The Justinian legislation of 18th October 532. The constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes: the examples of C. 3, 10, 3 e C. 8, 37 (3

La legislazione del 18 ottobre 532. Le constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes: gli esempi di C. 3, 10, 3 e C. 8, 37 (38), 15

23.10.2022

Fabiana Mattioli*

 

 

La legislazione del 18 ottobre 532.

Le constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes: gli esempi di C. 3, 10, 3 e C. 8, 37 (38), 15**

 

English title: The Justinian legislation of 18th October 532. The constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes: the examples of C. 3, 10, 3 e C. 8, 37 (38), 15

DOI: 10.26350/18277942_000092

 

Sommario: 1. Introduzione: la legislazione del 18 ottobre 532. 2. C. 3, 10, 3: una particolare fattispecie di pluris petitio quantitate. 3. C. 8, 37 (38), 15: la trasmissibilità ereditaria delle stipulationes in faciendo cui fosse apposta la clausola cum promissor moriebatur. 4. Il quadro conclusivo: l’ipotesi che alla data del 18 ottobre del 532 lo spoglio dei commentari ad Sabinum fosse concluso o si avviasse al completamento.

 

 

  1. Introduzione: la legislazione del 18 ottobre 532

 

Alcuni recenti sviluppi delle mie ricerche mi hanno indotto a rivolgere l’attenzione all’insieme delle costituzioni emanate dalla cancelleria giustinianea in data 18 ottobre 532. L’interesse dell’indagine è costituito dal fatto che in quella data deve ritenersi collocato l’ultimo ‘grappolo’ delle constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes[1], il cui studio risulta a mio avviso particolarmente interessante non solo per ricostruire gli specifici temi di intervento della cancelleria, ma soprattutto ai fini di meglio approfondire la questione dei tempi di spoglio dei materiali messi a profitto ai fini della redazione del Digesto[2].

Abbiamo a questo proposito di fronte un ampio gruppo di testi normativi che devono essere anzitutto suddivisi in due sottogruppi. Al primo appartengono quelle costituzioni cui, con ragionevole probabilità, può essere attribuita data certa. Si tratta di C. 3, 10, 3, C. 6, 20, 21, C. 6, 21, 18, C. 6, 31, 6, C. 6, 35, 12, C. 6, 37, 26, C. 6, 38, 5, C. 6, 49, 8, C. 6, 50, 19, C. 7, 72, 10, C. 8, 4, 11, C. 8, 10, 14 (11, 1), C. 8, 14 (15), 7, C. 8, 25 (26), 11, C. 8, 36 (37), 5, C. 8, 37 (38), 15 e di C. 9, 9, 35 (36)[3]. Al secondo quelle altre che invece possono essere eventualmente riportate alla stessa data pur essendo prive di subscriptio o, altrimenti, in forza di un’emendazione della subscriptio così come risultante dai manoscritti. Si tratta rispettivamente di C. 5, 4, 28, C. 7, 2, 15 e C. 7, 32, 12 (tutte prive di subscriptio)[4] e di C. 3, 34, 14, C. 5, 37, 28 e C. 6, 49, 7 (per cui si è invece ipotizzata una modificazione della subscriptio)[5].

Il tema della ricerca che mi sono prefissata di svolgere è più precisamente quello di individuare in concreto quali di queste costituzioni possano effettivamente considerarsi constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes e quali invece, pur coincidenti nella datazione, non possano invece essere considerate tali, cercando per le prime di indagare altresì le specifiche connessioni con il lavoro di spoglio dei materiali giurisprudenziali antichi utilizzati per la redazione della raccolta di iura. L’ampia mole di materiali ha peraltro imposto alla ricerca di procedere progressivamente e per gradi, metodo di lavoro che mi ha già permesso di prendere in considerazione separatamente C. 6, 38, 5 e di C. 8, 4, 11, due costituzioni con cui la cancelleria giustinianea intese rispondere ad alcuni quesiti posti dall’advocatio Illyriciana e che, benché in qualche modo a loro volta connesse con il lavoro di spoglio compiuto dalla commissione preposta da Triboniano alla redazione del Digesto, sono certamente da escludere dal novero delle constitutiones ad commodum[6].

