Le c.d. dipendenze e le tutele giuridiche nelle varie età dell’uomo
Carlo Rusconi
Assegnista di ricerca in Diritto privato,
Università Cattolica del Sacro Cuore – Sede di Milano
Le c.d. dipendenze e le tutele giuridiche nelle varie età dell’uomo
Sommario: 1. Introduzione. - 2. La vita prenatale. - 3. Minore età. - 4. Età adulta. - 5. Gli atti di ultima volontà.
1. Introduzione*[1]
La dipendenza patologica ferisce la persona e, non meno, la società intera.
Le dipendenze anzitutto riguardano e, purtroppo non di rado, drammaticamente travolgono il soggetto come individuo e in particolare la sua capacità di determinarsi, nella quale l'ordinamento giuridico pone l'insostituibile presupposto per compiere validamente la generalità degli atti, personali e patrimoniali. Questo contributo cercherà di descrivere come gli stati di dipendenza influiscano sulle situazioni giuridiche di cui la persona diviene protagonista e sui rapporti che vengono costituiti nelle varie età dell'esistenza: nella vita prenatale, talvolta esposta alle conseguenze dell'abuso di sostanze nocive; nella prima giovinezza, quando i minori possono prematuramente sviluppare forme di dipendenza o trovarsi in contesti familiari sofferenti per tale dramma; nell'età adulta, durante la quale la dipendenza genera il rischio di un’irrimediabile crisi delle più importanti relazioni, come il matrimonio o la filiazione; infine nel periodo ultimo, nel quale la persona dispone della trasmissione dei propri beni.
Le dipendenze, in pari tempo, sono una sfida che investe anche la società nel suo complesso. Dalla visuale giuridica si può trarre netta l’impressione che il fenomeno sia una causa di impoverimento per la comunità. Gli stati di dipendenza possono, infatti, compromettere o finanche esaurire la capacità di investire le proprie energie per il «progresso materiale e spirituale della società» che la Costituzione, secondo un ideale solidaristico, eleva a fondamento della civitas (art. 1 Cost.) e rende oggetto di preciso dovere (art. 4 Cost.)[2].
Il valore della solidarietà (art. 2 Cost.) e la qualificazione del diritto alla salute del singolo come «fondamentale» (art. 32, co. 1 Cost.) per altro verso impegnano la collettività a predisporre efficaci misure di prevenzione e a garantire le cure che si rendono necessarie al recupero[3]; un esempio recente, pur in un contesto assai ambiguo, viene dalla prima legislazione di contrasto alla ludopatia, a cui si avrà modo di fare cenno.
Non si può, infine, ignorare che la dipendenza conduce talvolta a comportamenti lesivi della convivenza civile rendendo necessaria l’imposizione di misure riparatorie.
Nell'intreccio tra dimensione individuale e sociale e nel quadro dei principi ora richiamati, l’ordinamento giuridico imposta oggi la sua azione verso le dipendenze patologiche.
Invero, la preoccupazione per la persona del dipendente e specialmente per la sua salute è frutto dell'evoluzione più recente della legislazione: solo alcuni decenni dopo l'entrata in vigore della Costituzione, le norme riguardanti la tossicodipendenza – a lungo l'unica forma di assuefazione considerata insieme con l'alcolismo – hanno assunto una prospettiva non più solo di repressione, ma anche assistenziale e preventiva, divenendo così partecipi di quel nuovo spirito normativo che ha reso l'ordinamento più attento alla vita materiale dell'uomo[4] e specialmente alla sua salute.
È questo uno degli aspetti più importanti del moderno ordinamento giuridico: mentre i codici del sec. XIX – ai quali si può idealmente ascrivere anche il vigente codice civile italiano – assumono come inderogabile postulato l'astratta parità dei soggetti di diritto, la Costituzione, avendo aderito ad un'idea sostanziale di eguaglianza (art. 3, co. 2)[5], sollecita invece a garantire una tutela rafforzata per coloro che si vengono a trovare in una situazione di fragilità.
Quanto osservato con riguardo al diritto interno risulta in sintonia con la sensibilità internazionale che sta maturando rispetto a questo problema.
In particolare, l'Unione europea, all'atto stesso della sua costituzione come tale, ovvero con il Trattato di Maastricht, si è fatta espressamente carico di contrastare il fenomeno della tossicodipendenza (art. 129); l'impegno è stato rinnovato e in parte ampliato con il trattato di Lisbona[6].
La giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione, attraverso l'interpretazione sistematica dei principi fondamentali espressi dai Trattati, ha saputo andare oltre la considerazione della sola tossicodipendenza ponendo argini anche contro le nuove dipendenze. Ciò è avvenuto, ad esempio, con riguardo al gioco d'azzardo praticato mediante la rete Web; la Corte ha ritenuto che l'obbligo imposto dalle autorità di uno Stato membro all'operatore straniero di ottenere una previa autorizzazione per l'esercizio di tale attività non sia in contrasto con la libertà di prestazione dei servizi, quando tale sistema di controlli ha la funzione di tutelare la salute pubblica e di contrastare la criminalità[7].
L'intervento della Corte di giustizia offre l’occasione per rilevare l'importanza della giurisprudenza nella risposta giuridica alla sfida delle dipendenze; sempre più spesso, del resto, i Tribunali costituiscono il primo varco attraverso cui i problemi attingono la soglia della regolamentazione[8]. Si tratta, tuttavia, di un passaggio non privo di limiti e di incognite. Risulta in particolare complesso l’esame di casi nei quali si discute della incapacità di intendere o di volere del soggetto per l’influenza delle nuove dipendenze posto che tali condizioni non sempre sono oggetto di sicuro apprezzamento in sede medica; diventa dunque di fondamentale importanza il rigore del metodo con cui il giudice procede all'accertamento dello stato di possibile alterazione psichica. Alcune indicazioni possono essere tratte dalla giurisprudenza della Corte di cassazione la quale, in un altro contesto, ma comunque in modo significativo anche per questa sede, ha avvertito che il giudice non può avallare l'ipotesi di una patologia – non ancora accreditata dalla medicina ufficiale – senza averla prima sottoposta ad un’attenta verifica anche attraverso l'ausilio di esperti[9].
2. La vita prenatale.
L'art. 1 c.c. stabilisce che la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, escludendo pertanto il concepito, se non per specifiche ipotesi in materia di successioni e donazioni, dalla possibilità di acquistare diritti.
Nel tempo il principio è tuttavia stato oggetto di una profonda revisione interpretativa volta a porlo in sintonia con la Costituzione che protegge in modo peculiare la vita prenatale (art. 31, co. 2) e che guarda all'essere umano in modo unitario, come «soggettività aperta e suscettibile di sviluppo... che riunisce in sintesi il prima e il dopo, l'embrione e la persona adulta, il bambino e l'anziano, chi prima era sano e poi è divenuto malato»[10]; si è così accresciuta la convinzione che l'ambito proprio dell'art. 1 c.c. si identifichi in realtà con quello dei rapporti di natura patrimoniale e che il concepito, come ogni essere umano, sia portatore di diritti fondamentali.
