibid.
[283] Cfr. C. Richardson, Microservices Patterns: With examples in Java, cit., pp. 393-395. Docker è in grado di gestire tutto il lifecycle di un container: dalla definizione, alla build fino all’esecuzione. Docker rappresenta la scelta di default, ma è possibile utilizzare altri container runtime come CRI-O e Containered: si rinvia a https://cri-o.io e https://containered.io (consultato il 5 aprile 2022).
[284] Cfr. G. Sayfan, Mastering Kubernetes: master the art of container management by using the power of Kubernetes, cit., p. 21.
[285] Con l’Horizontal Pod Autoscaler si modifica automaticamente il numero di repliche di un pod, con il Vertical Pod Autoscaler si cambiano le richieste e i limiti nell’uso delle risorse di ogni replica di pod e con il Cluster Autoscaler si aumenta o diminuisce il numero di nodi del cluster: cfr. K. Baren, Kubernetes autoscaling: 3 common methods explained, in https://cloud.redhat.com (consultato il 6 aprile 2022).
Samorè Ilaria
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