Nel solco di Aristotele. Note a favore di una concezione umanista e realista della retorica
Federico Puppo*
Nel solco di Aristotele. Note a favore di una concezione umanista e realista della retorica**
English Title: In the wake of Aristotle. Notes in favor of a humanist and realist conception of rhetoric
DOI: 10.26350/18277942_000088
Sommario: §1. Introduzione – §2. Un succinto quadro storico – §3. (segue): guardando al diritto – §4. Per una rifondazione della retorica a partire dalla Retorica.
§1. Introduzione
Questo scritto si occupa di retorica, assumendo in prima istanza che, più o meno, tale termine abbia un significato condiviso e immediato tale da poter identificare per chiunque, anche per i ‘non addetti ai lavori’, una qualche attività di tipo persuasivo che si realizza attraverso discorsi o altre dinamiche comunicative[1]. Pertanto, non mi impegnerò, dapprincipio, in alcuna disanima concettuale mettendo a confronto le varie e possibili definizioni che di quell’attività sono state offerte e/o i possibili usi di quel termine/concetto[2] o, ancora, discutendo le prospettive dischiuse da approcci che ne mettono in discussione l’esclusività facilmente riconducibile alla cultura (classica) Occidentale[3].
La prospettiva che qui adotto emergerà nel corso dei prossimi paragrafi e si vedrà come, per lo più, il punto di partenza sia individuabile in negativo, assumendo cosa la retorica innanzitutto non sia. Offrirò quindi argomenti (auspicabilmente convincenti) per sostenere che essa non è quell’attività persuasiva di tipo negativo che normalmente si ritiene essere, giacché si pensa che chi parla retoricamente lo fa con il fine di far passare per vero ciò che vero non è. Sosterrò, invece, che la retorica ha un valore positivo ma, ancor più di questo, mi spingerò a dire che la retorica non è una tecnica persuasiva (da usarsi per persuadere verso il vero o verso il falso): sulla base, in particolare, della Retorica aristotelica che qui viene letta in particolare attraverso l’esegesi di Martin Heidegger[4] e di Francesca Piazza[5], si può infatti considerare la retorica – e questo, se si vuole, è il punto di caduta delle mie riflessioni – non una tecnica (manipolatoria o meno che sia non importa), ma un modo di essere. Più precisamente, il modo di essere dell’uomo[6] come politikòn zôon, animale linguistico e politico (si dirà in seguito su tale definizione), stando ben lontani dal pregiudizio del «pensiero filosofico moderno [che] ha cercato di addomesticare questo fenomeno [della persuasione], ritenuto pericoloso, relegandolo fra le inevitabili debolezze della natura umana e contrapponendovi il processo, tutto razionale e controllabile, della dimostrazione»[7]. Di più: la lettura che qui si propone – che potrebbe godere dell’appellativo di “concezione realista della retorica” – porta anche a concludere che il problema principale della retorica così interpretata non è quello di movere animos, di suscitare certe passioni o sentimenti da accompagnare alla ragione (valore quindi positivo) o rivolgere contro essa (valore quindi negativo). Ritengo, piuttosto, che il problema principale della retorica, e quindi del retore, sia la realtà e il nostro dipendere e rapportarsi con essa: che poi è il problema di ogni tipo di conoscenza.
Per poter sostenere tutto ciò con un minimo di speranza di successo, forse la cosa più proficua è prender le mosse dall’opinione negativa sulla retorica, quella più diffusa e, secondo alcuni, «banale»[8], che però è anche quella più risalente nel tempo[9]. Risalente addirittura alle origini della retorica che prende forma, in quanto arte della persuasione, in relazione allo sviluppo della sofistica[10] la quale, per definizione, stabiliva, per l’appunto, che l’arte del persuadere era da esercitarsi con il solo fine di convincere l’uditorio di qualsivoglia tesi (come ciò sia possibile lo si comprenderà più avanti), guadagnando il consenso con ogni tipo di tecnica suasoria l’oratore sapesse usare, certi come si era (e forse ancora si è) che con l’abile uso della parola si potesse far credere qualunque cosa a chiunque e farlo poi agire di conseguenza. Contro i sofisti, Platone, prima, ma poi soprattutto, e in modo assai più convincente, Aristotele, si proposero di sviluppare una compiuta visione filosofica che aveva come punto focale la, potremmo dire, custodia della retorica. Da questo punto di vista, occorre peraltro precisare che ad una visione platonica che tende a dividere fra una retorica ‘buona’ e una ‘cattiva’ (la sofistica), a seconda del suo rivolgersi a sostegno della verità o meno – giudizio che dipende dall’interpretazione platonica dello statuto dell’opinione[11], e che permette di indugiare in facili dualismi che incontrano tutti i limiti del caso, non ultimo il trascurare l’esperienza che, nel campo retorico, è un errore esiziale –, ecco, rispetto tale visione preferisco qui adottare la concezione aristotelica, per cui la retorica è una e una soltanto, comprendendo essa in sé la capacità di persuadere ed essere persuasi anche del falso, dal momento che le cose di cui si discute in vista della deliberazione pratica possono sempre essere altrimenti.
In effetti, la retorica ha un potere molto grande, a causa della capacità che essa ha di dominare le passioni, conquistando in ragione della bellezza del discorso e del piacere che essa sa produrre: è, d’altra parte, sulla base di quest’assunto che, già nel periodo fra II e IV sec. a. C., si assistette nella elaborazione di quella che altri ha chiamato «la retorica generalizzata»[12], ovvero la retorica come «teoria dello scrivere e tesoro delle forme letterarie insieme»[13]. Si inizia così, già in quel tempo, a intravvedere ciò che la retorica diverrà in seguito, ossia soprattutto arte del bello scrivere ed estetica del discorso, fino poi a scomparire. Questo avverrà molto dopo, nell’età moderna, il cammino di preparazione della quale conosce, per ciò che ci interessa, la graduale esclusione della retorica dal dominio della logica.
In questo scritto ripercorrerò brevemente la storia di tale allontanamento[14] che permane almeno fino alla metà del secolo scorso quando, in modo non sempre del tutto riuscito, si avvertì l’esigenza di recuperare all’alveo dei saperî la retorica, la cui (per molti versi, parziale) riscoperta si è accompagnata allo sviluppo parallelo delle teorie dell’argomentazione[15], con le quali però fatica spesso a dialogare, in particolare per il sospetto con cui le prime guardano tuttora all’elemento delle emozioni (e così continuando a ritenere la retorica una tecnica accessoria che ha a che fare con queste). I diversi approcci teorici sembrano posizionarsi su due fronti distinti, identificabili, a seconda delle categorie che si preferisce usare, come «concezioni compatibiliste deboli» o «concezioni c.d. compatibiliste forti», ovvero come «modelli filosofici» o «modelli umanistici» dell’argomentazione[16]. La Danblon si fa promotrice di questi ultimi sulla base dell’idea che «la retorica sia una condizione necessaria degli studi sull’argomentazione. […] [U]na visione che può apparire provocatoria»[17] se confrontata con quella dominante, per la quale «si “accetta” la retorica se (e solo se) può essere esplicitamente collegata alla filosofia e/o alla logica»[18]. Gli esempi di questa visione sono diversi, e spaziano da alcuni approcci tipici (ma non esclusivi: v. infra) della logica informale, come quello di D. Walton, fino alla pragmadialettica di F. van Eemeren: al netto delle differenze che li identificano, «tali teorie possono essere descritte come modelli “filosofici” dell’argomentazione [….] [poiché] gli autori prendono le mosse da un ideale modello filosofico di argomentazione che è, implicitamente o esplicitamente, ispirato alla visione della retorica di Platone. Come conseguenza, in tali teorie la retorica è sempre un di più [an afterthought], rappresentato come un qualche tipo di modo indiretto, e di conseguenza meno razionale, di dibattere nella sfera pubblica»[19].
Ebbene, accanto e contro tale visione – ed evidentemente appoggiandosi piuttosto ad Aristotele (come è chiaro laddove si propone una vera e propria antropologia del discorso richiamando gli studi di Kennedy e Aubenque direttamente collegati allo Stagirita) – la studiosa Belga difende, sulla base di Vico e, più di recente, di Ernesto Grassi, «un modello umanistico di retorica […]. Se anche l’umanesimo è un modo filosofico di comprendere gli usi della retorica, penso che nonostante tutto abbia un considerabile vantaggio rispetto ai modelli “idealistici”. In un modello umanista dell’argomentazione, la retorica non è mai un di più; è concepita come essenziale per i discorsi pubblici. Il modello umanista obbliga lo studioso a comprendere che l’argomentazione è di per sé retorica e a non trattare la retorica come una “deviazione” da un presunto modo puro o esatto di parlare e dibattere. La differenza principale fra i modelli idealista e umanista sul modo in cui è concepita la retorica sta pertanto nelle loro rispettive, radicalmente diverse, concezioni di razionalità»[20].
È chiaro che qui si condivide questa seconda prospettiva ed, anzi, forse la si radicalizza: ma prima di giungere a tale conclusione, è opportuno vedere come siamo giunti sin qui.
§2. Un succinto quadro storico
Un possibile modo di comprendere lo sviluppo e le alterne fortune della retorica nel corso della storia del pensiero è quello di leggerla in relazione con la logica, disciplina che anticamente si identificava con il nome di “dialettica” e che, in buona sostanza, consisteva nel sapere che si occupa di studiare e dettare, prescrittivamente, canoni di validità e razionalità al discorso e al ragionamento. Sino a quando la retorica si è letta in connessione con la dialettica[21], essa ha continuato a godere di tutti i crismi di razionalità che ogni tipo di conoscenza degna di questo nome deve avere. Fu così per Aristotele, ma anche per Cicerone, Quintiliano, e poi Agostino, Vico etc.; ma tale situazione cambia con il far del tempo, quando si iniziò a intravvedere l’idea di una divisione fra saperî, oggettivi e certi, da una parte, soggettivi e incerti, dall’altra: una separazione che diventerà così familiare da risultare alfine scontata.