Attraverso la legislazione ordinaria si è dato corso a quest'ispirazione. Ad esempio, l'art. 1 l. 22 maggio 1978, n. 194 afferma che «lo Stato... tutela la vita umana dal suo inizio»; più recentemente, l'art. 1 l. 19 febbraio 2004, n. 40 qualifica espressamente il concepito come «soggetto».
Anche la giurisprudenza ha gradatamente acquisito la convinzione che il nascituro sia titolare di diritti fondamentali «primo tra i quali il diritto alla salute»[11]; al concepito, pertanto, deve essere assicurato che nessuno gli procuri «lesioni o malattie (con comportamento omissivo o commissivo colposo o doloso), e [...] che siano predisposti quegli istituti normativi o quelle strutture di tutela, di cura ed assistenza della maternità, idonei a garantire, nell'ambito delle umane possibilità, la nascita sana»[12].
In tale orizzonte si pone anche il caso della donna gestante in condizioni di dipendenza patologica, in particolare da alcool o stupefacenti, posto che simili sostanze, a volte unitamente a gravi patologie, si trasmettono per via placentare al nascituro mettendo a repentaglio la sua salute.
Esaminando la vicenda in ambito penale, una sentenza[13] ha ritenuto che la trasmissione al feto di sostanze stupefacenti non integri alcuna delle condotte specificatamente previste nell'art. 73 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309 (T.U. Stupefacenti), in particolare la cessione; nella decisione si aggiunge che simili azioni potrebbero tuttavia essere penalmente rilevanti come reato di lesioni personali, qualora risulti compromessa la salute del neonato.
Rispetto al profilo sanzionatorio, appare però di maggior urgenza adottare efficaci provvedimenti per la tutela della salute del concepito; in questa prospettiva, come avvenuto in analoghi contesti nei quali la gestante manteneva comportamenti pregiudizievoli per il nascituro[14], il giudice potrebbe prescrivere alla donna di seguire le precauzioni appropriate al suo stato e attribuire ai servizi sociali un compito di supporto e controllo. Tentativi apprezzabili, come quello ora riferito, di imporre ad una donna vincoli di condotta nell’interesse della stessa e del nascituro sembrano peraltro venire frustrati o persino contrastati dall’applicazione della legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, la quale nei primi novanta giorni dal concepimento si risolve nell’incontrollabilità dei presupposti per l’intervento; si avalla così una impostazione fondata sull’autodeterminazione della donna, annullando il valore del richiamato principio di tutela del concepito che pure deve essere considerato[15].
3. Minore età.
La dipendenza patologica suscita le maggiori inquietudini quando si insinua nelle esistenze dei giovani e in particolare dei minori di età, guastando, talvolta in modo irreparabile, quello slancio vitale da cui dipende l'avvenire della società.
Il sistema giuridico presenta strumenti che consentono di assistere il minore sia nei casi in cui soffra per la dipendenza sviluppata dal genitore sia quando egli stesso diventi dipendente.
La dipendenza dei genitori determina una situazione familiare assai grave nell’ipotesi in cui li riguardi entrambi oppure se si tratti dell'unico genitore che ha in cura il figlio; le considerazioni che seguono si riferiranno in particolare proprio a simili evenienze.
Lo stato di intossicazione cronica, monopolizzando gran parte delle energie del soggetto, può condurre all'incapacità di attendere in modo adeguato al dovere-diritto di cura nei confronti dei figli, che la recente riforma della filiazione ha voluto riqualificare anche linguisticamente, consegnando alla storia del diritto il termine di «potestà» e scegliendo quello di «responsabilità genitoriale»[16].
In tale circostanza, l'art. 30, co. 2 Cost. esige che le istituzioni provvedano alla cura del minore; ogni azione deve in ogni caso essere condotta cercando di salvaguardare il suo fondamentale diritto di «crescere ed essere educato nell'ambito della propria famiglia» (art. 1 l. 4 maggio 1983, n. 184). L'intervento dovrà quindi avere una funzione di sostegno e, ove occorra, di temporanea supplenza del ruolo dei genitori, mentre, solo nel caso di definitiva e completa irrecuperabilità della capacità educativa, può ipotizzarsi di inserire il minore in un nuovo nucleo familiare facendo venir meno il legame con quello di origine.
Specificando le forme di tutela giuridica, quando lo stato di dipendenza pregiudica la prole, può essere anzitutto disposta la limitazione della responsabilità genitoriale (artt. 333 c.c.) stabilendo, ad esempio, che le decisioni relative a talune questioni, come la salute, siano devolute ai servizi sociali oppure che i genitori si sottoppongano, in modo controllato, a talune prescrizioni di condotta. Si tratta di un provvedimento flessibile sia nei presupposti che lo giustificano sia nelle conseguenze: entrambi gli aspetti possono essere valutati dal tribunale per i minorenni con discrezionalità riuscendo così a tener conto delle specificità del caso. La misura limitativa, non estromettendo totalmente i genitori dalla loro funzione, evita che si deresponsabilizzino e parimenti li rende consapevoli della necessità di un cambiamento nella loro condotta.
Quando, tuttavia, lo stato di dipendenza è tale da impedire al genitore di rispondere, anche solo parzialmente, ai bisogni del figlio, occorre dar corso al provvedimento di decadenza dalla responsabilità (art. 330 c.c.) e, se l'altro genitore manchi o sia a sua volta incapace di accudire il figlio, procedere alla nomina di un tutore.
Nei casi in esame è molto importante il ruolo dei servizi socio-assistenziali. Ad essi compete, qualora riscontrino una condizione di pericolo, informare il pubblico ministero presso il tribunale per i minorenni affinché promuova la domanda di limitazione o decadenza dalla responsabilità. Non meno importante è il ruolo di assistenza nei confronti del genitore, affinché, affrontato il problema che lo affligge, possa avviarsi verso il reintegro nella sua funzione di cura dei figli.
Quando la dipendenza è grave e perdurante, gli interventi descritti non sono sufficienti e risulta difficile pensare che il minore possa rimanere nella propria famiglia.
Occorrerà allora stabilire l'affidamento temporaneo presso altri soggetti, familiari o, in mancanza, comunità educative, che possano dedicargli affetto e sostenere i suoi bisogni materiali almeno nel periodo necessario al superamento da parte dei genitori della fase acuta della dipendenza. In questo frangente è essenziale che il minore mantenga il rapporto con i propri genitori e che gli stessi siano resi partecipi, nei modi possibili, delle decisioni che lo riguardano: l'affidamento familiare ha, infatti, natura provvisoria e l'esito auspicato è proprio quello del rientro del minore nella sua famiglia[17].
I genitori talvolta non riescono tuttavia ad affrontare la dipendenza; la condizione si cronicizza e annienta la capacità di accudire moralmente e materialmente il figlio, il quale viene così a trovarsi in uno stato non recuperabile di abbandono familiare (art. 8 l. n. 184/1983): si apre allora il procedimento di adozione[18].
In tale circostanza la sfida avanzata dalla dipendenza è drammatica: l'esito cui conduce è, infatti, quello dell'inserimento del minore in una nuova famiglia rescindendo il rapporto con il nucleo di origine[19].
L'esercizio della responsabilità genitoriale può essere impedito anche da forme di dipendenza non associate a sostanze.