 

2. C. 3, 10, 3: una particolare fattispecie di pluris petitio quantitate

 

In questo contributo è mia intenzione prendere invece in considerazione C. 3, 10, 3 e C. 8, 37 (38), 15, entrambe da ritenersi con ragionevole probabilità nel numero delle constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes, benché solo nella seconda si faccia un esplicito riferimento ai veteres[7], limitandosi la prima a segnalare la necessità di amputare le calliditates contrahentium messe in opera al fine di realizzare un’ipotesi aggravata di pluris petitio quantitate, rispetto alla quale si prevedeva il ritorno all’antica sanzione della perdita della lite, considerando evidentemente troppo tenue quella del triplo ormai prevista per regola generale dalla legislazione giustinianea[8]

Prendiamo le mosse proprio da questa costituzione con cui la cancelleria intendeva appunto sanzionare una fattispecie, particolarmente odiosa, di pluris petitio caratterizzata dal dolo. Essa è inserita dai compilatori come ultima nel titolo “de plus petitionibus” del Codice:

 

C. 3, 10, 3:Imp. Iustinianus A.Iohanni pp. Odiosas contrahentium calliditates amputare properantes censemus, ut, si quis certa quantitate sibimet debita super ampliore pecunia per dolum et machinationem cautionem exegerit et ad iudicium debitorem vocaverit, si quidem ante inchoatam litem calliditatis eum paeniteat et veritatem debiti confessus fuerit, nullo eum dispendio praegravari: sin autem et liti praebuit exordium et in certaminibus negotii permanens arguatur de adiecta falsi quantitate, non solum ea, sed etiam toto debito eum fraudari: transactionibus scilicet et secundis confessionibus, sive insinuatae sint sive non, etiam in hoc casu suam obtinentibus firmitatem: talibus etenim cautionibus hoc obicere non oportet.D. XV k. Nov. Constantinopoli post consulatum Lampadii et Orestis vv. cc. anno secundo.

 

La cancelleria, proclamando dunque di voler amputare quelle che definisce come odiosas calliditates di chi avesse convenuto in giudizio il debitore dopo aver ottenuto per dolum et machinationem delle cautiones per somme maggiori di quelle dovute così precostituendone la prova, stabilisce che qualora l’attore si fosse ravveduto ante litem inchoatam e avesse confessato l’entità minore del credito (si quidem ante inchoatam litem calliditatis eum paeniteat et veritatem debiti confessus fuerit) sarebbe andato esente da conseguenze in relazione al suo comportamento (nullo eum dispendio praegravari)[9]. Se invece il creditore non avesse mutato il tenore della domanda prima della litis contestatio (sin autem et liti praebuit exordium et in certaminibus negotii permanens arguatur de adiecta falsi quantitate) sarebbe incorso nell’antica sanzione della perdita della lite (non solum ea, sed etiam toto debito eum fraudari), dovendosi comunque ritenere valide al fine di tenerlo indenne dalle conseguenze negative così stabilite un’eventuale transazione o una secunda confessio, ne fosse o no avvenuta l’insinuatio (transactionibus scilicet et secundis confessionibus, sive insinuatae sint sive non, etiam in hoc casu suam obtinentibus firmitatem)[10]

La costituzione segna dunque, sia pure per un caso particolare, un ritorno al passato dopoché in precedenza le conseguenze della pluris petitio quantitate erano state limitate all’obbligo del pagamento del triplo del danno cagionato al convenuto. Il comportamento sanzionato è abbastanza chiaramente ricostruibile. Il creditore ha indotto la controparte a rilasciargli un documento attestante un debito di importo maggiore rispetto a quello effettivamente dovuto e si è avvalso nella redazione del libellus conventionis del documento così ottenuto. Se in un momento successivo, prima comunque della litis contestatio che coincideva con l’inizio del contraddittorio processuale formalizzato attraverso lo scambio della narratio e della contradictio, l’attore si fosse ravveduto e avesse ridotto la pretesa a quanto effettivamente dovutogli sarebbe andato esente da conseguenze, ma se invece avesse perseverato nella propria richiesta illegittima sarebbe stato sanzionato con la perdita definitiva della lite[11].  In un caso specifico di pluris petitio si stabiliva dunque una reviviscenza delle antiche conseguenze del plus petere, in un contesto in cui peraltro il meccanismo sanzionatorio non era semplicemente attivato dall’indebita maggiorazione della richiesta e dalla differenza fra il richiesto e quanto successivamente accertato (come avveniva nel caso della pluris petitio ‘ordinaria’ regolata da C. 3, 10, 2), quanto piuttosto dalla precostituzione di una prova – avvenuta attraverso la redazione di un documento attestante il falso – che valesse a dimostrare come vera l’illecita richiesta di un credito maggiorato[12].

Sebbene, come accennato, la costituzione non rientri fra quelle in cui nella stessa data si fanno riferimenti alle veteres leges il rapporto del nostro testo con il diritto antico risulta evidente. La pluris petitio dopo la duplice riforma di Zenone e di Giustiniano non comportava più per regola generale la perdita della lite e tuttavia questa conseguenza è qui riaffermata qualora la pluris petitio fosse aggravata da una documentazione falsa, appositamente preordinata alla maggiorazione della richiesta. Credo insomma plausibile ritenere che la soluzione adottata dalla cancelleria traesse lo spunto dalla disciplina della pluris petitio che i compilatori trovavano nei materiali messi a profitto per la redazione della raccolta di iura e che pure era stata superata dalle recenti riforme che avevano interessato la materia. È quindi a mio avviso ragionevole l’idea di ricercare l’occasione della nostra previsione nell’antica disciplina della pluris petitio che i compilatori trovavano nei materiali oggetto di spoglio, benché non risulti ravvisabile sul punto un contrasto di opinioni nella giurisprudenza. D’altra parte ciò avviene per altre constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes e non deve meravigliare che anche qui la lettura dei testi messi a profitto ai fini della redazione della raccolta di iura abbia fornito l’occasione per stabilire, sulla loro scorta, che, in un caso ritenuto particolarmente grave di pluris petitio, si tornasse alla più severa regola del diritto antico[13].