È possibile rintracciare il definitivo punto di svolta con il passaggio all’età moderna, allorquando la retorica è interessata da un duplice, per certi versi contrario, movimento: da un lato, nella formazione del nuovo sistema di sapere, «la Retorica di Aristotele può entrare […] e arrecare un ulteriore complemento. Ed è proprio ciò che accade […] quando – da Copernico in poi, con Galileo e tutti i grandi scienziati tra la fine del Cinquecento e il Seicento – viene affermandosi la scienza moderna, e l’aristotelismo, insieme ad altre filosofie antiche, inizia il suo lento declino in Occidente»[22]. Qui la retorica gioca il suo ruolo, potremmo dire, ‘letterario’: ma, dall’altro lato, va ricordato come la rivoluzione scientifica, che trova proprio in Galileo Galilei il suo primo maggiore rappresentante, fu anche (se non soprattutto) la proposta di una filosofia molto diversa rispetto alle precedenti, in particolare rispetto a quella aristotelica e al ruolo focale attribuito in essa alla retorica. Occorre infatti ricordare come la novità del metodo inaugurato da Galileo non fu tanto e solo il ruolo assegnato all’empirismo (cosa che era già presente nella tarda Scolastica, in particolare oxoniense) o l’avere attribuito alla matematica un ruolo preciso nella descrizione della natura (da tempo questo era noto e da tempo si riconosceva alla matematica un’eccellenza nell’esercizio della ragione). La c.d. rivoluzione galileiana consistette, piuttosto, nel fatto che Galileo «rigettò specificamente il nucleo vero e proprio della conoscenza scientifica secondo la dottrina tradizionale, ovvero la capacità di catturare l’essenza reale delle cose»[23]. La comprensione della natura, per Galileo (e, dopo questi, per la scienza moderna) si ottiene, infatti, «solo per mezzo di un’indagine non-filosofica, rifiutando la ricerca di un qualsiasi principio ultimo»[24].
Tutto ciò contribuirà a gettare le basi per il razionalismo successivo, in cui ormai la definitiva separazione fra la logica (oramai nemmeno più chiamata “dialettica”) e la retorica, che nulla avrà più a che fare con il sapere vero e proprio, si consumerà: e da allora non sarà mai più veramente ricomposta. Nasce, infatti, proprio in quel periodo, una nuova idea di logica che da allora assumerà forme sempre più complesse ed esatte, ‘matematizzanti’, infine del tutto anti-retoriche.
Proprio nel maturo Seicento si assiste, infatti, ad un cambio di prospettiva, radicale e definitivo, della logica[25]: in precedenza, da Aristotele fino ai medioevali, la logica identificava la teoria dell’inferenza corretta, era connessa a tematiche filosofiche generali (basti ricordare come l’analisi del più importante principio logico – il principio di non contraddizione – viene da Aristotele condotta nella Metafisica) ed era intrinsecamente parte dello statuto della retorica. Invece, nel secolo che aveva visto, tra l’altro, il fiorire della filosofia cartesiana e lo sviluppo del metodo scientifico – che molta parte iniziarono a giocare, da lì in poi, anche nel pensiero giuridico e politico, come accadde con Thomas Hobbes, ma poi anche nell’analisi del ragionamento giuridico, come avvenne con Cesare Beccaria – ecco, proprio in questo XVII secolo si manifestano «le prime avvisaglie di quella matematizzazione della logica che […] avvenne in modo conclamato nell’Ottocento»[26] e che, da allora, non ci ha mai veramente abbandonati. In effetti, la rivoluzione che si registrò qualche secolo fa fu così profonda che ancora oggi, a parlare di “logica”, si pensa a una teoria fatta di simboli e calcoli assai simile alla matematica e, forse anche per questo, del tutto estranea alla formazione umanistica, come è quella giuridica.
Tale rivoluzione si intravide già, ad esempio, in Leibniz, il quale ebbe un’idea dalle potenzialità enormi (e che però, come a volte accade nelle avventure del pensiero, rimase in gran parte ignota fino all’inizio del Novecento): egli, infatti, pensò che fosse opportuno sviluppare una vera e propria logica matematica, una (come egli la chiamava) «ars charecteristica» con l’obiettivo di creare un sistema di segni (a cui ridurre il linguaggio e il pensiero) e di operazioni matematiche (a cui ridurre le inferenze) così da poter risolvere tutte le dispute, filosofiche ma anche giuridiche. In questi casi, una volta avuto il sistema di segni e operazioni, non servirà più discutere a lungo inutilmente: basterà sedersi ad un tavolo, prendere in mano una penna e calcolare. «Calcolemus!», diceva Leibniz. E da allora in poi con la logica si calcolerà. E si calcolerà grazie allo sviluppo impresso nell’Ottocento da George Boole, la cui binaria algebra della logica – nata con l’idea che il nostro stesso pensiero è governato da processi di tipo matematico – sarà poi alla base, grazie alle intuizioni di Shannon, della creazione dei computer e della rivoluzione digitale, che cambierà per sempre il nostro modo di vivere e il nostro sapere. Il quale fu da Boole avviato verso la grande stagione della logica formale, consacrata dalle opere di Gottlob Frege, che è unanimemente riconosciuto come il vero iniziatore di quel sapere cui noi tutti, da allora in poi, penseremo quando sentiremo parlare di “logica”: un mondo in cui il legame fra questa e la matematica è così potente che «l’espressione “logica matematica” è stata usata sempre più raramente, restando implicito il fatto che qualunque logica in senso proprio è in qualche misura matematica»[27].
Si inizia così un periodo che durò per tutto il Novecento, con lo sviluppo di quel sapere che ha conosciuto sempre maggiore precisione e complessità; laddove, almeno a dirla con Russell, «il ruolo della logica consisteva nel fornire una chiarificazione di enunciati, tesi e teorie ambigue malformulate, e dunque in tal modo avviare la soluzione di problemi filosofici suscitati da tali enunciati, tesi, teorie. La filosofia doveva cioè offrire, con l’aiuto della logica, analisi del linguaggio tali da chiarire i termini dei problemi e avviare in tal modo la loro soluzione»[28].
Tutto ciò avrà, anche per il campo giuridico, un impatto fortissimo: Russell, infatti, «mise a punto un nuovo metodo filosofico, che restò poi caratteristico della tradizione filosofica detta “analitica”. Il nucleo centrale del metodo è l’idea […] che il linguaggio naturale maschera la autentica forma logica degli enunciati»[29] che va invece rivelata e analizzata, con strumenti che furono forgiati (a dire il vero non senza problemi: ma qui non ce ne occuperemo) inizialmente dallo stesso Russell e poi sviluppati, fra gli altri, da Wittgenstein, con un approccio che, per molti versi, giocò un ruolo preponderante, anche nel diritto, in cui si sposò con, e diede linfa vitale al, giuspositivismo.
Il frutto di questo processo, che vide momenti di profonda crisi (su tutti, l’emersione dei paradossi e i teoremi di incompletezza di Gödel)[30] ma che ha anche saputo riconsiderare funditus i propri assunti teorici (fino allo sviluppo delle logiche non-classiche), lo vediamo ancora oggi: quando parliamo normalmente di “logica” ci riferiamo, infatti, usualmente, a qualcosa di molto lontano rispetto a ciò che intendeva Aristotele e a quanto appariva possibile riferire al campo del linguaggio naturale e alla persuasione che, grazie ad esso, si attua mediante la retorica. È vero, infatti, che Aristotele fu colui che per primo si occupò di logica e che molto di questo sapere lo si deve a lui (basti pensare che fu il primo, nel suo Organon, a proporre l’uso di formule)[31], ma è anche vero che, proprio in modo diverso rispetto alla sua impostazione, nacque ad opera di alcuni contemporanei dello Stagirita un altro tipo di logica, cui è per molti versi assai vicina la moderna logica formale. Si tratta della logica sviluppata dai Megarici e dagli Stoici, che è molto diversa da quella aristotelica: ad esempio, si tratta di una logica profondamente incentrata sul principio di identità, di cui in Aristotele non v’è neppure traccia, ed è una logica che, ancora, guarda con molto sospetto al linguaggio naturale, ritenuto affetto da caratteristiche negative, come la vaghezza, che lo renderebbero, secondo l’approccio alternativo a quello aristotelico, incapace di esprimere verità. Secondo i megarico-stoici, infatti, la verità sarebbe piuttosto oggetto dei dominî di linguaggi non vaghi, che però non saranno mai quelli del linguaggio usato nel mondo delle opinioni, che sono per inciso, fra gli altri, proprio quelli dei discorsi retorici i quali, perciò, secondo la lettura antagonista a quella aristotelica, resteranno per ciò stesso consegnati irrimediabilmente alla falsità. Si tratta di un’idea opposta a quella aristotelica ma che percorrerà, a tratti alterni, altri momenti della storia del pensiero e della logica occidentali, fino a divenire dominante e pressoché esclusiva con la moderna logica matematica[32].
E questo lo si pensa anche oggi perché la “logica” è lontana dal campo del linguaggio naturale e alla persuasione che si attua mediante la retorica, in ragione della loro distanza dalla razionalità identificata con la dimostrazione e la certezza. E questo, naturalmente, vale anche per il diritto.
§3. (segue): guardando al diritto
In effetti, lo sviluppo dei rapporti fra diritto e retorica ha comportato una netta divisione fra tali due ambiti, conformemente all’evoluzione più generale che si ebbe proprio dell’idea di logica e di ragionamento valido.
Si guardi, a mo’ di esempio, ad uno dei dati più salienti dell’esperienza giuridica moderna, ossia il valore assegnato alla certezza del diritto. Un ideale a lungo coltivato, preannunciato nel progetto leibniziano, e infine consacrato dalla codificazione, che raccoglie i frutti della tradizione illuministica: una vera e propria ideologia che deve a Cesare Beccaria la formulazione di uno dei più influenti principi di metodo che divennero poi il dato costitutivo di tutta la speculazione successiva intorno al ragionamento e logica giuridici e che, lo si ripete, nulla hanno a che fare con la retorica. Egli si sforzò di trovare un freno all’allora diffusa incertezza del diritto, che molto dipendeva, così ritenne Beccaria, dal comune assioma che occorresse «consultare lo spirito della legge [che è però] un argine rotto al torrente delle opinioni»[33]. In effetti, sono proprio le opinioni, secondo Beccaria, la causa dell’incertezza che molto danno arreca nell’amministrazione della giustizia (ma in senso consimile si era già espresso, per es., anche Hobbes), cui occorre porre rimedio: e il rimedio, da Beccaria, fu visto (ma anche questo è notorio) in una precisa forma di ragionamento a cui il giudice, nell’applicare il diritto, deve attenersi. Questa forma è quella della deduzione logica, che Beccaria mutua dal metodo scientifico: «in ogni delitto si deve fare da giudice un sillogismo perfetto; la maggiore dev’essere la legge generale, la minore l’azione conforme, o no, alla legge; le conseguenze la libertà e la pena. Quando il giudice sia costretto, o voglia fare anche soli due sillogismi, si apre la porta all’incertezza»[34], che non poteva più essere tollerata.