Si pensi anzitutto al gioco d'azzardo, fenomeno non nuovo, ma che in questi anni sta assumendo dimensioni allarmanti[20], rappresentando la speranza di una fonte di ricchezza immediata e facile in un periodo in cui tanti patiscono la precarizzazione dei rapporti di lavoro, quando non la mancanza dello stesso, o comunque l’insufficienza dei redditi a disposizione rispetto ai bisogni personali e familiari. Sarebbe però una visione parziale associare univocamente l’esponenziale aumento del gioco d’azzardo con le componenti più deboli della popolazione dal punto di vista della disponibilità patrimoniale; l’azzardo è presente infatti da tempo nella realtà economica in strumenti finanziari sofisticati[21], i quali vengono elaborati e impiegati da soggetti particolarmente qualificati, ovvero in una condizione socio-economica, almeno tendenzialmente, opposta a coloro che subiscono gli effetti della crisi. L’azzardo è quindi probabilmente una pratica con una portata culturale e sociale oggi di ampiezza vasta e comunque debordante rispetto al tradizionale impianto legislativo.
Venendo dunque alle norme in materia, si può anzitutto trovare una nozione giuridica. Più precisamente, secondo l'art. 721 c.p., si ha gioco d'azzardo in presenza di due elementi: uno soggettivo, il perseguimento da parte del giocatore del fine di lucro, l'altro oggettivo, l'alea, ovvero il fatto che l'esito dipende interamente (o quasi) dalla sorte. Il gioco d'azzardo è in generale proibito; in realtà, tale divieto ha un campo di applicazione limitato dopo che la legislazione recente ha autorizzato le forme più comuni di gioco d'azzardo (videopoker, slot machines, ...), anche via internet.
Il codice civile considera poi nello specifico due categorie di giochi (artt. 1934 - 1935), ovvero le scommesse sportive e le lotterie pubbliche (ad esempio il lotto, il bingo, i biglietti “Gratta e vinci”) che pure possono indurre fenomeni di dipendenza.
La propensione critica del c.c. verso il gioco si riconosce nell’art. 1933, originariamente intesa come regola generale, la quale accorda una tutela giuridica attenuata, ovvero – come si è soliti dire – di mera tolleranza: non solo è negata l’azione, ma è altresì sempre consentita all’incapace la ripetizione del pagamento, in deroga all’irrepetibilità in apicibus stabilita (art. 1933, co. 2).
In antagonismo con la linea dei codici orientati a limitare il gioco, specialmente quando d'azzardo, la recente legislazione, in modo deplorevole, ha incrementato le forme di gioco autorizzato; da ciò deriva che la gran parte dei giochi esistenti – in applicazione dell'art. 1935 cod. civ. – sono oggi sottoposti al regime generale dei contratti e delle obbligazioni[22] e non più alla regola della denegatio actionis dell’art. 1933 c.c., originariamente posta a cardine della disciplina[23].
Richiamata per quanto qui importa la disciplina, si tratta ora di verificare se sussistano forme di tutela per il giocatore dipendente patologico.
A questo riguardo, possono trovare applicazione gli istituti dell'inabilitazione e dell'amministrazione di sostegno che, come meglio si vedrà, consentono di limitare la capacità legale di agire nel caso in cui il soggetto manifesti alterazioni psichiche; al momento dell'adozione di tali misure, il soggetto affetto da ludopatia ha già sovente dissipato somme notevoli sicché resta la questione se vi sia modo di ottenerne la restituzione.
Le regole applicabili, in particolare in materia di annullamento del contratto, non sembrano tuttavia poter assicurare un rimedio, almeno per quanto emerge dalle episodiche decisioni della giurisprudenza[24]. I limiti tecnici dell’art. 428 c.c. derivano del resto da profonde ragioni e segnatamente dall’impronta di un’«antropologia giuridica superata, caratteristica di una società di proprietari…Predominano in essa due interessi: da un lato l’interesse alla conservazione del patrimonio dell’infermo di mente…, dall’altro l’interesse di sicurezza della circolazione giuridica e di tutela dell’affidamento dei terzi»[25].
Più efficaci potrebbero essere le misure di prevenzione e di recupero, a cui si è in effetti indirizzata di recente la legislazione anche se in modo non coerente a causa dell'influenza di interessi confliggenti.
Da una parte, più ragioni urgono affinché si contrasti, con misure preventive e repressive, il gioco: si pensi alle dolorose implicazioni personali e familiari, ai costi per la cura di tale dipendenza, alla circostanza che tale attività si lega notoriamente a interessi di compagini malavitose.
In questa linea si pone, ad esempio, l’art. 7 d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (convertito nella l. 8 novembre 2012, n. 189) che ha introdotto talune previsioni generali volte a dissuadere dal gioco d'azzardo[26]; in particolare, sono stati imposti precisi obblighi di informazione circa il rischio di sviluppare dipendenze[27] nonché regole di tutela rafforzata per i minori. Inoltre – aspetto di particolare rilievo – le prestazioni di prevenzione e cura degli stati di ludopatia sono state annoverate nei livelli essenziali dell'assistenza pubblica[28].
Dall'altra parte, lo Stato ricava dal gioco una componente assai ragguardevole delle entrate pubbliche; volendo comparare le cifre, il gettito percepito nell'anno 2016 è stato di oltre dieci miliardi di euro[29] a fronte di una spesa per la cura degli stati di ludopatia divisata in poco più di duecento milioni di euro annui a decorrere dal 2015[30].
Si producono così provvedimenti che consentono l'ulteriore diffusione del fenomeno attraverso l'introduzione di nuove forme di giochi[31].
Tale contraddizione adombra l'autorevolezza e indebolisce l'incidenza delle politiche di contrasto alla ludopatia, come avvertito dalla Corte europea di giustizia in un caso riguardante l'Italia. Secondo la Corte, se «le autorità di uno stato membro inducono ed incoraggiano i consumatori a partecipare alle lotterie, ai giochi d'azzardo o alle scommesse affinché il pubblico erario ne benefici sul piano finanziario», le stesse autorità non possono poi «invocare l'ordine pubblico sociale con riguardo alla necessità di ridurre le occasioni di gioco» al fine di giustificare provvedimenti che limitano la libertà degli operatori stranieri di prestare tale servizio[32].
All'esame del parlamento vi sono oggi proposte che mirano ad intervenire in modo più rigoroso, ad esempio, autorizzando i comuni ad inibire nel proprio territorio la collocazione di nuovi apparecchi da gioco.
Per la verità, in analoga direzione sono già intervenute alcune regioni che hanno adottato proprie disposizioni. Si può ricordare la l. reg. Lombardia 21 ottobre 2013, n. 8 con cui è stata vietata la collocazione di nuovi apparecchi da gioco «entro il limite massimo di cinquecento metri, da istituti scolastici di ogni ordine e grado, luoghi di culto, impianti sportivi, strutture residenziali o semiresidenziali operanti in ambito sanitario o sociosanitario, strutture ricettive per categorie protette, luoghi di aggregazione giovanile e oratori» (art. 5, co. 1). Si è inoltre data facoltà ai comuni di individuare altri luoghi sensibili nonché di adottare condizioni di maggior favore, sotto il profilo tributario, verso gli esercenti che non istallano apparecchi per il gioco d'azzardo (art. 5, co. 2 e 5).