Dove avessero trovato uno spunto in questo senso non è peraltro facile da dire se si considera che praticamente nulla del materiale dell’antica giurisprudenza del Principato in relazione alle conseguenze della pluris petitio quantitate è conservato nel Digesto. Quello che sappiamo lo sappiamo dalle Istituzioni di Gaio e particolarmente da Gai. 4, 53 e ss., circostanza questa d’altra parte comprensibile, considerato il fatto che la riforma giustinianea introdotta da C. 3, 10, 2 aveva, come già rilevato, rideterminato su basi del tutto nuove le conseguenze della maggiorazione della richiesta. La scarsità di notizie a nostra disposizione non ci permette altra possibilità che quella di formulare mere congetture. Muovendoci dunque necessariamente in questo campo, credo si debba ritenere ragionevolmente improbabile che l’occasione della nostra costituzione possa essere scaturita dalla lettura di un qualche testo riconducibile alla pars Papiniana, mentre rimane ratione materiae astrattamente plausibile pensare a quella edittale o alla pars Sabiniana[14].

Nel caso della prima un ipotetico spunto si potrebbe forse individuare nell’editto de lite restituenda (E. 45) il cui commento era però collocato, secondo lo schema dell’editto, nei libri iniziali dei grandi commentari[15]. Tale circostanza, una volta ipotizzato che la nostra costituzione rientri fra quelle ad commodum proposti operis pertinentes, non troverebbe però adeguata spiegazione, considerato che essa fa parte dell’ultimo ‘grappolo’ che le riguarda e che lo spoglio dei commentari edittali era certamente giunto a un punto ben più avanzato alla data del 18 ottobre 532[16]. L’alternativa è dunque quella dei commentari ad Sabinum, rispetto ai quali Lenel ebbe a ipotizzare l’esistenza di una rubrica de iudiciis, di cui tuttavia ci sono conservati purtroppo un numero assai limitato di frammenti[17]. Si tratta evidentemente di una mera ipotesi, allo stato delle fonti priva di effettivi riscontri testuali, che però sembra avere il merito di armonizzare il contenuto della nostra costituzione con il percorso di spoglio dei materiali compiuto dai compilatori. Lo spunto potrebbe infatti essere derivato da un qualche luogo riscontrato in questa parte dei commentari ad Sabinum e più probabilmente o dal cinquantunesimo libro del commentario di Ulpiano o, eventualmente, dal tredicesimo di quello di Paolo (o ancora, con minore probabilità, dal ventinovesimo libro di Pomponio) e comunque si ricollegherebbe a una fase avanzata dei lavori della commissione, circostanza che si pone in sintonia con la progressione cronologica delle constitutiones ad commodum che si può ipotizzare con un ragionevole grado di attendibilità[18].

 

3. C. 8, 37 (38), 15: la trasmissibilità ereditaria delle stipulationes in faciendo cui fosse apposta la clausola cum promissor moriebatur

 

D’altra parte che, quanto ai grandi commentari al ius civile, fosse grosso modo quello appena indicato il punto cui era giunta la lettura dei materiali giurisprudenziali a ridosso della data del 18 ottobre 532, è testimoniato dall’altro testo che qui si è ritenuto di prendere in considerazione e la cui derivazione dalla lettura dei libri ad Sabinum non sembra poter essere messa in discussione. Mi riferisco a C. 8, 37 (38), 15, una costituzione inserita come ultima nel titolo “de contrahenda et committenda stipulatione” e volta ad ammettere esplicitamente la trasmissibilità ereditaria delle stipulationes in faciendo concepite cum promissor moriebatur[19], trasmissibilità del resto forse già ricavabile in via interpretativa da quanto in precedenza disposto in C. 8, 37 (38), 13, una decisio del 1° agosto del 530, con cui, in linea generale, si era prevista la trasmissibilità ereditaria di tutte le obbligazioni derivanti da stipulatio, indipendentemente dal fatto che esse consistessero in un dare, in un facere o avessero carattere misto(consistendo insieme in un dare e in un facere)[20]. Si tratta di una questione che doveva essere percepita come particolarmente problematica, in quanto, per ciò che si può evincere dal testo di entrambe le costituzioni, almeno alcuni dei veteres (la decisio faceva espressamente riferimento a veteris iuris altercationes) non avrebbero ammesso la trasmissibilità ereditaria delle stipulationes che avessero per oggetto un facere[21]:

 

C. 8, 37 (38), 15:Imp. Iustinianus A.Iohanni pp. Si quis spoponderat insulam, cum moriebatur, aedificare stipulatori, impossibilis veteribus videbatur huiusmodi stipulatio. sed nobis sensum contrahentium discutientibus veri simile esse videtur hoc inter eos actum, ut incipiat quidem contra morientem obligatio, immineat autem heredibus eius, donec ad effectum perducatur.nemo enim ita stultus invenitur, ut tali animo faceret stipulationem, ut putaret posse tantum aedificium in uno momento horae extollere, vel eum qui moritur talem habere sensum, quod ipse sufficiet ad huiusmodi operis completionem. 1.Sancimus itaque, si quid tale evenerit, heredes teneri, ut factum, quod mortis tempore facere promisit, hoc heredes eius adimpleant quasi speciali heredis mentione habita, licet hoc minime fuerit expressum. quemadmodum enim, si in dando fuerit stipulatio, et contra heredes transmittebatur, ita et si in faciendo est, licet in mortis tempus colligatur, attamen ad similitudinem in dando conceptae stipulationis et heredes obligari, ut non discrepet factum a datione, sed sit lex nostra per omnia sibi consentanea. 2.Quod et in legatis simili modo relictis observari censemus.D. XV k. Nov. Constantinopoli post consulatum Lampadii et Orestis vv. cc. anno secundo[22].

 

Come precisa l’incipit della costituzione sarebbe stata inammissibile secondo gli antichi (impossibilis veteribus videbatur) la stipulatio in cui qualcuno si fosse impegnato con la clausola cum moriebatur alla costruzione di un opus (in concreto il riferimento è alla costruzione di un’insula)[23]. Peraltro la cancelleria, sempre nel principium, enuncia immediatamente la propria opinione divergente, affermando piuttosto che, indagando correttamente l’effettiva volontà dei contraenti, l’obbligazione gravante contra morientem si doveva invece trasferire ai suoi eredi (sed nobis sensum contrahentium discutientibus veri simile esse videtur hoc inter eos actum, ut incipiat quidem contra morientem obligatio, immineat autem heredibus eius, donec ad effectum perducatur). La soluzione così prospettata veniva in particolare argomentata dal fatto che nessuno avrebbe potuto ragionevolmente pensare (nemo enim ita stultus invenitur) di concludere una stipulazione ritenendo che l’opera promessa potesse essere realizzata in forma istantanea (ut putaret posse tantum aedificium in uno momento horae extollere) e che ciò potesse fra l’altro avvenire ad opera di chi era sul punto di morire (vel eum qui moritur talem habere sensum, quod ipse sufficiet ad huiusmodi operis completione) [24].

Si stabiliva dunque nel par. 1 che, nel caso di stipulationes concepite cum promissor moriebatur (così come in quelle concepite cum promissor morietur), gli eredi fossero tenuti a fare quanto promesso (Sancimus itaque… heredes teneri, ut factum, quod mortis tempore facere promisit, hoc heredes eius adimpleant) e ciò indipendentemente dalla circostanza che il promittente ne avesse fatto o meno esplicita menzione dicendo che l’obbligazione sarebbe ricaduta su di loro (quasi speciali heredis mentione habita, licet hoc minime fuerit expressum)[25]. La disposizione, come precisa ulteriormente la cancelleria, avrebbe consentito di armonizzare anche sotto questo profilo la disciplina delle stipulationes in dando e di quelle in faciendo (quemadmodum enim, si in dando fuerit stipulatio, et contra heredes transmittebatur, ita et si in faciendo est, licet in mortis tempus colligatur), dovendo avvenire ad opera degli eredi nel caso delle prime il trasferimento della cosa, nel caso delle seconde la sua stessa realizzazione (attamen ad similitudinem in dando conceptae stipulationis et heredes obligari, ut non discrepet factum a datione, sed sit lex nostra per omnia sibi consentanea)[26]. Il testo si conclude con il par. 2 in cui si stabilisce che la stessa regola si sarebbe dovuta applicare et in legatis simili modo relictis, vale a dire nel caso in cui un analogo facere fosse previsto non in una stipulatio, ma piuttosto in una disposizione mortis causa e specificamente in un legato[27]. La costituzione ritornava dunque su un tema già affrontato dalla legislazione giustinianea negli anni immediatamente precedenti. Lo faceva per precisare da un lato l’ammissibilità dell’apposizione della clausola cum promissor moriebatur, sia alle stipulationes in dando che in quelle in faciendo, dall’altro per ribadirne la trasmissibilità mortis causa, peraltro già in precedenza stabilita dalla decisio emanata il 1° ottobre 530 (si tratta della già citata C. 8, 37 [38], 13) con cui la si era ammessa in generale per tutte le obbligazioni derivanti da stipulazione. Ciò nonostante la questione richiedeva evidentemente, almeno agli occhi dei compilatori, un ulteriore intervento chiarificatore[28].