Tale impostazione non è certo scevra da problemi (qui non ne possiamo parlare) ma essi sembrano irrilevanti: al punto che tale modello, inizialmente prescrittivo (si parla di ciò che il giudice deve fare e non di ciò che egli fa), nel corso dell’Ottocento assunse un ruolo «esplicativo dell’agire giudiziale […] per essere così assimilato ai modelli di ragionamento adottati nel campo della matematica e delle scienze naturali»[35]. È così che si addiviene ad «una vera e propria “ideologia legale-razionale”, tesa a raffigurare la sentenza del giudice come la conseguenza di un processo meramente dichiarativo e conoscitivo, e non invece come l’esito di una decisione frutto di scelte discrezionali»[36]. Ecco che, allora, il sillogismo giudiziale diventa il modello del ragionamento giuridico, nella agognata conquista della scientifica certezza deduttiva che il diritto e la scienza giuridica hanno sempre faticato a raggiungere.
L’idea, infatti, è ormai divenuta quella di liberare il diritto dall’incertezza implicata dalla soggettività impressa dai giudizi di valore, che si riteneva ormai da tempo non poter essere più ricompresi nell’universo del giuridico. Ma proprio tale assunzione, insieme al modello di logica incarnato dal sillogismo giudiziale, saranno finalmente oggetto di critiche precise che, dalla seconda metà del Novecento, riapriranno il sipario sulla retorica, anche nel diritto.
Il Secondo Dopoguerra, aperto dal processo di Norimberga, ha rappresentato, senza nessun dubbio, un periodo di profondo ripensamento del diritto e delle categorie della giuridicità nel suo complesso: ne sono un esempio significativo la speculazione di Gustav Radbruch e la crisi del positivismo giuridico (che, da lì in poi, ha dovuto nuovamente cercare di giustificare, non senza fatica, il problematico rapporto fra diritto e morale, che è in buona parte connesso anche con quanto stiamo qui discutendo), insieme alla linfa vitale riacquistata dal (neo)giusnaturalismo e alla coeva nascita del costituzionalismo.
In tale contesto, proprio gli anni Cinquanta del Novecento hanno visto, fra il resto, la rinascita degli studi sulla retorica e sull’argomentazione, con l’inizio di un percorso che ha comportato un profondo ripensamento del metodo e dei criteri di razionalità del ragionamento giuridico che va di pari passo con le critiche al modello di razionalità che hanno riguardato molti campi del sapere oltre a quello della scienza giuridica. Per quanto ci riguarda, tale discussione, per il diritto, avvenne, in misura diversa, grazie agli studi di Theodor Viehweg, Stephen E. Toulmin e Chaïm Perelman che è considerato, e a ragione, il maggiore responsabile della rinascita della retorica (o, meglio, di un certo tipo di retorica), non solo in campo giuridico ma, più in generale, in tutte le scienze sociali. La sua opera più influente, scritta insieme a Lucie Olbrechts-Tyteca, il Trattato sull’argomentazione. La nuova retorica, esce in lingua francese nel 1956 esattamente lo stesso anno in cui viene pubblicato, in lingua inglese, il più celebre testo di Toulmin, Gli usi dell’argomentazione, tanto che proprio quel 1956 è rimasta la data che ha ufficialmente dato i natali a quella che è stata poi chiamata “la svolta argomentativa”, preceduta tre anni prima dalla meno fortunata opera, in lingua tedesca, Topica e giurisprudenza di Viehweg (tradotta però in italiano prima delle altre, nel 1962).
Tutte queste opere hanno una base comune: l’idea che sia necessario un cambiamento di paradigma per tutelare la razionalità dei discorsi pratici, esclusa dalla convinzione, tipicamente neopositivista, che solo il sapere ‘scientifico’ fosse in grado di vantare canoni precisi di a-valutatività e che esistesse un solo metodo (monismo metodologico) che dovesse valere per tutti i contesti. L’epistemologia contemporanea, che proprio nel primo trentennio del Novecento aveva iniziato a ripensare i fondamenti del sapere scientifico, si è emancipata da questa e da altre convinzioni ristrette ed erronee, dovendo piuttosto accogliere concezioni post-positivistiche le quali hanno, per così dire, ampliato lo spettro della razionalità, sviluppando una concezione tipicamente pluralista (i metodi, ma perfino le logiche, possono essere molteplici e diversi) che possa alfine ricomprendere, come vero ‘sapere’, anche il sapere giuridico [37].
In effetti, e solo per limitare l’analisi a Perelman, si è osservato come la sua proposta «nasceva dalla convinzione, maturata attraverso un confronto critico con il neopositivismo, che i concetti di valore e giudizi valutativi non dovessero essere semplicemente espulsi dal dominio della razionalità – ridotti a descrizioni empiriche, intuizioni, espressioni emotive o decisioni irrazionali».[38] È quindi sotto questi nuovi auspici che si rinnova, nel Novecento e (anche) nel diritto, l’interesse per la retorica, che poi maturerà nel successivo sviluppo di approcci diversi che comporranno in seguito il variegato mondo delle teorie dell’argomentazione, il quale rappresenta oggi un campo di studio in costante evoluzione: in effetti, per ciò che qui ci concerne, i nuovi scenari espressi dagli stati di diritto costituzionale hanno oramai definitivamente confermato il fatto che i giudizi di valore rappresentano una parte ineliminabile del diritto e del ragionamento giuridico e che, pertanto, è necessario recuperare una qualche forma di razionalità che ne sappia dare conto. Tale forma di razionalità, come noto, fu individuata, da Perelman stesso e da tutti concordemente dopo di lui, nella “ragionevolezza”, spostando così il fulcro «dall’“oggettività” del livello formale all’“accettabilità”. Quest’ultima era infine qualificata come “non necessaria”, cioè non basata su evidenze logiche né empiriche, ma neppure semplicemente emozionale. L’“accettabilità” cui pensava Perelman era piuttosto basata sul criterio “prudenziale” della “ragionevolezza”»[39]: un criterio che si poneva, per così dire, ‘a metà strada’ fra il razionale autentico delle dimostrazioni delle scienze analitiche ed empiriche e l’irrazionale puro delle emozioni. “Ragionevole”, in tale prospettiva, appare essere così non ciò che è vero, ma ciò che viene accettato, in un certo momento e in un certo luogo, da una certa comunità, con la qual cosa si implica, però, che si accetta alcunché non perché sia vero, ma alcunché diventa vero allorché lo si accetti.
Qui, senza voler proseguire troppo oltre nell’analisi, emerge un dato che sarà poi determinante per comprendere come l’opinione negativa circa la retorica permanga nonostante i tentativi di rifondazione della stessa: la teoria di Perelman, infatti, continua a candidare l’idea che la verità dipenda dalle opinioni. Il vero, di per sé, continua ad essere attributo specifico delle scienze formali ed empiriche, e non del mondo delle argomentazioni né, tampoco, della persuasione. Certo, quest’ultimo non sarà più nemmeno preda dell’arbitrio, perché un criterio minimo di controllo gli viene comunque assegnato, riconoscendo l’obbligo di una giustificazione di tipo argomentativo in capo a chi sostenga una certa tesi: ma non si tratta certo, al di là dei desiderata, del recupero della lezione aristotelica. La quale, lo ricordiamo brevemente, riteneva il contesto retorico del tutto governato dalla verità, di modo che fosse questa a dover condizionare il giudizio sulle opinioni e non viceversa (basti pensare all’elemento dell’ethos, cioè della credibilità dell’oratore: per Aristoele lo vanta chi afferma la verità e non, come normalmente si pensa, afferma la verità chi lo vanta).
E qui emerge un dato essenziale che connota una nuova divisione da cui, in fondo, dipende la differenza fra gli approcci compatibilisti deboli/forti o filosofico/umanisti di cui all’inizio si diceva: le teorie dell’argomentazione, da una parte, e la retorica, dall’altra. Ancora oggi, salvo notevoli eccezioni, si tratta di due mondi distinti: gli argomentativisti assumono di doversi occupare dei criteri di ragionevolezza (ossia di razionalità) dei discorsi pratici (e quindi anche di logica, che emerge per esempio nello studio delle fallacie, ossia degli errori che si commettono nei ragionamenti di tipo argomentativo); mentre i retorici si occupano di tutti quegli aspetti che si aggiungono all’argomentazione per rendere il discorso argomentativo persuasivo. Insomma, come si usa dire, le teorie dell’argomentazione hanno un fine prescrittivo e valutativo; quelle retoriche un fine descrittivo. Si pensa quindi, in sostanza, proprio come denuncia la Danblon, che la retorica sia ‘un-di-più’ che si aggiunge a un discorso che, forse, sarebbe meglio non necessitasse di quelle aggiunte.
In effetti, avendo messo da parte lo studio delle componenti retoriche dell’argomentazione legate al concetto di uditorio e ai mezzi che è possibile usare per ottenerne la persuasione, le teorie dell’argomentazione hanno potuto addivenire allo studio di modelli prescrittivi anche molto sofisticati, i quali, però, promuovono un’impostazione statica di argomento e di argomentazione[40], forse perché, in un caso o nell’altro, a pensare alla logica si finiva col pensare sempre ai modelli ipotetico-deduttivo del ragionamento formale, ritenuto, in un modo o nell’altro, comunque capace di ‘catturare’ alcune caratteristiche del ragionamento. Tali modelli ignorano, purtroppo, un aspetto essenziale dell’argomentazione, ossia il suo essere un procedere intimamente e fondamentalmente dinamico e non statico: e proprio questo è ciò che dovrebbe riportare il focus sulla retorica, intesa, beninteso, in senso aristotelico.