La condizione di dipendenza patologica dei genitori si ripercuote dunque sui figli, specialmente se minori di età; accade tuttavia che lo stesso minore possa sviluppare qualche forma di dipendenza.
In tale caso la legislazione doverosamente accentua il proprio sforzo nelle misure di prevenzione.
Ad esempio, la l. 30 marzo 2001, n. 125 (Legge quadro in materia di alcol e di problemi alcolcorrelati) vieta la somministrazione di bevande alcooliche ai minori (art. 14 ter) e ne proibisce la pubblicità in luoghi da loro prevalentemente frequentati e nel contesto di programmi televisivi destinati al pubblico di tale età (art. 13).
Si è già fatto cenno ai divieti, stabiliti da alcune leggi regionali, di collocare nuove macchine per il gioco d'azzardo in prossimità di spazi ove abitualmente si ritrovano minorenni.
L'attenzione verso il rischio delle dipendenze in giovane età si è inoltre manifestata in modo significativo anche attraverso alcune leggi regionali che introducono forme di controllo e verifica nella somministrazione di farmaci contenti sostanze psicotrope a minorenni[33]. L'adozione di cure diverse da quelle comportanti l'assunzione di tali farmaci viene anzi assunta a obiettivo generale attraverso la direttiva di «promuovere una corretta informazione … sulla disponibilità di terapie e trattamenti alternativi che non contemplino l’uso di farmaci» (art. 1 l. prov. Trento n. 4/2008).
Tra le disposizioni che curano il recupero del minore tossicodipendente, riveste peculiare importanza, settoriale e sistematica, l'art. 120, co. 2 d.p.r. n. 309/1990 (già art. 95 l. n. 685/1975) secondo cui il minore può personalmente chiedere di essere assistito; la medesima disposizione attribuisce anche ai genitori la facoltà di richiedere l'attuazione di cure nei confronti del figlio minore[34].
Non si può peraltro tacere che l'art. 120 sia stato oggetto di riserve[35]; si è dubitato in particolare che possano avere una qualche efficacia le terapie richieste dal minore in assenza del supporto e della collaborazione della famiglia. Tale rischio potrebbe essere favorevolmente superato grazie al concorso tra le diverse istituzioni e specialmente attraverso gli operatori sociali i quali opportunamente dovranno rendere il minore consapevole dell'importanza del sostegno dei familiari che non possono fare mancare la loro presenza: il nuovo art. 147 c.c., pure novellato dalla riforma della filiazione, ha del resto significativamente aggiunto ai doveri di mantenimento, educazione ed istruzione quello di «assistere moralmente il figlio».
Ancora nella collaborazione tra famiglia, scuola e altri soggetti con compiti educativi si deve porre il fondamento per far fronte alle insidiose dipendenze scaturite dalla modernità tecnologica, come i videogiochi, le quali soggiogano soprattutto i giovani, mettendone a rischio la salute mentale[36].
4. Età adulta.
La maggiore età consente alla persona di compiere efficacemente la generalità degli atti giuridici; lo stato di dipendenza patologica può però infirmarne in radice la validità o impedirne la normale prosecuzione nel tempo.
Il problema, già grave per le disposizioni di natura patrimoniale, può divenire critico in relazione alle vicende che coinvolgono la dimensione esistenziale del soggetto.
Ne è esempio anzitutto il matrimonio che nel consenso degli sposi trova il primo requisito; tale condizione potrebbe essere dubbia, legittimando l'impugnazione dell'atto, in presenza di uno stato di dipendenza patologica – o anche soltanto di una alterazione transitoria – che comprometta la libera e consapevole formazione della volontà matrimoniale (art. 120 c.c.)[37]. Il matrimonio potrebbe inoltre essere impugnato dal coniuge in errore circa il fatto che l’altro è affetto da una malattia fisica «tale impedire lo svolgimento della vita coniugale» (art. 122 c.c.); ricorrono in tale categoria le patologie psichiche indotte dall’abuso di droga o alcool[38].
Più frequentemente, la dipendenza appare come causa sopravvenuta di crisi del consorzio coniugale; quando produce disaffezione verso i componenti della famiglia o rende incapaci di esercitare una professione o di contribuire in altro modo ai bisogni comuni, determina infatti una situazione tale da «rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole» (art. 151 c.c.). Al coniuge dipendente potrà poi essere addebitata la separazione[39], con la conseguenza che, in caso di bisogno, avrà diritto solo ad un assegno alimentare.
Decorso il periodo prescritto dalla pronuncia della separazione, se la dipendenza rimane un ostacolo alla ripresa della comunione di vita tra i coniugi, l’altro coniuge presumibilmente avanzerà domanda di divorzio, ponendo così fine all’unione coniugale.
Lo stato di dipendenza diviene anche un elemento che influisce sulla valutazione del giudice circa l'affidamento dei figli. Le recenti riforme in merito hanno assunto come principio informatore il diritto del figlio a mantenere un rapporto equilibrato con entrambi i genitori; resta tuttavia la previsione dell'affidamento esclusivo in caso di grave inidoneità e tale circostanza può essere individuata nello stato di dipendenza patologica se induce nel genitore un’inabilità psichica o fisica tale da impedire l’esercizio del dovere - diritto di cura nei confronti dei figli[40].
Nell'età adulta le dipendenze, soprattutto da sostanze, possono irretire anche la capacità di svolgere una professione e così di provvedere a sé e alla propria famiglia[41]: attuando il principio di solidarietà, la legislazione in materia di dipendenza da droga e da alcool assicura peraltro il diritto a mantenere il posto di lavoro nel periodo di assenza finalizzato al trattamento di tale condizione.
Quando lo stato di dipendenza patologica si protrae nel tempo e induce una condizione di infermità mentale cronica, ancorché non necessariamente continua, il soggetto perde la capacità di partecipare in modo autonomo all'attività giuridica.
Nel c.c. si trova una disposizione espressamente dedicata a tale evenienza, come già ricordato; si tratta dell'art. 415, co. 2 secondo il quale può essere sottoposto ad inabilitazione colui che abusa di alcool o di stupefacenti[42]. Unitamente a tale requisito, si richiede anche l'accertamento che la condotta del dipendente esponga sé o la sua famiglia al pericolo di «gravi pregiudizi economici», rivelando come l’interesse primario sotteso all’istituto sia quello alla conservazione del patrimonio del soggetto.
Per effetto della pronuncia di inabilitazione, la persona può compiere autonomamente solo gli atti di minore rilievo economico-giuridico, mentre è privato della capacità di agire per quanto riguarda gli atti di straordinaria amministrazione, per i quali dovrà essere assistito da un curatore, salve specifiche eccezioni che possono essere accordate dal giudice.
La disposizione in esame si è tuttavia rivelata non idonea a disciplinare i problemi connessi alla condizioni di abuso di alcool o droghe[43], restando sostanzialmente inapplicata.
La protezione della persona priva di autonomia può essere forse meglio garantita dall'amministrazione di sostegno che, sebbene introdotta nel nostro ordinamento giuridico da non molti anni, è presto divenuta, non senza zone d’ombra, la soluzione preferenziale, a livello di principi come di prassi, per affrontare le situazione di incapacità della persona.