Ma da dove era stato tratto lo spunto di questo nuovo intervento dopoché l’intera materia era già stata oggetto di un’ampia rivisitazione? In questo caso l’individuazione dell’occasio legis sembra non porre insormontabili difficoltà. A questo proposito si deve infatti ragionevolmente ritenere che lo spunto per l’intervento della cancelleria sia stato determinato dalla lettura dei commentari ad Sabinum, nell’ampia parte in cui questi si occupavano delle obbligazioni verbali. Si tratta più precisamente dei libri dal quarantacinquesimo al cinquantesimo del commentario ulpianeo, dell’undicesimo e del dodicesimo di quello di Paolo e ancora di quelli dal ventiquattresimo al ventottesimo (o quantomeno al ventisettesimo) del commentario di Pomponio[29].

Se peraltro nel caso di C. 3, 10, 3 la stessa derivazione dai commentari ad Sabinum deve ritenersi, come abbiamo visto, meramente congetturale, qui non solo la derivazione dai commentari al ius civile appare ampiamente probabile, ma, andando oltre, si può forse anche individuare il contesto che può aver costituito per i compilatori l’occasione per suggerire l’intervento della cancelleria. Soprattutto nel dodicesimo libro del commentario di Paolo vi sono infatti vari testi che riguardano le stipulazioni sotto il profilo dell’oggetto dell’obbligazione e tra questi, tutti inseriti nel titolo “de verborum obligationibus” della raccolta di iura, D. 45, 1, 46,1 sembra il più vicino tematicamente alle problematiche affrontate in C. 8, 37 (38), 15, riferendosi in particolare alle stipulationes in faciendo cui fosse apposta la clausola cum morieris[30]:  

 

D. 45, 1, 46,1(Paul.12 ad Sab.):Id autem, quod in facto est, in mortis tempus conferri non potest, veluti: ‘cum morieris, Alexandriam venire spondes?’

 

Il testo è forse il più chiaro testimone dell’atteggiamento dei giuristi nei confronti delle obbligazioni da stipulazione consistenti in un facere infungibile sottoposte alla clausola cum moriar o cum morieris (ammesse invece senza particolari difficoltà nelle stipulationes in dando) ed è possibile che i compilatori di fronte alla sua rilettura abbiano sollecitato la cancelleria a intervenire affermando l’efficacia nei confronti degli eredi anche della clausola cum promissor moriebatur che, per la sua specificità, si faticava forse a far rientrare nella disposizione generale di C. 8, 37 (38), 13, con ciò creando fra l’altro, con riferimento al nostro tema, un singolare intreccio fra decisiones e constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes[31]. Peraltro il testo paolino venne conservato nella raccolta di iura probabilmente per evidenziare che talvolta la stipulazione cui fossero apposte le clausole ormai ammesse rimaneva, per usare la terminologia di C. 8, 37 (38), 15, impossibilis. Ciò evidentemente avveniva quando il factum dedotto nell’obbligazione si caratterizzava per sua stessa natura come assolutamente infungibile, carattere questo che ne determinava inevitabilmente l’oggettiva inefficacia nei confronti degli eredi perché appunto rientrante in ciò che ab alio impleri non possit, come nell’esempio, evidentemente di scuola, prospettato da Paolo e riguardante l’impegno di recarsi ad Alessandria al momento della morte[32].

 

4. Il quadro conclusivo: l’ipotesi che alla data del 18 ottobre del 532 lo spoglio dei commentari ad Sabinum fosse concluso o si avviasse al completamento

 

Il quadro in questi termini sembra comporsi e anzi la connessione fra due testi apparentemente lontani come quelli di C. 3, 10, 3 e di C. 8, 37 (38), 15 pare alla fine potersi scorgere. Intendo dire che, sempre che si ammetta che la prima costituzione rientrasse fra le constitutiones ad commodum, il collegamento potrebbe essere costituito dal fatto che in entrambi i casi (sia pure con un livello di diversa evidenza) le questioni affrontate derivavano dalla lettura dei commentari ad Sabinum, lettura che alla data del 18 ottobre del 532 era ormai avviata al completamento o, forse, era già terminata[33]. Ci troviamo dunque di fronte a una risultanza da porre a confronto con quelle altre che documentano una situazione analoga per quanto riguarda il lavoro di spoglio dei commentari ad edictum e che attende di essere pienamente confermata dall’analisi, ancora da compiere, sulle altre constitutiones ad commodum emanate nella stessa data del 18 ottobre 532[34]. Già ora si rafforza però l’idea che la lettura dei grandi commentari fosse a quella data ormai compiuta e che quindi il dialogo fra i compilatori e la cancelleria (a quel tempo non più diretta da Triboniano) si sia in quel momento arrestato perché il compito delle constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes era giunto a compimento e la loro funzione era ormai esaurita.