Se si guarda, per un istante, al di fuori dell’ambito giuridico, ciò risulta lampante: mi riferisco qui, ma è solo un esempio, a quell’ampio campo di studi che va sotto il nome di Informal Logic e che ha visto la propria nascita negli anni Settanta del secolo scorso, in particolare in Canada[41]. Si tratta di una corrente che si è espressamente fatta carico, sin dal suo nascere, di provvedere lo studio dei criteri di validità e correttezza logiche per i c.d. real life arguments i quali rifuggono, per natura loro propria, alle strette maglie delle assiomatizzazioni proprie della logica formale e che, di recente, ha conosciuto alcuni interessanti (ma assai controversi) sviluppi che potrebbero contribuire a reintegrare la retorica nella logica e la logica nella retorica.
Qui, senza nessuna pretesa di completezza, mi limito a ricordare come la multimodal argumentation di Michael Gilbert, la visual argumentation di Leo Groarke e la rivalutazione complessiva della retorica (ancorché monca di una adeguata riflessione aletica) dovuta a Christopher Tindale appaiono capaci di offrire ragioni per ricomporre, da un lato, la frattura segnata dalla modernità fra emozioni e ragione[42], prendendo in considerazione la natura multiforme di ciò che per noi è “argomento” – non riducibile alla sola componente verbale –, fino a giungere alla critica di quella che (lo accennavo poco fa) è stata denominata la «concezione ‘statica’ dell’argomento»[43] che, però, «è tuttora alla base del modo in cui molti logici informali parlano degli argomenti»[44]. In effetti, anche tra i maggiori teorici di questo movimento (su tutti i suoi ‘padri fondatori’, ossia Ralph Johnson ed Anthony Blair) è possibile ritrovare il già denunciato pregiudizio negativo nei confronti della retorica, che è quindi assai duro a morire: con il che occorrerebbe, a dire dello stesso Tindale, che gli stessi ‘eterodossi’ – rispetto alla logica formale – logici informali abbandonino una visione vetusta della retorica, che la consegna inevitabilmente alla censura, e che appartiene, paradossalmente, ad una prospettiva del tutto ‘ortodossa’ tipica del pensiero moderno (con il che i logici informali sarebbero, rispetto a quest’ultimo, ‘eterodossi’ per ciò che concerne la logica, ma ‘ortodossi’ per ciò che concerne la retorica).
Ora, al di là di questo, per i fini del presente studio non è forse privo di rilievo notare come queste generalizzate resistenze siano forse dovute al fatto che i teorici dell’Informal Logic abbiano avuto (e abbiano) in gran parte una formazione di tipo analitico che li porta, verrebbe quasi da dire ‘naturalmente’ per ciò che si è visto in precedenza, verso una concezione tutt’altro che positiva verso la retorica, che se fosse riguadagnata permetterebbe anche di addivenire ad una comprensione dinamica dell’argomento e dell’argomentazione stesse. In effetti, è stato suggestivamente notato, «un argomento è vivo; è un messaggio di potenzialità attivate»[45]. Tale idea si accompagna ad una certa idea di logica come logos che, in termini propri, esprime una concezione dinamica della logica, tipicamente aristotelica (ma invece fortemente avversata dai megarici e, poi, dagli stoici, che invece coltivavano proprio quella visione statica che, lo accennavo, poi diverrà tipica degli approcci tradizionali): lo stesso Tindale lo sottolinea quando osserva che «la poetica ha un movimento, e la logica stessa deve averlo: la logica è viva, e le sue strutture hanno un movimento interno. Occorre che ciò sia trasportato negli studi dell’argomentazione»[46].
Ciò è importante perché si vede come, dall’interno di settori il cui rilievo per il diritto è ormai assodato – ossia all’interno degli studi sull’argomentazione che devono però essere accompagnati ad una maggiore consapevolezza circa la natura della logica (che con molti limiti forse oggi si continua a guardare solo nel suo stadio di sviluppo di inizio Novecento, quando invece i progressi verso l’ampliamento dello ‘spazio logico’ degli ultimi decenni sono stati immensi)[47] –, ecco, proprio all’interno di questi campi si riscopre il ruolo cognitive delle emozioni, oramai non più guardate con sospetto, almeno sin dal celeberrimo studio di Damasio[48] che, come si usa dire, ‘ha fatto scuola’ e ha contribuito a rendere possibile una riabilitazione, in senso ampio, del legame, oltre che non occasionale, assolutamente proficuo fra esse e la componente cognitivo-razionale della mente umana[49]. Peraltro proprio come insegnava, molto tempo fa, Aristotele nella sua Retorica: ed è lì che, a questo punto, si può (rectius: si deve) tornare.
§4. Per una rifondazione della retorica a partire dalla Retorica
In effetti, la speculazione aristotelica si mostra, almeno avuto riguardo ai temi qui in discussione, in tutta la sua attualità: per lo Stagirita, infatti, non esisteva alcuno iato fra ragione ed emozioni, ma a queste egli assegnava un preciso ruolo cognitivo. Ciò gli ha consentito non solo di guadagnare al campo dei discorsi razionali anche quelli retorici (che delle componenti patetiche si fanno espressamente carico) ma, al contempo, di proporre un’antropologia che oggidì, tramontata la stagione del cartesianesimo, possiamo pienamente apprezzare, in ragione dei progressi guadagnati dalla conoscenza scientifica che testimoniano, da un lato, proprio il ruolo non parassitario delle emozioni e, insieme a questo, la plausibilità della comprensione dell’uomo come animale linguistico[50].
Tali aspetti appaiono, in effetti, inscindibilmente legati fra loro al punto che l’esegesi heideggeriana della Retorica aristotelica prende le mosse proprio dal versante antropologico, giacché si constata come «il modo eccellente di essere nell’essere l’uno con l’altro consiste nel parlare l’uno con l’altro»[51]. La retorica ha cioè, nel suo fondamento, l’uomo come politikòn zôon di cui ci dice Aristotele nella sua Politica[52]: animale allo stesso tempo politico e linguistico, «purché si attribuisca alla congiunzione e non il senso di una connessione estrinseca ma quello di un nesso inscindibile e costitutivo»[53]. Questo essere linguistico, che si manifesta nel “parlare” (logos), è altro rispetto alla mera capacità di emettere suoni, di avere voce, perché qui si tratta, piuttosto, «del parlare di qualcosa in modo tale da mostrare “ciò di cui” si parla, un parlare grazie al quale ciò di cui si parla si mostra. […] Ogni parlare è, soprattutto per i greci, un parlare con qualcuno, o con altri, parlare con se stessi o a se stessi»[54]. Ecco perché, per Aristotele letto da Heidegger, il logos risulta essere «la determinazione fondamentale dell’essere dell’uomo in quanto tale. […]. “Un vivente che [in quanto vivente] ha il linguaggio”. Questa definizione non deve far pensare alla biologia o alla psicologia […] e così via: si tratta infatti di una determinazione che precede siffatte definizioni. […] “[V]ita” significa un modo dell’essere, e precisamente l’essere in un mondo. […] L’“essere nel mondo” dell’uomo è determinato, nel suo fondamento, dal palare. Il modo dell’essere fondamentale dell’uomo nel suo mondo è il parlare con il mondo, sul mondo, del mondo»[55]. E l’uomo ne parla non solo per comunicare, agli altri e a se stesso, informazioni sul mondo (questo lo fanno tutti gli esseri viventi, i quali mostrano costantemente la capacità naturale ed innata di potersi anche organizzare in forme molte complesse di aggregazione)[56]: l’uomo, oltre a questo, possiede una capacità linguistica ulteriore, quella di poter discutere sul mondo e del mondo, chiedendo, a se stesso e agli altri, sul valore del mondo stesso e sul valore dell’agire nel mondo, su ciò che occorre o non occorre fare affinché questo valore sia preservato, promosso o difeso. L’uomo discute insomma su ciò che è utile o dannoso, giusto o ingiusto, bello o brutto: ed è questo che caratterizza, rispettivamente, i tre generi deliberativo, giudiziario ed epidittico della retorica che, appunto, non è una tecnica, ma esprime questo fondamentale modo di essere. Ma, purtroppo, «la generale tendenza a svalutare la persuasione, e con essa la retorica, ha per lo più impedito di dare il giusto peso a questa circostanza»[57].
Assumerla nel suo portato onto-antropologico non vuol peraltro dire guardare alla retorica con fare disincantato. Tutt’altro: in effetti, la categorizzazione aristotelica fa chiaramente risaltare il fatto che l’essere determinato nel logos implica, per l’uomo, da un lato, che egli sia l’animale che «è non solo quello che parla e ragiona, ma anche quello che si lascia persuadere»[58]; e, dall’altro lato, che egli possiede la «capacità, sempre esposta al fallimento, di parlare per persuadere se stesso innanzitutto, e gli altri»[59]. La possibilità dell’errore ristà, infatti, non solo nelle limitate conoscenze che possiamo avere o in un qualche bias cognitivo: qui, nella retorica, ci confrontiamo con la necessità della deliberazione in vista dell’azione. E si dà il fatto che abbia senso discutere e deliberare solo su cose che dipendono da noi giacché possono stare in molti modi e, soprattutto, in modo diverso da come io o noi si pensa che stiano[60]: su ciò che non dipende da noi, infatti, sensatamente si discute per comprendere, ammirare, imparare, insegnare etc. ma non per decidere il da farsi nel merito[61]. E su tali argomenti noi, naturalmente, persuadiamo ma anche ci lasciamo persuadere: ma tale naturale «disponibilità alla persuasione non è cieca obbedienza»[62], quanto piuttosto piena assunzione di responsabilità sia in chi parla persuadendo sia in chi ascolta lasciandosi persuadere.
In effetti, la deliberazione che occorre assumere al termine di una discussione si fonda su una «“argomentazione discorsiva” che fornisca ragioni capaci di farsi ascoltare […], [su] un discorso che non sollevi l’interlocutore dalla responsabilità della scelta e lasci sempre aperta anche la strada della disobbedienza»[63]. Non possono essere qui approfonditi, ma allo stesso tempo non possono sfuggire, i motivi di profonda significanza di tale impostazione per il nostro vivere in società: la riscoperta della retorica permette infatti anche di giustificare, nel suo fondamento, la possibilità del dissenso che però, e questo è determinante, si unisce al peso della responsabilità della scelta. Una visione, quindi, tutt’altro che disincantata della retorica e anche assai preferibile a quella, semplicistica, di una divisione fra retorica ‘buona’ e ‘cattiva’, che si accompagnerebbe, in modo inevitabile, anche ad una differenza di valore soggettivo fra chi conosce la verità (e quindi pone in essere la prima: i ‘buoni’) e chi la ignora o nasconde (e quindi pone in essere la seconda: i ‘cattivi’).