Essendo l'amministrazione di sostegno espressamente prevista anche per i casi in cui il soggetto versi in una situazione temporanea di impossibilità di prendersi cura dei propri interessi, potrebbe ad esempio accompagnare la persona nel periodo in cui affronta cure e specialmente i ricoveri volti a superare lo stato di dipendenza[44].
Un ultimo profilo che deve essere considerato attiene alla responsabilità della persona affetta da dipendenza, specialmente da stupefacenti, per i danni provocati a terzi.
In linea generale, l'assunzione di droghe o di altre sostanze che alterano le condizioni psichiche non elide la responsabilità civile. Secondo la previsione dell’art. 2046 c.c., il soggetto è infatti responsabile quando l’azione dannosa inconsapevole trova causa in una precedente condotta cosciente e volontaria, quale il consumo di alcool o stupefacenti. Quando tuttavia il soggetto versa in una condizione di dipendenza che ha pregiudicato le normali funzioni psichiche – e ciò avviene specialmente nel profilo volitivo – la capacità può risultare carente già in origine[45] sicché viene meno il presupposto per l’imputabilità del fatto dannoso[46]. Si trascorrerebbe allora all’art. 2047 c.c. con la questione della responsabilità sostitutiva del soggetto eventualmente tenuto a vigilare[47] sul dipendente in condizioni di infermità mentale[48]. Qualora non vi sia modo per offrire una riparazione al danneggiato – perché non vi era sorvegliante o costui è in grado di smentire l’addebito di responsabilità, soddisfacendo l’inversione dell’onere probatorio – il soggetto danneggiante, per quanto incapace, può essere tenuto a prestare un indennizzo[49].
Per altro verso, l’eventuale applicazione di una misura di limitazione della capacità legale di agire dovuta a infermità psichica non vale a ritenere esclusa in modo automatico la capacità di intendere e volere del soggetto agente e la conseguente responsabilità.
5. Gli atti di ultima volontà.
La condizione di dipendenza patologica, nei casi più gravi, può infine provocare l'invalidità degli atti di ultima volontà della persona e, in particolare, del testamento.
Qualora, infatti, si provi che il soggetto era privo della necessaria capacità al momento di disporre delle proprie sostanze, l'atto potrebbe essere annullato[50]. La condizione di dipendenza potrebbe indurre uno stato di incapacità sia in quanto fattore che ha spinto, ad esempio, all’assunzione della sostanza alterante al momento della redazione dell’atto sia per aver ormai già determinato una condizione di disfunzione psichica permanente[51]. L’esito dell'azione è però assai incerto richiedendosi, secondo l’orientamento giurisprudenziale corrente, la dimostrazione che la capacità del soggetto era del tutto carente[52].
Ciò che in ogni caso rimane per effetto della dipendenza è un’incertezza sulla voluntas testantis che non si riuscirà a sciogliere fino in fondo. Se, infatti, la domanda di annullamento viene accolta, il testamento cade e si apre la successione legittima, irretendo così una volontà che pur potrebbe essere stata espressa in un momento di sufficiente lucidità. Per altro verso, il rigetto dell'azione a stento fugherà ogni dubbio sull'effettiva autonomia decisionale del testatore ove costui fosse affetto da dipendenza.
L'analisi, pur per lineamenti essenziali, entro lo spettro dell'ordinamento giuridico del fenomeno della dipendenza patologica ha forse aiutato a svelare, anche da questa prospettiva, la vera natura di tale pietosa condizione: nient'altro che un inganno che con la lusinga di affermare la libertà, in realtà la nega sempre più, fino alla fine e persino dopo la vita, almeno per ciò che qui potrebbe ancora contare. La dipendenza distrugge infatti quella che, almeno inizialmente, è forse stata una pretesa di autodeterminazione del soggetto e la sostituisce con una soverchiante eterodeterminazione che può portare fino all’annichilimento della persona, nella sua dignità individuale, come nell’apertura relazionale.
Davanti a questa sfida, il diritto[53], riguadagnando in coerenza, può contribuire a far sì che non «domani», come “Il giocatore” tenta vanamente di promettere a se stesso, ma già oggi possa riscattarsi chi soffre uno stato di dipendenza.
* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] Il testo rielabora l’intervento al convegno La sfida delle “dipendenze” tra educazione e servizi alla persona tenutosi il 21 ottobre 2014 presso l’Università Cattolica S. Cuore – Sede di Milano e organizzato dalla Facoltà di Scienze della Formazione e dal Dipartimento di Pedagogia.
[2] Qualificato da almeno una parte della dottrina come dovere non solo etico, ma anche giuridico. Cfr. G.F. Mancini, sub art. 4 Cost., in Comm. cost. Branca. Principi fondamentali, Bologna - Roma 1975, p. 259.
[3] L’originaria lettura in chiave costituzionale dell’alcolismo e della tossicodipendenza fu in realtà primariamente nella prospettiva dell’art. 32, co. 2 per l’influenza della legislazione speciale, in particolare di pubblica sicurezza, che avvertiva il fenomeno essenzialmente in chiave di pericolo per la società (cfr. D. Vincenzi Amato, sub. art. 32 Cost., in Comm. cost. Branca. Rapporti etico-sociali, Bologna - Roma 1976, p. 197 s.). Nell’esperienza attuale l’accento tende invece ad essere sul recupero della salute del dipendente e in tale direzione si è posta la legislazione ordinaria. Resta la possibilità di ricovero nel quadro però dei presupposti legislativi e delle garanzie giurisdizionali introdotti dalla l. n. 180 del 13 maggio 1978 (laddove in passato la tutela giurisdizionale del tossicodipendente era meno solida di quella per il soggetto con malattia mentale, ibidem). Anche la Cedu ammette il ricovero coercitivo del soggetto alcolizzato o tossicomane (art. 5, co. 1 lett. e); l’elaborazione giurisprudenziale della regola da parte della Corte Edu ha nondimeno connotato la misura in termini di rimedio estremo (cfr. S. Bartole - P. De Sena - V. Zagrebelsky, Comm. breve convenzione europea, sub art. 5, Padova 2012, p. 134) ed ha valorizzato il controllo giudiziario del procedimento (cfr. M. De Salvia, La droga e il rispetto dei diritti dell'uomo, in Riv. int. diritti dell’uomo, 1991, p. 716).
[4]Cfr. L. Mengoni, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1982, p. 1117 s. e in particolare p. 1135 dove si identifica il tratto sistematico di questo approccio nella «tendenza delle strutture e dei contenuti normativi a svilupparsi a livelli più bassi di astrazione, cioè ad articolarsi in discipline e strumentazioni più specializzate, allo scopo di ottenere una maggiore aderenza alle esigenze vitali dell’uomo nelle diverse fasi di età e nei ruoli diversi in cui viene a trovarsi nel corso della sua vicenda su questa terra». Di tale tendenza verranno offerti diversi esempi nel prosieguo dello scritto. Sempre dal punto di vista sistematico è significativo il rilievo che l’attenzione verso la realtà della vita materiale, in particolare con riguardo ai bisogni esistenziali dei soggetti deboli, è orami divenuta materia del diritto privato generale o primo, secondo la nota classificazione di C. Castronovo, e in pari tempo sta trovando sede non più solo nella legislazione speciale, ma nello stesso c.c. Cfr. D. Poletti, Soggetti deboli, in Enc. dir., Ann., 2014, p. 966 s. dove si descrive il fenomeno in esame come un moto attraverso il quale «la vita si riprende il diritto, tramite l’ascesa della persona e la considerazione dei suoi bisogni».