 

Abstract: This research, as part of a broader work devoted to the constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes issued on 18th October 532, is directed to the analysis of C. 3, 10, 3 and C. 8, 37 (38), 15. In particular, considering it plausible that both fall precisely within the last 'cluster' of constitutiones ad commodum, the author attempts to identify the contexts in which, as part of the perusal of ancient jurisprudential materials, the compilers and chancellery may have drawn the cue to make the two normative interventions. The hypothesis is that both constitutions derive from the reading of the libri ad Sabinum and may show that by the date of 18th October 532 the probing work done by the compilers on the commentaries devoted to ius civile, as indeed also that of the great commentaries ad edictum, was nearing completion or, perhaps, had already been finished.

 

Key words: Justinian, legislation of 18th October 532, constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes, drafting of the Digest, commentaries ad Sabinum.

 

 

 


* Università di Bologna (fabiana.mattioli@unibo.it).

** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] Cfr. sul punto S. Di Maria, La cancelleria imperiale e i giuristi classici: ‘reverentia antiquitatis’ e nuove prospettive nella legislazione giustinianea del Codice, Bologna, 2010, p. 153 ss. e nt. 139. Della questione mi sono già brevemente occupata in Un altro esempio di capita geminata: D. 39, 5, 20, 1 (Marcell. 22 dig.) e D. 35, 2, 46 (Ulp. 76 ad ed.) e la compilazione del Digesto, in Κοινωνία 44/II (2020), p. 1063 ss., nonché, più ampiamente, in La legislazione giustinianea del 18 ottobre 532. I rapporti fra la cancelleria e il mondo della pratica: i quesiti delle advocationes e la compilazione del Digesto, in AG on line 1/2 (2022), p. 1 ss.

[2] Sotto questo profilo lo studio delle constitutiones ad commodum propositi operis pertinenentes può peraltro essere di estremo interesse anche per meglio approfondire le indagini sul metodo di compilazione, se solo si pensi al fatto che, come risulta dalle ricerche fino ad ora compiute – cfr. C. Longo, Contributo alla storia della formazione delle Pandette, in BIDR 19 (1907), p. 132 ss.; P. de Francisci, Nuovi studi intorno alla legislazione giustinianea durante la compilazione delle Pandette, in BIDR 22 (1910), p. 155 ss.; BIDR 23 (1911), p. 39 ss. e p. 186 ss.; BIDR 27 (1915), p. 5 ss. –, le constitutiones ad commodum prendono spunto da questioni che i compilatori ravvisavano in tutte e tre le masse individuate da Bluhme, benché si possa riscontrare una prevalenza, che appare crescente nel progredire dello spoglio, delle costituzioni riferibili a materiali inseriti nella pars Sabiniana o nella pars edictalis. Sul punto v. già Mattioli, La legislazione giustinianea del 18 ottobre 532. I rapporti fra la cancelleria e il mondo della pratica: i quesiti delle advocationes e la compilazione del Digesto, cit., p. 2, nt. 3 e p. 28 e s. e nt. 45.

[3] Per tutte la subscriptio è XV K. Nov. post consulatum Lampadii et Orestis vv. cc. anno secundo. Piccole incongruenze nelle subscriptiones riportate dai manoscritti riguardano C. 3, 10, 3, C. 8, 4, 11, C. 8, 10, 14 (11, 1) e C. 9, 9, 35 (36), cfr. P. Krüger, editio maior, ad hh. ll. (cfr. anche, nelle Appendices dell’editio maior, Index constitutionum ad temporis ordinem redactus, p. 48, che nei casi indicati – insieme agli altri qui segnalati infra a nt. 5 – inserisce una stellula). Per quanto riguarda C. 8, 10, 14 (11, 1) e C. 9, 9, 35 (36) v. anche lo stesso P. Krüger, Über die Zeitfolge der im Justinianischen Codex enthaltenen Constitutionen Justinians, in Zeitschrift für Rechtsgeschichte 11 (1873), p. 181.

[4] Sono tre costituzioni tutte datate al 18 ottobre 532 da Di Maria, La cancelleria imperiale e i giuristi classici: ‘reverentia antiquitatis’ e nuove prospettive nella legislazione giustinianea del Codice, cit., p. 150 ss., p. 156 ss., p. 165 ss., p. 183. Si tratta in tutti e tre i casi di costituzioni prive appunto di subscriptio, ma ritenute genericamente databili al 531-532 perché indirizzate a Giovanni di Cappadocia nella sua qualità di Prefetto del pretorio. Sulla cronologia delle prefetture di Giovanni di Cappadocia v. per tutti J. R. Martindale, v. Ioannes 11, in The Prosopography of the Later Roman Empire, III B (A.D. 527-641), Cambridge, 1992, p. 628 ss. (quanto al periodo del 532 in cui Giovanni venne sostituito da Foca v. lo stesso Martindale, op. cit., p. 1473).