Ecco perché (e passiamo in tal modo dal lato onto-antropologico a quello cognitivo) la retorica, insieme a essere un (anzi: il) modo fondamentale di essere dell’uomo, è un sapere. È un vero e proprio tipo di conoscenza che si occupa di quanto, potendo darsi in modo diverso, è oggetto di discussione e deliberazione. Persuadendo ed essendo persuaso, cioè «parlando con altri e con me stesso, faccio sì che ciò a cui mi rivolgo diventi per me qualcosa di dato, di modo tale che, parlando, esperisco l’aspetto della cosa»[64]. “Parlare” vuol quindi sempre dire: parlare di qualcosa; “persuadere” vuol dunque sempre dire: persuadere di qualcosa. E il logos, il «“parlare”, mostrerà l’ente in se stesso solo quando tale parlare avrà il carattere di indicare l’ente nel suo essere-limitato, ovvero di limitare l’ente nel suo essere»[65].
Ora, questo può sembrare quasi triviale o tautologico: in effetti, sarebbe difficile poter sostenere che si diano discorsi che non parlino di alcunché. Noi parliamo di molte ‘cose’ diverse[66], ma parliamo sempre di qualcosa, in ogni contesto, anche al di fuori di quelli retorici e quindi al di là del fine con cui lo facciamo. D’altra parte, perché un discorso possa pretendere di essere tale, cioè di poter comunicare qualcosa agli altri o anche a me stesso, per poi eventualmente discuterne, bisogna che ci si comprenda[67]: cioè che sia chiaro, innanzitutto e ancora prima di darne una valutazione, ciò di cui si sta parlando. Ecco che, allora, si può affermare come ci sia “discorso” solo quando il loquente «designi qualcosa [in modo valido] e per sé e per gli altri: il che è necessario qualora si dica alcunché. In caso contrario, infatti, non sarebbe possibile [...] un discorso, né [rivolto] a se stesso né ad altri»[68].
Orbene, proprio a tale essenziale caratteristica del discorso, del logos, si riconnette quella fondamentale attività del “designare” che lo stesso testo della Metafisica, correttamente inteso e tradotto[69], pone alla base dell’innegabilità del principio di non contraddizione nel suo valore ontologico. Infatti, «l’atto di designare implica in ogni caso che il relativo oggetto sia qualcosa di determinato, vale a dire di definito rispetto a tutto ciò che è distinto da esso»[70]: chiunque parli, ragioni o pensi, lo fa riferendosi a qualcosa di determinato, altrimenti, propriamente, non parlerebbe di, ragionerebbe su, o penserebbe ad alcunché[71], trovandosi nella situazione di designare un ente e potenzialmente il suo contrario, e così: tutto e niente. Che poi non solo si parli di “qualcosa” ma che, nell’orazione, si parli di “quella cosa” e non di altro, cioè che il riferimento espresso sia il medesimo per l’oratore e l’uditorio, è cosa che si può accertare proprio nel corso del proprio discorso.
D’altra parte, e per altro verso, il principio di non contraddizione è, come noto, il principio fondamentale di ogni conoscenza: perché è innegabile[72] e perché esplica la nota essenziale di tutti i discorsi che formano ogni tipo di conoscenza, anche quella retorica. La quale, come ogni tipo di conoscenza, si esprime in discorsi che, per natura loro propria, si riferiscono al mondo: ed è con riferimento a questo che si misura la loro verità o falsità, giacché se affermo qualcosa che è contraddetto dalla realtà il mio discorso è falso[73]. Questa evidenza è ciò che ha portato allo sviluppo di quella teoria della verità nota come “realismo aletico”[74] per cui, assai ragionevolmente, si sostiene che «se una proposizione p è vera, allora le cose stanno così come dice p, e se le cose stanno in un certo modo, allora la proposizione che descrive questo modo è vera»[75]. O, in termini ancora più immediati, «semplicemente: se è vera, allora c’è qualcosa che la rende vera. L’esserci di qualcosa al di fuori dell’enunciato è il postulato inaggirabile dell’uso della nozione di verità: se uso V [= verità] è perché presumo che vi sia una realtà, qualcosa al di fuori delle mie parole di cui le mie parole possono dare conto (o non dare conto)»[76].
Ecco perché, dapprincipio, ho affermato che tale concezione della retorica può godere dell’appellativo di “realista”: perché pone al centro del problema gnoseologico che essa implica il riferimento alla realtà, su cui si gioca anche la propria possibilità aletica. Ciò risalta in modo ancor più chiaro una volta che (anticipavo anche questo) si guardi nuovamente al ruolo delle emozioni e poi si ponga a confronto la retorica con la sofistica.
Sul primo punto, basti qui ricordare come il modo probabilmente più diffuso di guardare alle emozioni è ritenere che esse abbiano a che fare con la sfera psicologico-soggettiva, cioè con come, si potrebbe dire, il mondo risuona in noi: nei termini in cui ciò che vediamo, udiamo, viviamo produce in noi alcune reazioni. Questa lettura, che ci vede come ‘ricettori’ di certi messaggi o stimoli, viene messa in discussione dalla retorica e ampliata[77]. Da tale punto di vista, infatti, si insiste doverosamente, sul ruolo cognitivo delle componenti alogiche della persuasione, di talché il pathos, che riguarda lo stato d’animo dell’ascoltatore, necessario affinché si realizzi la persuasione, è riconosciuto come costitutivo del logos[78]. Allo stesso tempo, si ricorda che «il modo specifico in cui si dà la disposizione d’animo nella quale ci troviamo determina anche il modo in cui ci atteggiamo nei confronti delle cose, come le vediamo, fino a che punto e da quali prospettive. Il “passare da una determinata disposizione d’animo a un’altra” riguarda primariamente il modo in cui prendiamo posizione nei confronti del mondo, cioè “siamo nel mondo”»[79].
Non è difficile capire questo: si pensi a quando, magari in televisione o sullo schermo del nostro smartphone, vediamo l’immagine di un bambino o di una donna con il volto segnato dalle percosse o dalle ustioni provocate dall’acido a seguito di azioni barbare e criminali. Ecco, quell’immagine provoca in tutti noi profonde emozioni negative, quali orrore, ribrezzo, riprovazione, disgusto, tristezza e angoscia. È il mondo che risuona in noi. Ma questo ci dice anche il modo in cui ci poniamo nei confronti del mondo e come intendiamo prendere posizione rispetto ad esso: quell’immagine, di per se stessa[80], è ciò che ci persuade ad agire affinché quelle cose orrende non avvengano più e a punire nel modo più severo e intransigente possibile chi le pone in essere. Il riferimento al mondo è ineluttabile.
Ciò si conferma venendo anche al secondo (e per me, ultimo) punto prima enunciato, ovvero il rapporto fra retorica e sofistica. Ebbene, la differenza fondamentale fra le due, a questo punto, appare spiegata dal fatto che «i sofisti, grazie alla parola, ritenevano di poter modellare a loro piacimento il corpo della polis, qualunque fosse lo stato di partenza, nei suoi singoli componenti e nel suo complesso. […]. Nella polis, colui che sa maneggiare la parola è in grado di dominare una forza, quella delle passioni, e grazie a questo dominio può intervenire a modificare le azioni dei suoi ascoltatori […]. Gorgia afferma infatti che “un discorso che abbia persuaso una mente, costringe la mente che ha persuaso a credere nei detti e a consentire nei fatti”. Saper governare e persuadere con i detti coincide con il saper controllare i fatti»[81].
Il sofista sostituisce così alla realtà i detti: le opinioni, per costui, restano l’unico campo di indagine e l’unico appiglio; ma l’opinione, una volta privata del confronto con la realtà, resta mero flatus vocis, perdendo la possibilità dell’essere accertata come vera o falsa. Ed è per questo che il sofista può persuadere di ogni cosa: per i sofisti, una cosa finisce con l’essere vera o falsa sulla base solo di se stessa, dei “detti”; ma dal momento che i detti sono molti (per definizione sui temi della retorica si danno punti di vista diversi), ecco che allora la verità (che si assume essere una) non esiste. Come si vede è tutto molto coerente e doverosamente accettabile: a patto che si accetti la premessa di partenza, e cioè che si parli (che si possa parlare) senza riferimento alla realtà. Ma dal momento che ciò è impossibile[82], la sofistica deve essere abbandonata, al pari di ciò che accade per la sua concezione antropologica, alla luce della quale risulta che «l’uomo dei sofisti è un burattino degli dei, del caso, della necessità, dei più forti, delle passioni, della natura irrazionale. […] Egli è interamente passivo nei confronti della realtà che lo circonda e il suo comportamento risponde allo schema stimolo-risposta. Ciò implica l’indistinzione tematica tra un orizzonte propriamente umano e il divenire naturale: uomo e natura sono perfettamente omogenei, l’uomo è parte della natura, qualitativamente indistinto da essa»[83].
Ecco che, allora, la scelta (se di scelta si volesse proprio parlare, per me evidentemente non lo è) fra retorica e sofistica chiama in causa anche il modello antropologico soggiacente che, evidentemente, e senza che sia necessario spendere molte parole su questo, tenderà anche a giustificare una certa idea di società e di diritto ad esso confacente. Perché il problema della retorica è, da ultimo, quello di scegliere che tipo di uomo vogliamo avere, se razionale ed emotivo e capace di scelte ovvero un ‘burattino’ irrazionale e preda delle passioni; e, insieme a questo, che tipo di mondo in comune[84] vogliamo avere, il suo ‘come’ e i suoi ‘perché’, senza che nessuna scelta possa a-prioristicamente essere assunta come l’unica possibile e quindi chiamando ciascuno alle proprie responsabilità, verso se stessi e gli altri.
Abstract: In this paper, I propose a positive conception of rhetoric against the idea that it is only the art of persuading without reason and without truth. This will give me the opportunity to briefly investigate the evolution of the relationship between logic and rhetoric and to show, especially on the basis of the rehabilitation of Aristotle's Rhetoric, how it is possible to overcome prejudices on persuasion, in favor of a humanist and realist conception of rhetoric.