[5]Sul rapporto tra la categoria della capacità giuridica e l’attuazione del principio di eguaglianza, cfr. F.D. Busnelli, Capacità in genere, in Lezioni di diritto civile. Corso di Aggiornamento. Università di Camerino, Napoli 1990, p. 87 ss. ed ora in Id., Persona e Famiglia, Ospedaletto 2017, p. 205 ss. e specialmente p. 209.
[6]Art. 168, co. 1 TFUE.
[7]Corte eur. giust. 3 giugno 2010, C-258/08, Ladbrokes Betting & Gaming Ltd. La decisione ha un rilievo che va oltre l’ambito dal quale prende le mosse, definendo l’orientamento della Corte europea di giustizia in relazione alla legittimità di limitazioni interne di natura privatistica alle libertà fondamentali previste dai trattati europei. Cfr. M. Ebers, Rechte, Rechtsbehelfe und Sanktionen im Unionsprivatrecht, Tübingen 2016, p. 245 s.
[8]Fenomeno che investe gli aspetti esistenziali della persona non meno che quelli patrimoniali: dalla fecondazione assistita, alla condizione del nascituro fino alla decisione sulla fine della vita. Cfr. C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano 2015, p. 67 ss., 87 ss. e 95 ss.
[9] Cass. 20 marzo 2013, n. 7041.
[10] A. Nicolussi, Lo sviluppo della persona umana come valore costituzionale e il cosiddetto biodiritto, in Europa dir. priv., 2009, p. 4.
[11]Cass. 11 maggio 2009, n. 10741. L’apporto argomentativo della decisione è però assai problematico. La soggettività del concepito viene infatti contraddittoriamente ricavata dal principio di centralità della persona, dopo aver distinto tra soggetto e persona. Cfr. Castronovo, Eclissi del diritto civile, cit., p. 88 s.
[12]Cass. 29 luglio 2004, n. 14488.
[13]Trib. Cremona 24 agosto 2011, in Fam. pers. e succ., 2012, p. 742 s., con nota di S. Bracchi.
[14] Cfr. Trib. min. Firenze 28 agosto 2004, in Foro it., 2004, I, c. 3498. Di segno opposto Trib. min. Trieste 26 novembre 1997 e App. Trieste, sez. min., 24 dicembre 1997, in NGCC, 1999, I, p. 110 s., con nota di P. Zatti, Diritti del non-nato e immedesimazione del feto nella madre, che hanno negato provvedimenti a favore del nascituro «difettando il presupposto della capacità giuridica del soggetto da tutelare». L’art. 1 della l. 194/1978 (ed ora anche l’art. 1 l. 40/2004) indica però all’interprete una diversa soluzione, attenta anche al concepito: come osserva C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, cit., p. 91, «di soggetto… si deve parlare… a riguardo del nascituro per la precisa ragione che esso, nonostante non sia ancora dotato di capacità, e perciò non possa essere titolare di diritti, è però causa finale, anzitutto in quanto beneficiario di doveri, come risulta… dalla legge 194/1978».
[15] Cfr. A. Renda, Gravidanza (interruzione della), in Diz. dir. priv. Irti. Dir. civ., Milano 2011, p. 863.
[16] L’espressione «responsabilità genitoriale» deriva, come noto, da fonti internazionali. L’ordinamento italiano ne ha fatto conoscenza per la prima volta con il reg. CE 27 novembre 2003, n. 2201 relativo alla competenza, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e appunto di responsabilità genitoriale. Ad esso fa del resto espresso riferimento la relazione di accompagnamento allo schema di d.lgs. attuativo della l. 10 dicembre 2012, n. 219, la quale, nell’argomentare il cambiamento linguistico, sembra peraltro incorrere in alcuni equivoci. Secondo il legislatore, il nuovo sintagma sarebbe più consono in quanto renderebbe meglio l’dea che il compito dei genitori si attua attraverso «un’assunzione di responsabilità… nei confronti del figlio». In questo modo si corre però il rischio di veicolare un’idea di filiazione su basi volontaristiche, e perciò – a dispetto delle attese – regressiva, mentre l’art. 30 Cost. costituisce il rapporto sul solo fatto della procreazione (cfr. A. Nicolussi, Fecondazione eterologa e diritto di conoscere le proprie origini. Per un’analisi giuridica di una possibilità tecnica, in Rivista Aic, 2012, 1, p. 3 testo e nota 12). Sempre secondo la relazione, il termine responsabilità sarebbe capace di significare il mutamento di prospettiva segnato dal primato dell’interesse del figlio minore. In realtà, già l’espressione potestà, in quanto specie del genere ufficio, indica nel diritto privato esattamente questo, ovvero l’attribuzione di doveri e poteri nell’interesse del figlio, che è dunque al centro dell’attenzione normativa (cfr. A. Bucciante, voce Potestà dei genitori, in Enc. dir., Milano 1985, p. 777). Di un tale nucleo concettuale non può fare a meno l’attuale responsabilità, come dimostra il fatto che l’art. 2 del reg. CE menzionato la definisce come l’insieme dei «diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore». Probabilmente ha pesato – invero in modo non ingiustificato – un retaggio autoritaristico che, se superato nella normativa dalla riforma del diritto di famiglia del 1975, è però rimasto impresso nel sentire comune. Il passaggio alla nuova terminologia può dunque essere apprezzato qualora serva a depurare il rapporto di filiazione dai residui aloni negativi che erano rimasti attaccati alla potestà, stando tuttavia attenti a non perderne corrivamente anche il sostrato normativo.
[17] La legge di riforma della filiazione ha ripristinato nell’art. 337 ter c.c. la disposizione per cui, nel contesto della crisi della famiglia, può essere disposto anche l’affidamento familiare dei figli minori. Tale specificazione era stata espunta nella formulazione del previgente testo dell’art. 155 c.c., introdotto dalla l. 8 febbraio 2006, n. 54, dove veniva utilizzata la più generica formulazione secondo cui il giudice «adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole». Era peraltro controverso se nella previsione potesse ritenersi compreso l’affidamento temporaneo, attesa l’obliterazione del richiamo che era invece presente nel testo allora sostituito (cfr. A. Palazzo, La filiazione, in Tratt. Cicu - Messineo - Mengoni - Schlesinger, Milano 2007, p. 668). Risulta pertanto opportuna la scelta di menzionare espressamente l’affidamento che si presta ad essere applicato specialmente nei casi in cui i genitori non possono occuparsi dei figli in quanto partecipano ad un programma di recupero terapeutico, ad esempio, dalla tossicodipendenza.
[18]Cfr. Cass. 12 aprile 2013, n. 8930; Cass. 14 novembre 2003, n. 17298; Cass. 7 novembre 1998, n. 11241. La sentenza Cass. 14 aprile 2006, n. 8877 sottolinea peraltro la necessità che il pregiudizio per il minore debba risultare definitivo per dichiarare lo stato di abbandono; non ricorre pertanto tale estrema condizione quando il genitore abbia intrapreso un percorso serio di recupero dalla tossicodipendenza.