[5] Quanto a C. 3, 34, 14 e a C. 5, 37, 28 cfr., sia pur dubitativamente, Krüger, editio maior, rispettivamente, p. 284, nt. 1, p. 475, nt. 2 (sul punto v. già, nello stesso senso, Über die Zeitfolge der im Justinianischen Codex enthaltenen Constitutionen Justinians, cit., p. 180), seguito in entrambi i casi da Di Maria, La cancelleria imperiale e i giuristi classici: ‘reverentia antiquitatis’ e nuove prospettive nella legislazione giustinianea del Codice, cit., rispettivamente, p. 162 ss. e p. 183, p. 155, nt. 140. Più incerto lo stesso Krüger, editio maior, p. 594, nt. 1 (cfr. anche Über die Zeitfolge der im Justinianischen Codex enthaltenen Constitutionen Justinians, cit., p. 178) per quanto riguarda C. 6, 49, 7 per cui si propongono alternativamente le date del 18 ottobre 531 e del 18 ottobre del 532 (cfr. anche Index constitutionum ad temporis ordinem redactus, cit., p. 48). Che la costituzione sia però da datare al 531 è sostenuto – a mio avviso del tutto opportunamente – dalla migliore letteratura, cfr. Di Maria, op. cit., p. 134 ss. e in specie p. 135, nt. 103 (per le indicazioni della bibliografia precedente).

[6] Cfr. La legislazione giustinianea del 18 ottobre 532. I rapporti fra la cancelleria e il mondo della pratica: i quesiti delle advocationes e la compilazione del Digesto, cit., in specie p. 30 e s. Su di esse, con particolare riferimento al confronto fra advocationes e cancelleria, cfr. R. Bonini, ‘Interrogationes’ forensi e attività legislativa giustinianea, in Ricerche di diritto giustinianeo, Milano, 1968 (rist. 1990), p. 23 ss. e p. 46 ss. (lavoro pubblicato in precedenza anche in SDHI 33 [1967], p. 279 ss.). Solo una breve trattazione è in J. Arias Ramos, ‘Advocati’ y ‘collegia advocatorum’ en la actividad legislativa justinianea, in Homenaje a D. Nicolás Pérez Serrano, I, Madrid, 1959, p. 56 e s. e p. 57 e s.; le cita K.-H. Schindler, Justinians Haltung zur Klassik. Versuch einer Darstellung an Hand seiner Kontroversen entscheidenden Konstitutionen, Köln-Graz, 1966, p. 66 e s., ma semplicemente per escluderle dal proprio raggio di indagine in quanto appunto ritenute destinate a risolvere questioni sorte nella prassi dell’epoca.

[7] Cfr. C. 8, 37 (38), 15 pr.; …impossibilis veteribus videbatur huiusmodi stipulatio. sed nobis…; il riferimento ai veteres, all’antiquitas, ai legum conditores, alle veteres (o antiquae) leges e alle dubitationes e alle ambiguitates che ne derivavano è assai frequente nelle costituzioni certamente databili al 18 ottobre 532, da considerarsi con ogni probabilità constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes: cfr. C. 6, 21, 18: …antiquis legibus…; C. 6, 31, 6 pr.: …quod et antiquitas observabat; C. 6, 35, 12 pr.: Talis de antiquo iure dubietas…; …Veteres enim certum non faciunt…; C. 6, 37, 26 pr.: Illud, quod… a legum conditoribus definitum est…; C. 6, 50, 19: …quod veteribus legibus in ambiguitatem deductum est…; C. 7, 72. 10 pr.: Cum apud veteres quaestionem ortam invenimus…; C. 8, 10, 14 (11, 1) pr.: De operis novi nuntiatione quandam antiquis ortam fuisse dubitationem nostra cognovit tranquillitas…; C. 8, 25, 11, 1: In hoc etenim casu diversae sententiae legum prudentibus habitae sunt…; C. 9, 9, 35 (36): pr.: …legum conditores…; par. 2: Nobis vero…; par. 3: Sancimus itaque… Il fatto che la stessa terminologia non figuri in C. 3, 10, 3 non ne esclude di per sé l’appartenenza alle constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes semplicemente perché il processo di massimazione sicuramente subito dai nostri testi al momento dell’inserimento nel secondo Codice può benissimo aver fatto venir meno gli eventuali indici formali tipici di tale gruppo di costituzioni. Intendo dire che la presenza di tali indici costituisce ragionevole prova dell’appartenenza alle constitutiones ad commodum, ma la loro assenza, non essendoci pervenuti i testi nella loro estensione originaria, non dimostra il contrario.