Keywords: rhetoric, Aristotle, anthropology, emotions&reason, alethic realism.
* Facoltà di Giurisprudenza di Trento (federico.puppo@unitn.it).
** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] Tale considerazione delle componenti non strettamente linguistiche (ossia diverse rispetto agli enunciati, scritti o orali che siano) guarda all’evoluzione delle teorie dell’argomentazione inaugurata dalle c.d. visual e multimodal argumentation (su cui, così come il rapporto fra teorie dell’argomentazione e retorica, si v. infra), sposando quindi un senso di “argomentazione” più ampio (che diverrà retorico) rispetto a quello, ad es., fatto proprio da chi sostiene che «l’argomentazione è un’attività linguistica. Non si svolge a gesti, salti o capriole, benché il gesto possa talvolta accompagnarla. Neppure si svolge esibendo delle immagini o degli oggetti senza profferire parola […]. Si svolge attraverso l’uso di un linguaggio […]. Per iscritto o oralmente, in ogni caso attraverso una lingua condivisa» (così, sposando una linea d’esegesi tradizionale, D. Canale - G Tuzet, La giustificazione della decisione giudiziale, Torino, 2019, p. 3. Corsivo degli A.).
[2] Sintetizzati in passato, ad es., già da J.R. McNally, Toward a Definition of Rhetoric, in Philosophy & Rhetoric, 3.2 (1970), p. 71 ss.
[3] Cfr. C. Tindale, The Anthropology of Argument. Cultural Foundation of Rhetoric and Reason, New York, 2021.
[4] Il riferimento è a M. Heidegger, Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, a cura di M. Michalski, ed. it. a cura di G. Giurasatti, Torino, 2017. In questo volume, che raccoglie le lezioni tenute dal Filosofo nel semestre estivo del 1924 presso l’Università di Marburgo, si affronta in maniera compiuta l’esegesi della Retorica aristotelica, già enunciando concetti che saranno poi alla base di Essere e tempo. In particolare, come evidenzia Giovanni Gurisatti nella sua Avvertenza del Curatore dell’edizione italiana, fu in quell’occasione che si assistette ad una «svolta che Heidegger, a un certo punto del suo corso, imprime alle sue lezioni […]: a suo parere, infatti, il senso ontologico della Retorica aristotelica – non riducibile a un manuale scolastico di tecnica oratoria – è quello di porci di fronte all’interpretazione dell’esserci nel mondo concreto del suo essere nella quotidianità, la quale di presenta, anzitutto, come Miteinandersein, “essere l’un con l’altro”, “essere assieme” degli uomini […]. [N]on potrà sorprendere la centralità ermeneutica della “retorica”, non come competenza tecnica e disciplina formale accessoria – né tantomeno come sofistica –, ma come cerniera etico-ontologica tra essere l’un con l’altro (politica) e parlare l’uno con l’altro (discorso)» (ivi, pp. 19-20. Corsivi dell’A.).
[5] Il riferimento è, in particolare, a F. Piazza, La Retorica di Aristotele. Introduzione alla lettura, Roma, 2015. A conferma delle tesi di questi citati volumi si può v., oltre alla bibliografia discussa dalla Piazza, anche l’interessante saggio di E. Danblon, The Reason of Rhetoric, in Philosophy & Rhetoric, 46.4 (2013), pp. 493 ss.
[6] «Noi siamo esseri retorici, che significa che usiamo discorsi e altre strategie per modificare il mondo sociale e che noi siamo in uno stato di “ascolto” [“in audience”], aperti a tali modificazioni» (C. Tindale, The Anthropolgy of Argument, cit., p. 67. Trad. mia).
[7] F. Piazza, La Retorica di Aristotele, cit., p. 15.
[8] A. Rocci, Ragionevolezza dell’impegno persuasivo, inArgomentare per un rapporto ragionevole con la realtà, a cura di P. Nanni - E. Rigotti - C. Wolfsgruber,Milano, 2017, pp. 88 ss.: 95.
[9] «[I]l modo corrente di concepire la retorica costituisce un ostacolo alla comprensione della Retorica aristotelica. Nell’edizione delle opere curata dall’Accademia di Berlino la Retorica è stata messa alla fine. Non si sapeva bene che farsene, dunque in coda! È la prova della più totale insipienza. Da lungo tempo la tradizione non è stata in grado di comprendere la retorica, nella misura in cui essa si è ridotta a una disciplina scolastica fin dall’ellenismo e dall’alto Medioevo» (M. Heidegger, Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, cit., p. 141).
[10] Vedremo in conclusione, brevemente, sulla differenza tra retorica e sofistica. Segnalo, per il momento, l’interessante studio di chi, a mostrare la vicinanza tra le due, propone una definizione sofistica di retorica: J. Poulakos, Toward a Sophistic Definition of Rhetoric, in Philosophy & Rhetoric, 16.1 (1983), pp. 35 ss.
[11] Cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, cit., ad es. pp. 168-171. Sulla natura dell’opinione in rapporto con la verità, e quindi sulla capacità della retorica di cogliere quest’ultima nella sua dimensione aletica eikótica (cioè propria del vero retorico, dell’eikós, termine da non tradursi né con “verisimile” né con “probabile: cfr. F. Piazza, La Retorica di Aristotele, cit., p. 168. nt. 5) occorre infatti ricordare «che la capacità di mirare alla verità […] non va intesa dunque, come avrebbe voluto Platone nel Fedro (273d-274a), nel senso che soltanto chi sa la verità, cioè il dialettico, può aspirare a diventare anche un buon retore. […]. È questa, forse, la principale differenza [di Aristotele] rispetto a Platone, per il quale, invece, le realtà prive del requisito di necessità hanno valore solo in quanto fondate su quelle necessarie e sono conoscibili, se lo sono, solo in relazione a queste. La ragione ultima della condanna platonica della retorica consiste, in fondo, in questa sostanziale sfiducia nella possibilità di un sapere che sia fondato su verità non necessarie. Non è questo, invece, l’atteggiamento di Aristotele. Ai suoi occhi […] esiste un mondo – che è poi il mondo specificamente umano – fatto di quelle che potremmo chiamare verità per lo più, verità fallibili e tutte da provare, ma non per questo meno importanti. È questo il mondo con cui l’arte retorica ha a che fare» (ivi, pp. 36-37, corsivi dell’A.). Ed è proprio con questa formidabile consapevolezza che Aristotele supera l’Ateniese: fonda su solide basi logiche la retorica (come avrebbe voluto fare Platone) e riesce nel contempo a preservare la significanza profonda della concreta esperienza umana (cosa che Platone è stato incapace di fare, complice anche la sua mai tramontata diffidenza verso le passioni: cfr. ex multis C. Tindale, The Anthropolgy of Argument, cit., 177), così mantenendo anche il valore positivo degli insegnamenti di Isocrate, ma fondandoli oltre i limiti di un relativismo altrimenti insuperabile (cfr. M. D’Avenia, L’aporia del bene apparente. Le dimensioni cognitive delle virtù morali in Aristotele, Milano, 1998).
[12] R. Barthes, La retorica antica. Alle origini del linguaggio letterario e delle tecniche di comunicazione, Milano, 2011, p. 26.
[13] Ibid. (corsivo dell’A.).
[14] Per farlo mi avvarrò, da qui in avanti e per i successivi §§. 2 e 3, di quanto già esposto in F. Puppo, Retorica. Il diritto al servizio della verità, in Dimensioni del diritto, a cura di A. Andronico - T. Greco - F. Macioce, Torino, 2019, pp. 293 ss. i cui contenuti sono qui parzialmente replicati, ove necessario rivisti e modificati, adattandoli alla natura e allo scopo di questo scritto.
[15] Anche di queste non mi occuperò qui nel dettaglio, potendo rimandare, per una esposizione critica, a S. Tomasi, L’argomentazione giuridica dopo Perelman. Teorie, tecniche e casi pratici, Roma, 2020. Sulla necessità di sviluppare una visione unitaria retorica dell’argomentazione si v., fra altri, E. Danblon, The Reason of Rhetoric, cit.; C. Kock, Defining Rhetorical Argumentation, in Philosophy & Rhetoric, 46.4 (2013), pp. 437 ss.; C. Tindale, Rhetorical Argumentation: Principles of Theory and Practice, Sage, 2004.
[16] La prima distinzione si deve a S. Jacobs, Nonfallacious Rhetorical Strategies: Lyndon Johnson’s Daisy Ad, in Argumentation, 20.4 (2006), p. 421 ss. Altrove (cfr. F. Puppo, Retorica, cit.) ho usato tale categorizzazione, appoggiandomi all’interpretazione ed uso proposti da A. Rocci, Ragionevolezza dell’impegno persuasivo, cit. Qui preferisco fare riferimento, a mostrare la numerosità e legittimità di approcci che sempre guardano senza pregiudizi alla retorica, alla seconda distinzione che si deve a E. Danblon, The Reason of Rhetoric, cit.
[17] Ivi, p. 493 (trad. mia).
[18] Ibid. (trad. mia). Si noti, e si apprezzi, l’uso delle virgolette per quell’“accettare”.
[19] Ivi, p. 494 (trad. mia).
[20] Ibid. (trad. mia). Tale visione pratico-antropologica è ulteriormente sviluppata in E. Danblon, L’uomo retorico. Cultura, ragione, azione, a c. di Salvatore di Piazza, Torino, 2015.