[19] In queste evenienze potrebbe essere previamente preso in considerazione il ricorso alla c.d. adozione mite (ovvero all’art. 44 lett. d) l. 184/1983), permettendo così al minore di inserirsi in un contesto familiare idoneo a rispondere ai suoi bisogni, senza in pari tempo cancellare radicalmente il rapporto – giuridico e usualmente anche di fatto – con la famiglia di origine, come invece avviene per effetto dell’adozione piena. La valorizzazione delle forme di adozione aperta è oggi sollecitata sia sul terreno dell’interpretazione giuridica, dottrinale e giurisprudenziale (in particolare, della Corte europea dei diritti dell’uomo) sia da ricerche psicologiche e sociali. Su questo tema, sia consentito il rinvio a C. Rusconi, L'adozione in casi particolari: aspetti problematici nel diritto vigente e prospettive di riforma, in questa Rivista, 2015, 3, p. 1 s. In questa linea si pone anche la 19 ottobre 2015, n. 173 «sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare» con la quale si è voluto salvaguardare il rapporto costituitosi tra gli affidatari e il minore, qualora torni nella sua famiglia o sia affidato o adottato da altra famiglia (art. 4, co. 5-ter l. 184/1983).
[20]Dall’anno 1998 al 2016 le somme giocate in Italia sono aumentate del 668%, secondo quanto riportato da G.A. Stella, Gioco d'azzardo: scommettiamo 132 euro al mese e siamo il Paese che perde di più, in Corriere della sera (ed. on line), 20 settembre 2017.
[21] Esemplare è il caso dei derivati. Cfr. G. Agrifoglio, Il gioco e la scommessa tra ordinamento sportivo e pubblici poteri, Napoli 2016, p. 173 s.
[22] Tanto veniva constatato già prima della legislazione liberalizzatrice degli ultimi anni; si veda M. Paradiso, Giuoco, scommessa, rendite, in Tratt. dir. civ. Sacco, Torino 2006, p. 28 s. L’osservazione storica del fenomeno, all’esito di un percorso dipanatosi attraverso i secoli, rileva nella contemporaneità un vero e proprio «capovolgimento di fronte» nella politica del diritto in materia (così, A. Cappuccio, Rien de mauvais. I contratti di gioco e scommessa nell’età dei codici, Torino 2011, p. 208); fanno eccezione le scommesse sportive per le quali vi è stata una tendenziale condiscendenza nella legge (cfr. Agrifoglio, Il gioco e la scommessa tra ordinamento sportivo e pubblici poteri, cit., p. 14 s., 35 s.).
[23] La combinazione delle regole di rifiuto dell’azione e di irripetibilità del pagamento spontaneo ha indotto la dottrina a ricondurre usualmente il debito di gioco nella categoria delle obbligazioni naturali; la ricostruzione è però messa in discussione: cfr. Paradiso, Giuoco, scommessa, rendite, cit., p. 20 s.
[24] Cfr. Trib. Arezzo 28 ottobre 2009, in banca dati on line DeJure. La giurisprudenza tende inoltre a ritenere che le condizioni generali nei contratti di gioco autorizzati superino il vaglio di vessatorietà fissato dall’art. 1341 c.c. (cfr. N. Coggiola, Il doppio azzardo del giocatore: i contratti di gioco e scommessa in dottrina e giurisprudenza, in Nuova giur. civ. comm., 2017, p. 268 s.); una certa tutela del soggetto giocatore è per altro verso derivata dall’applicazione del codice del consumo (Cass. 8 luglio 2015, nn. 14287/14288). Nessun successo è inoltre lecito attendersi dall’impugnazione dell’atto di adempimento, posto che lo si reputa sottratto al campo dell’art. 428, co. 1 c.c. e che l’irrilevanza dello stato di incapacità stabilita dall’art. 1191 c.c. viene predicata anche con riguardo all’incapacità naturale (cfr. A. Albanese, Il rapporto obbligatorio: profili strutturali e funzionali, Tricase 2014, p. 50).
[25] L. Mengoni, Osservazioni generali, in Un altro diritto per il malato di mente, a cura di P. Cendon, Napoli 1988, p. 359 s.
[26]Cfr. altresì art. 1, co. 70 l. 13 dicembre 2010, n. 220 (legge finanziaria 2011).
[27] In applicazione di questa previsione (art. 7, co. 5 d.l. 158/2012) alcune decisioni hanno dichiarato la nullità per violazione dell’art. 1418, co. 1 c.c. dei contratti di gioco relativi a lotterie istantanee (sul modello «gratta e vinci») i cui tagliandi erano sprovvisti delle indicazioni informative prescritte dalla legge (Giudice di Pace di Salerno, 30 giugno 2017, 24 novembre 2016, 6 settembre 2016, inedite).
[28] Come aveva dapprima previsto l’art. 5 d.l. 158/2012, nel frattempo abrogato, e ora prevede l’art. 28 d.p.c.m. 12 gennaio 2017 di aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza.
[29]Fonte: http://www.camera.it/leg17/465?tema=giochi (ultima consultazione: 22 settembre 2017).
[30]Fonte: http://www.camera.it/leg17/561?appro=app_tutela_minori (ultima consultazione: 22 settembre 2017).
[31] Ad esempio, art. 1, co. 75 della già citata l. 220/2010.
[32]Corte eur. giustizia 6 novembre 2003, C-243/2001, Gambelli.
[33]L. prov. Trento 6 maggio 2008, n. 4; L. reg. Piemonte 6 novembre 2007, n. 21 (entrambe le leggi hanno peraltro subito una censura di incostituzionalità rispetto alle disposizioni che disciplinavano il rilascio del consenso informato al trattamento).
[34] Si è in merito osservato che la legittimazione dei soggetti esercenti la responsabilità è subordinata al consenso del minore, se costui è capace di intendere e volere (cfr. Mengoni, La tutela giuridica, cit., p. 1131). L’accesso diretto del minore alla prestazione di cura è rafforzato dalla previsione dell’anonimato nei rapporti con le strutture sanitarie (art. 120, co. 3; sul problema in generale dell’anonimato del tossicodipendente e del rapporto tra questo diritto e il confliggente altro diritto di un familiare, cfr. R. Agostini – C. Cacaci, Diritto al segreto, diritto alla riservatezza, diritto all’anonimato del tossicodipendente. Generalità, in Riv. it. med. leg., 2006, p. 523 s.). Quando si tratta di interessi di natura non patrimoniale, l’idea che il minore possa esprimere personalmente il consenso al trattamento dei dati personali sembra trovare oggi una conferma nel reg. UE n. 2016/679 del 27 aprile 2016 relativo al trattamento dei dati personali. Nel considerando n. 38 può infatti leggersi che «il consenso del titolare della responsabilità genitoriale non dovrebbe essere necessario nel quadro dei servizi di prevenzione o di consulenza forniti direttamente a un minore»; un argomento a contrario viene poi dall’art. 8, co. 1 che invece richiede il compimento del sedicesimo anno quando il trattamento sia connesso all’«offerta diretta di servizi della società dell'informazione».
[35]Cfr. A.C. Moro, Manuale di diritto minorile, Bologna 2008, p. 354 s.
[36] D. Campbell, Mental health of children and young people ‘at risk in digital age’, in The Guardian (ed. online), 5 novembre 2014.
[37] Cfr. F. Finocchiaro, Del matrimonio, II, in Comm. c.c. Scialoja – Branca, Bologna - Roma 1993, p. 136 s. La questione della capacità matrimoniale del tossicodipendente è avvertita in modo speciale nell’ordinamento canonico, sia dalla prospettiva giuridica sia da quella pastorale, in relazione al can. 1095. Cfr. G. Barberini, Sull'applicabilità del can. 1095 C.J.C. al tossicodipendente, in Dir. eccl., 1985, p. 153 s.
[38] Finocchiaro, Del matrimonio, cit., p. 152.
[39]Trib. Reggio Emilia 15 dicembre 2009, in Fam. pers. e succ., 2010, p. 550con nota di A. Costanzo.
[40] Cfr. F. Tommaseo, Sulla crisi delle relazioni familiari per disturbi della personalità nella legislazione e nella giurisprudenza, in Fam. dir., 2014, p. 87.
[41] Cfr. S. Muggia, Rassegna di giurisprudenza su tossicodipendenza, spaccio e rapporto di lavoro (nota a Trib. Roma 22 ottobre 2006), in D & L, 2007, p. 519 s. In giurisprudenza è stato oggetto di esame anche il caso del licenziamento del lavoratore che, per soddisfare la spinta al gioco, aveva sottratto somme di denaro (Cass. 29 settembre 2015, n. 19307).
[42] Il concetto giuridico di abuso, in particolare per quando concerne gli stupefacenti, può essere identificato con quello socio-patologico di dipendenza. Cfr. E.V. Napoli, L’infermità di mente. L’interdizione. L’inabilitazione, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano 1991, p. 120 ss.
[43] Più circostanze hanno concorso a distaccare la previsione dalle situazioni della vita a cui è rivolta. Per un verso, nell’epoca recente l’ordinamento si dedica precipuamente alla dimensione degli interessi personali del soggetto dipendente (cfr, per un esame comparatistico, M. Gravelli, L’abuso di droga in Italia e in Europa in una prospettiva di diritto comparato, in Cass. pen., 1994, p. 489); per l’altro, rispetto agli interessi patrimoniali, che pure rimangono importanti, l’approccio non è più orientato all’esclusione, bensì muove dall’idea che «il diritto alla libertà negoziale si pone quale strumento terapeutico per soggetti come i tossicodipendenti, la cui psiche si trova in situazione di prostrazione per una sensazione di inutilità esistenziale» (ivi, p. 128). In questo orizzonte si pone il co. 1 dell’art. 427 c.c., introdotto dalla l. 9 gennaio 2004, n. 6, che permette al tribunale di autorizzare l’inabilitato a compiere personalmente alcuni atti di straordinaria amministrazione. Invero anche con riguardo al minore si può nettamente distinguere un processo di promozione della capacità di discernimento, sicché in una visione complessiva è stato notato da A. Nicolussi, Autonomia privata e diritti della persona, in Enc. dir., Ann., Milano, 2011, p. 149, come «il rango dei diritti della persona e il valore dell’autonomia hanno indotto a una rivisitazione del rigido discrimine tra capacità e incapacità di agire, alla ricerca di una disciplina che apra spazi di autodeterminazione, ove possibile, anche a questi soggetti».
[44] Nella casistica giurisprudenziale si rinviene che è stata disposta l’istituzione di un amministratore di sostegno a favore del soggetto tossicodipendente (Trib. Modena 8 febbraio 2006, in banca dati online DeJure), ludopatico (Trib. Varese 22 Novembre 2009, in Il caso.it), alcolista (Trib. Varese 20 giugno 2012, in Il caso.it). Negli ultimi due provvedimenti menzionati l’accento è sul compito dell’amministratore di favorire il recupero dalla condizione di dipendenza.
[45] Cfr. C. Cossu, La responsabilità e il danno cagionato dall’incapace (artt. 2046 – 2047), in Tratt. Bessone, Torino 2005, p. 203 s.; D.M.E. Bonomo, Infermità di mente e responsabilità civile, Milano 2012, p. 71.
[46] Con riguardo alle nuove dipendenze e in particolare alla ludopatia si riscontra un atteggiamento assai cauto sul fronte della responsabilità penale, venendo solo in rari casi esclusa l'imputabilità dell’agente. Cfr. R. Bianchetti, Gioco d’azzardo patologico e imputabilità, in Dir. pen. cont., 2014, p. 12; più recentemente si veda peraltro anche Cass. pen. 11 novembre 2015, n. 45156, in Giur. it., p. 446 s. con nota di. R. Bianchetti.
[47] Quando la dipendenza ha provocato un’infermità mentale, l’individuazione del soggetto tenuto alla sorveglianza è riconducibile al problema generale della sorveglianza della persona malata di mente dopo la l. n. 180/1978. In questa prospettiva emergono in primo luogo le comunità di cura e i familiari (cfr. A. Bregoli, Figure di sorveglianti dell’incapace dopo la l’avvento della legge 180, in Un altro diritto per il malato di mente, cit., p. 834 s.). Proprio questo punto è indicativo del limite della l. n. 180: l’abolizione del manicomio non è stata accompagnata da provvedimenti sociali di assistenza per l’infermo di mente e i suoi familiari. Così quanto alla questione del danno provocato dall’incapace psichico si è lasciato «che siano i privati ad aggiustarsi secondo i meccanismi della responsabilità civile... Si rivela così il senso ultimo della chiusura die manicomi non seguita dalla creazione di strutture alternative: un trasferimento dei costi dalla sfera giuridica pubblica a quella dei privati», C. Castronovo, La legge 180, la Costituzione e il dopo, in Un altro diritto per il malato di mente, cit., p. 215 s. Negli anni recenti si è rafforzata la consapevolezza che l’assistenza al malato e alla famiglia non può ridursi alla fase acuta della malattia con il trattamento obbligatorio; sono state e vengono create comunità residenziali per la cura della malattia mentale, a volte specificatamente dedicate al recupero degli stati di dipendenza, come quella descritta da E. Maura - M. Senini, Dipendenze patologiche, in Comunità terapeutiche, a cura di G. Giusto - C. Conforto - R. Antonello, Milano - Torino 2015, p. 129 s.
[48] L’art. 2047 c.c. fa riferimento alla situazione di incapacità di fatto, ovvero non presuppone un provvedimento di limitazione o privazione della capacità di agire.
[49] Altro problema del quale si è discusso riguarda l’applicabilità dell’art. 1227, co. 1 c.c. al creditore incapace. La giurisprudenza, dalla sentenza della Corte di Cassazione, s.u., 17 febbraio 1964, n. 351, assevera costantemente una soluzione favorevole.
[50]All’indomani della legge di riforma dei trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale, la regola dell’art. 591, co. 3 c.c. è stata proposta come unica causa di incapacità di testare per infermità psichica, espungendo l’interdizione per infermità di mente prevista dal co. 2 del medesimo articolo. Cfr. G. Bonilini, Il testamento dell’infermo di mente, in Un altro diritto per il malato di mente, cit., p. 514 c.c.
[51]Cfr. M. Martino, sub art. 591, in Codice delle successioni e donazioni, a cura di M. Sesta, I, Milano 201
Rusconi Carlo
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