[21] Per ciò che si è affermato prima alla nt. 11, tale connessione non deve essere una subordinazione, come avvenuto, invece, nella dottrina platonica. Per un inquadramento dei rapporti fra retorica e dialettica si v. i lavori di M. Heidegger e F. Piazza già citati, dal quale ultimo emerge un dato che noi giuristi dovremmo prendere in seria considerazione. Afferma la Filosofa palermitana che «il discorso dialettico (si pensi, come caso paradigmatico, al dialogo platonico) mira a stabilire una tesi generale e lo fa, di solito, attraverso un alternarsi di domande e risposte brevi, con un singolo interlocutore. Il suo scopo è di natura essenzialmente teoretica e il procedere è tipicamente dialogico. Il retore, invece, deve far prendere una decisione su una questione particolare a un pubblico generalmente numeroso (casi paradigmatici sono l’assemblea e il tribunale) e deve farlo grazie alla forza del suo discorso. Pertanto, il suo scopo ha una natura essenzialmente pratica e il suo procedere è tipicamente monologico. […] Nella situazione retorica tipica […] il pubblico non può realmente interagire intervenendo durante l’orazione e tuttavia ha il potere, non certo indifferente, di giudicare il discorso e, dunque, anche il suo autore» (F. Piazza, La Retorica di Aristotele, cit., p. 112. Corsivi dell’A.). Altrove (cfr. F. Puppo, Retorica, cit., p. 300, nt. 10) ho avuto modo di proporre un chiarimento circa la natura di questa ‘monologicità’ retorica in chiave dialogica ma non dialettica, sostenendo che il contesto giuridico non può essere letto con le lenti di quest’ultima. Qui aggiungerei, ad ulteriore precisazione, che più esattamente la dimensione del processo è polilogica (giacché non interessa solo le parti in causa, ma riguarda la società nel suo complesso – la sentenza è pronunciata «in nome del Popolo italiano» –, altri giudici, altre parte, la dottrina giuridica e così via) e che la retorica è ciò che veramente ci permette di giustificare un certo modo di essere del diritto e del processo: in effetti, un ‘giudice-dialettico’ (almeno sulla base della definizione di “dialettica” appena vista) dovrebbe essere un giudice assai attivo e interventista, che dialoga con le parti, che fa loro domande serrate alla ricerca della verità. Un giudice, è chiaro, tipico del modello inquisitorio. Invece, il ‘giudice-retorico’ è, giusta la definizione del logos di cui tratterò nel testo, un soggetto che si lascia persuadere (dalle parti) e persuade (le parti stesse, gli altri giudici, i consociati: si pensi al modello archetipico di Atena ne Le Eumenidi eschilee): che non vuol dire che è passivo (come vedremo in seguito, tutt’altro! Giudica, infatti, esercitando la propria ragione sulla base delle prove cioè, come si vedrà, in relazione alla realtà) ma che non è nella medesima posizione delle parti (è infatti terzo e imparziale), rispondente in quanto tale al modello tipico del processo accusatorio. Da questo punto di vista, non è forse casuale che il definitivo tramonto della retorica sia coinciso con quella modernità che ha visto il trionfo del modello «asimmetrico» rispetto a quello «isonomico» (per usare le celebri categorie di A. Giuliani, Il concetto di prova. Contributo alla logica giuridica, Milano, 1971).
[22] E. Raimondi, La retorica d’oggi, Bologna, 2002, p. 23. Prima di quel momento, va ricordato come la Retorica di Aristotele sia infatti rimasta sconosciuta al mondo medioevale, che l’apprese in massima parte attraverso l’opera di Cicerone. In quel tempo «circola soltanto l’Aristotele “letterario”, quello di una certa versione della Poetica, mentre la Retorica viene finalmente recuperata e tradotta solo in piena età umanistica, fra Quattrocento e Cinquecento, quando la crisi del pensiero medioevale, dopo l’Occamismo e lo Scotismo, dà luogo a una nuova idea di cultura che riscopre la retorica in contrapposizione al rigore e alla rigidità della filosofia» (ibid.). In effetti, già allora molto era andato perduto, come ad esempio un’altra fondamentale opera di Aristotele, i Topici: più in generale, la complessità della sua concezione logica e metafisica filtra solo a tratti, e non sempre fedelmente, a seguito della riscoperta di una parte dell’Organon (cioè la collazione posteriore delle opere che Aristotele dedica alla logica) e della Metafisica.
[23] E. Agazzi, L’oggettività scientifica e i suoi contesti, Milano, 2018, p. 52 (corsivo dell’A.).
[24] Ivi, p. 56 (corsivo dell’A.).
[25] Per la ricostruzione della quale mi avvalgo qui delle ricostruzioni offerte, fra gli altri, da R. Blanché, La logica e la sua storia da Aristotele a Russell, Roma, 1973; G. Boniolo - P. Vidali, Filosofia della scienza, Milano, 1999; F. D’Agostini, I mondi comunque possibili. Logica per la filosofia e il ragionamento comune, Torino, 2012; W.C. Kneale - M. Kneale, Storia della logica, Milano, 1972.
[26] F. D’Agostini, I mondi comunque possibili, cit., p. 334 (corsivi dell’A.).
[27] Ivi, p. 343.
[28] Ivi, p. 345
[29] Ivi, p. 344
[30] Per maggiori informazioni, soprattutto di carattere bibliografico, e una trattazione in chiave filosofico-giuridica, mi sia consentito rimandare a F. Puppo, Dalla vaghezza del linguaggio alla retorica forense. Saggio di logica giuridica, Padova, 2012.
[31] Approfittiamo di questo accenno per ricordare che l’uso di formule non corrisponde, di per sé solo, ad una logica formalizzata, come sarà invece poi quella sviluppata da Frege in poi. L’uso di formule introdotto da Aristotele corrisponde all’uso di lettere (normalmente maiuscole) per identificare in modo generico e generale alcune parti del discorso e così rendere più chiara la struttura del ragionamento. Si tratta di qualcosa che abbiamo fatto anche noi, quando abbiamo dapprincipio ricordato che la forma generale del ragionamento è “Se P… allora C”, dove “P” e “C” rappresentano premesse e conclusione, che poi possono corrispondere ai più svariati enunciati (come si è visto offrendo nel primo paragrafo, con quattro diversi esempi di ragionamento). Tutt’altro è, invece, la logica formalizzata, che usa simboli, sistemi di calcoli e formule per esprimere la validità del ragionamento e, nella sua formulazione classica, solo del ragionamento deduttivo. Per capire che tipo di distanza separi il linguaggio naturale dalla logica formale di tipo aristotelico a quella formalizzata di tipo matematico (che però si chiamerà “logica formale” o “logica classica”), si consideri a mo’ di esempio il celebre ragionamento: “Se tutti gli uomini sono mortali e Socrate è un uomo, allora Socrate è mortale”. Questo sillogismo, tradotto in termini formali in senso aristotelico, potrebbe diventare “Se tutti gli U sono M, e S è U, allora S è M” (dove “U”, “M” e “S” identificano “uomini”, “mortale” e “Socrate”). Abbiamo così alcunché di diverso dal linguaggio naturale, ma ancora riconoscibile: ebbene, nel linguaggio predicativo della logica matematica la situazione cambierà drasticamente, perché quel ragionamento assumerà la forma: "x(U(x) ® M(x)), U(s) ⊢ M(s). E qui la distanza dal nostro primo ragionamento espresso nel nostro linguaggio naturale è molto alta, al punto da risultare una formula financo illeggibile per chiunque non sappia interpretarla (per imparare a farlo si può vedere, fra altri, F. Berto - L. Vero Tarca, Introduzione alla logica formale, Venezia, 2003).
[32] Si v., su tutto ciò, le considerazioni espresse in F. Puppo, Dalla vaghezza del linguaggio alla retorica forense, cit.
[33] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, 1764, cap. 4.
[34] Ibid.
[35] D. Canale, Il ragionamento giuridico, in Filosofia del diritto. Introduzione critica al pensiero giuridico e al diritto positivo, a cura di G. Pino - A. Schiavello - V. Villa, Torino, 2013, pp. 316 ss.: 323.
[36] Ibid.
[37] Si v. V. Villa, Teorie della scienza giuridica e teorie delle scienze naturali: modelli e analogie, Milano, 1984.
[38] P. Cantù - I. Testa, Teorie dell’argomentazione. Un’introduzione alle logiche del dialogo, Milano, 2006, pp. 154-155.
[39] G. Damele, Retorica e persuasione nelle teorie dell’argomentazione giuridica, Genova, 2008, p. 13.
[40] Cfr. C. Tindale, Informal logic and the Nature of Argument, in Informal Logic: A ‘Canadian’ Approach to Argument,ed. F. Puppo,Windsor, 2019, pp. 375 ss.
[41] Una panoramica di tale movimento è offerta dai contributi presenti in F. Puppo (ed.), Informal Logic: A ‘Canadian’ Approach to Argument, cit.
[42] Si muove in questo senso, sempre all’interno degli studi argomentativisti ma in relazione ad altra tradizione di pensiero, C. Plantin, Les bonnes raisons des emotions: Principes et méthode pour l’étude du discours émotionné, Berne, 2011.
[43] C. Tindale, Informal logic and the Nature of Argument, cit., p. 388 (trad. mia).
[44] Ibid. (trad. mia) laddove si arriva perfino a parlare di una «concezione anemica di argomento» (ibid., trad. mia).
[45] Ivi, p. 394 (trad. mia). Questa interpretazione dell’argomento (per cui si può anche dire che «gli argomenti non sono solamente cose prodotte nel mondo; sono prodotte dalle persone, e queste persone sono importanti per comprenderli», ivi, p. 386, trad. mia) si sposa con un ulteriore fondamentale aspetto della retorica, che qui posso solo menzionare, ovvero la primazia assegnata al destinatario della persuasione, su cui si v. utilm. F. Piazza, La Retorica di Aristotele, cit., passim, e, con maggiore specificità rispetto al collegato impegno del “prendersi cura”, M. Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia aristotelica, cit., passim.
[46] C. Tindale, Informal logic and the Nature of Argument, cit., p. 394 (trad. mia).
[47] Un quadro di questi sviluppi è ben presentato (in modo leggibile anche da parte di chi non abbia una formazione logica in senso stretto) in F. D’Agostini, I mondi comunque possibili, cit. Va però detto che il progresso della logica è così rapido che ulteriori e ivi non menzionati ‘paesaggi’ sono stati assai di recente esplorati, come avvenuto, a titolo di mero esempio e solo per menzionare uno dei testi più recenti, per la logica epistemica indagata da F. Berto, Topics of Thought. The Logic of Knowledge, Belief, Imagination, Oxford, 2022.
[48] Il riferimento è ovviamente a A. Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Torino, 1995.
[49]Mi sia permesso il rimando, per una breve ulteriore disamina, a F. Puppo, Oltre la diarchia: alcune riflessioni sul rapporto fra ragione ed emozioni. E sullo statuto di queste, in Studies on Argumentation & Legal Philosophy / 4. Ragioni ed emozioni nella decisione giudiziale, a cura di M. Manzin - F. Puppo - S. Tomasi, Trento, 2021, pp. 7 ss., disponibile online all’URL http://hdl.handle.net/11572/296052, consultato il 10 settembre 2022). Per approfondimenti rispetto alla chiave di lettura qui proposta si v., ex multis, i saggi presenti in L. Huppes-Cluysenaer - N.M.M.S. Coelho (eds.), Aristotle on Emotions in Law and Politics, Amsterdam, 2018.
[50] Si tratta, in particolare, di acquisizioni che si devono, rispettivamente, agli sviluppi più recenti delle neuroscienze (cfr. ex multis E.R. Kandel, L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla Grande Vienna ai nostri giorni, Milano, 2016) e della neurobiologia in sodalizio con la linguistica (A. Moro, Le lingue impossibili, Milano, 2016).
[51] M. Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia aristotelica, cit., p. 102.
[52] Cfr. Arist., Pol. 1253 a 10.
[53] M. Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia aristotelica, cit., p. 10 (corsivi dell’A.).
[54] Ivi, p. 53 (corsivi dell’A.). Si noti come proprio in tale peculiare espressione del logos Enrico Berti ha ricondotto una delle caratteristiche fondanti della filosofia e del dialogo del quale ultimo ha mostrato la trascendentalità, in ragione di poter parlare anche a se stessi nelle forme di quello che egli chiama “dialogo fittizio” (cfr. E. Berti, Logo e dialogo, disponibile on-line all’URL http://www.ilgiardinodeipensieri.eu/storiafil/berti95.htm, consultato il giorno 5 settembre 2022).
[55] M. Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia aristotelica, cit,. p. 53 (corsivi dell’A.).
[56] Cfr. A. Moro, Le lingue impossibili, cit., il quale mostra, in un percorso che corre parallelo con e si interseca a tali considerazioni, che l’uomo è veramente un “animale linguistico” giacché il linguaggio ha un fondamento biologico e non, come pensa(va) la tradizione analitica, convenzionale. Le prove fornite dalla neuro-linguistica sembrano, su questo, assai convincenti e inoppugnabili.
[57] F. Piazza, La Retorica di Aristotele, cit., p. 17.
[58] Ivi, p. 20.
[59] Ivi, p. 9.
[60] Arist., Et. Nic., 1112. Cfr. anche i commenti di F. Piazza, La Retorica di Aristotele, cit., passim.
[61] L’uomo retorico «si lascia dire qualcosa nella misura in cui presta ascolto; e non presta ascolto per imparare qualcosa, ma per avere una direttiva in merito al prendersi cura pratico e concreto» (M. Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia aristotelica, cit,. p. 143).
[62] F. Piazza, La Retorica di Aristotele, cit., p. 22.
[63] Ivi, p. 125.
[64] M. Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia aristotelica, cit,. p. 55.
[65] Ivi, p. 75 (corsivi dell’A.).
[66] Non posso approfondire il punto, ma le virgolette si spiegano in ragione del fatto che possono darsi modi diversi di essere degli enti (quelli che chiamiamo più sbrigativamente “cose”), come spiegano indagini (anche qui, ‘eterodosse’ rispetto al consueto spirito empirista della modernità) ontologiche assai produttive anche per la conoscenza giuridica. Me ne sono occupato in F. Puppo, Realtà, linguaggio e verità nella prospettiva del realismo aletico. Sul ruolo della conoscenza scientifica e della retorica nell’epoca dei no-vax, in corso di pubblicazione su Teorie e critica della regolazione sociale, 2022, con riferimento alle teorie sviluppate da F. Berto, L’esistenza non è logica. Dal quadrato rotondo ai mondi possibili, Roma-Bari, 2010, e E. Agazzi, L’oggettività scientifica e i suoi contesti, cit.
[67] «Coloro che si apprestano a discutere gli uni con gli altri, devono comprendersi reciprocamente: infatti, se questo non si realizza, come sarà possibile una comunanza di discorso fra loro?» (Arist., Met., K 5, 1062a 11-13).
[68] Arist., Met., 4, 4, 1006a.
[69] Come mostra, su tutti, R. Gusmani, Il principio di non contraddizione e la teoria linguistica di Aristotele, in La contradizion che nol consente. Forme del sapere e valore del principio di non contraddizione, a cura di F. Puppo, Milano, 2010, pp. 21 ss.
[70] Ivi, p. 40.
[71] È in effetti l’attività del logos che «rende possibile il fatto che il mondo si mantenga concepibile, determinabile in concetti» (M. Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia aristotelica, cit,. p. 148).
[72] Sono costretto, anche per questi profili, a rimandare a F. Puppo, Realtà, linguaggio e verità nella prospettiva del realismo aletico, cit., in cui si approfondisce il discorso sul principio di non contraddizione e sul realismo aletico, che qui mi limito qui ad enunciare; ivi mi soffermo anche maggiormente sul fatto che sostenere il realismo aletico non implica affatto sostenere il corrispondentismo, con cui non condivide la pretesa di isomorfismo e le difficoltà connesse, ad esempio, al trattamento degli enunciati negativi.
[73] «Dire il falso consiste nel dire di ciò che è che non-è, o di ciò che non-è che è. Dire il vero consiste nel dire di ciò che è che è, e di ciò che non-è che non-è» (Arist., Met, 3, 7, 1011b 26).
[74] Su cui v. principalmente, per limitarsi ai testi in lingua italiana, F. D’Agostini, L’uso scettico della verità, in Verità del precetto e della sanzione penale alla prova del processo, a cura di G. Forti - G. Varraso - M. Caputo, Napoli, 2014, 25 ss.; F. D’Agostini, Realismo? Una questione non controversa, Torino, 2013; F. D’Agostini, Introduzione alla verità, Torino, 2011; F. D’Agostini, Disavventure della verità, Torino, 2002.
[75] F. D’Agostini, Introduzione alla verità, cit., p. 164.
[76] F. D’Agostini, L’uso scettico della verità, cit., p. 32 (corsivi dell’A.).
[77] Conformemente, peraltro, all’altrettanto diffusa idea per cui il linguaggio è un medium fra parlante e loquente: cfr. F. Piazza, La Retorica di Aristotele, cit., passim. Allo stesso tempo, si precisa che qui ci si confronta con una dimensione che «non concerne qualcosa che potremmo designare come lo “psichico”» (M. Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia aristotelica, cit., p. 226). Forse si potrebbe prudentemente aggiungere un “solamente”: ma, al di là di questo, l’idea basilare è che gli aspetti del pathos «non sono quindi “vissuti psichici”, non si collocano “nella coscienza”, ma costituiscono un essere-coinvolto dell’uomo nel suo pieno “essere nel mondo”» (ibid.).
[78] Devo tralasciare la considerazione dell’altro elemento che si connette inscindibilmente a logos e pathos, ossia l’ethos, per una prima trattazione del quale v. utilm. op. ult. cit. insieme a F. Piazza, La Retorica di Aristotele, cit., sulla cui base è discutibile l’interpretazione che vede in ethos, pathos e logos l’espressione di tipi di argomenti utilizzati nell’argomentazione (v. in tal senso la proposta classificatoria di M. Manzin, Argomentazione giuridica e retorica forense: dieci riletture sul ragionamento processuale, Torino, 2014).
[79] M. Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia aristotelica, cit., p. 200.
[80] Ad ulteriore conferma del fatto che è possibile persuadere ed argomentare con immagini (cfr. supra nt. 1).
[81] M. D’Avenia, L’aporia del bene apparente in Aristotele, cit., pp. 70-72.
[82] Non si cada, così, nel trucco implicito nell’idea che nel discorso possiamo riferirci solo ad altri discorsi, che cioè tutto ciò che al massimo si può fare è discutere delle opinioni perché la realtà è inaccessibile, con il che, peraltro, finiremmo per avere opinioni di opinioni. Da un lato si noti, per intanto, che, anche tralasciando il profilo aletico, anche se fosse vero che noi si può solo discutere di opinioni, è chiaro che ogni volta che discutessimo un’opinione discuteremmo quella e non altra certo, di talché ci troveremmo nuovamente a dover designare una cosa e non un’altra, come dispone il principio di non contraddizione (che così si conferma ontologicamente innegabile). Di poi, dall’altro lato, si noti che non solo è possibile, ma financo doveroso, discutere delle opinioni (è ciò che si fa propriamente nella retorica), ma queste opinioni sono opinioni su qualcosa e, sulla base di quello che si opina, su ciò che occorre fare nel mondo. Come si vede, il riferimento alla realtà è ineluttabile: il sofista lo cela, assai abilmente, ma la sua pretesa (modificare le azioni degli ascoltatori) contraddice la filosofia soggiacente, proprio perché le azioni oggetto di opinione hanno a che fare con la realtà. Sul perché il realismo non sia un’opzione, v. F. D’Agostini, Realismo, cit.
[83] M. D’Avenia, L’aporia del bene apparente in Aristotele, cit., p. 72. A evidenziare l’eccezionalità della Retorica, si può ulteriormente ribadire come logos è «“parlare della cosa, di ciò che essa è”. Aristotele si pone [così] agli antipodi di ciò che viveva intorno a lui, che aveva di fronte nel mondo concreto. Non bisogna pensare che ai greci la scienza sia piovuta dal cielo. […] Al tempo di Platone e Aristotele la chiacchiera [cioè il discorso sofistico privo di riferimento alla realtà] aveva talmente impregnato di sé l’esistenza che ci vollero gli sforzi di entrambi per mettere in pratica quanto possibile le potenzialità della scienza. Il fatto decisivo è che essi non hanno acquisito una nuova possibilità di esistenza traendola da qualche altra parte, per esempio dall’India – quindi dall’esterno –, ma dalla vita greca stessa: misero in pratica le possibilità del linguaggio. È questa l’origine della logica» (M. Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia aristotelica, cit., p. 141. Corsivi dell’A.). Da questo punto di vista, il Filosofo tedesco ricorda, nel medesimo corso di lezioni, come tale idea che l’uomo vive nel linguaggio fosse veramente tipica della grecità: un ulteriore motivo a dover ritenere sofistica e retorica come espressione di una medesima identità.
[84] Cfr. op. ult. cit. Sul ruolo del “mondo in comune” v. utilm. anche le opere di F. D’Agostini di cui alla prec. nt. 74.
Puppo Federico
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