[8] Il nuovo regime della pluris petitio era da attribuire in parte alla costituzione di Zenone (ricostruita attraverso Bas. 7, 6, 21 e forse databile al 487) originariamente riprodotta in C. 3, 10, 1 (v. anche I. 4, 6, 33e e I. 4, 13, 10 [9]) che aveva previsto una nuova disciplina della pluris petitio tempore e in parte alla costituzione giustinianea (ma v. anche I. 4, 6, 24 e I. 4, 6, 33e) collocata dai compilatori in C. 3, 10, 2 (a sua volta ricostruita attraverso Bas. 7, 6, 22 e che in I. 4, 6, 24 si dice inserita nel primo Codice) che riguardava specificamente la pluris petitio quantitate. Sul punto v. G. Provera, La pluris petitio nel processo romano, II, La cognitio extra ordinem, Torino, 1960, p. 80 ss.; Id., Lezioni sul processo civile giustinianeo, I-II, Torino, 1989, p. 220 ss.. Cfr. anche U. Zilletti, Studi sul processo civile giustinianeo, Milano, 1965,  p. 151 ss. e G. Luchetti, La legislazione imperiale nelle Istituzioni di Giustiniano, Milano, 1990, p. 517 ss. e p. 530 ss. A quest’ultimo proposito si era appunto stabilito che l’attore che avesse richiesto più del dovuto dovesse risarcire il triplo di ogni pregiudizio economico cagionato alla controparte (in questo senso la letteratura appena citata, la cui ricostruzione del contenuto della riforma introdotta da C. 3, 10, 2 mi sembra nel complesso di dover condividere). Peraltro, sulla differenza di contenuto fra C. 3, 10, 2 e quanto riferito invece in I. 4, 6, 24 con riferimento al fatto che in quest’ultimo testo l’azione in triplum risulta espressamente riferita all’entità delle sole sportulae pagate all’exsecutor per la maggiorazione della pretesa, v. anche F. Sitzia, Su una costituzione di Giustiniano in tema di sportulae, in BIDR 75 (1972), p. 221 ss., che al contrario propende per l’idea che la costituzione prevedesse la sanzione del triplo con riferimento alla sola maggiorazione delle sportulae (prospettando quindi in questo senso un’interpretazione restrittiva del contenuto della riforma). Diversamente tuttavia Zilletti, op. cit., p. 153, nt. 98 e Luchetti, op. cit., p. 523 e nt. 78, cui in particolare rinvio per un tentativo di conciliazione dei testi, laddove quest’ultimo autore ipotizza che, a differenza di quanto comunemente ritenuto, C. 3, 10, 2 e C. 3, 2, 5 non facessero in realtà parte dello stesso contesto normativo (essendo la prima inserita nel primo Codice e la seconda databile invece al 530, v. Luchetti, op. cit., p. 526, nt. 83) e che la costituzione riassunta in C. 3, 10, 2 prevedesse nel testo originario non solo la sanzione del triplo in relazione alla maggiorazione delle sportulae, ma anche la generalizzazione della stessa sanzione a ogni ulteriore danno cagionato dalla maggiorazione della pretesa (in questo quadro il complessivo contenuto della riforma sarebbe testimoniato oltre che dal testo di C. 3, 10, 2, anche da quanto affermato in I. 4, 6, 33e, mentre il riferimento alla maggiorazione delle sportulae in I. 4, 6, 24 avrebbe carattere esemplificativo, riferendosi a una sola parte del contenuto della riforma che si dice inserita già nel primo Codice).

[9]Secondo un orientamento autorevolmente condiviso in letteratura l’espressione ante inchoatam litem va riferita alla litis contestatio e quindi a un momento a essa precedente, v. a questo proposito le osservazioni di Provera, La pluris petitio nel processo romano, II, La cognitio extra ordinem, cit., in specie p. 98 e nt. 47; sul punto in sintesi, successivamente, lo stesso Provera, Lezioni sul processo civile giustinianeo, I-II, cit., p. 227. Nello stesso senso v. altresì Zilletti, Studi sul processo civile giustinianeo, cit., p. 154 e nt. 102.

[10] Il testo intende qui richiamare situazioni in cui risultava documentata in sede stragiudiziale una diversa entità del credito attraverso una transazione o per la redazione da parte del debitore di un secondo documento (e quindi di una secunda cautio) che ne attestasse la corretta entità dopo che, in virtù della documentazione fraudolentemente ottenuta in precedenza, ne era stata indicata una maggiorata nel libellus conventionis. La secunda confessio aveva dunque in questo caso la funzione di escludere, ove prodotta in giudizio, ogni rilevanza del documento ottenuto in precedenza, sul punto, quanto alle possibili funzioni della secunda confessio, v. in particolare le osservazioni di E. Levy, Die querela non numeratae pecuniae, in ZSS 70 (1953), p. 245. L’espressione non solum ea, sed etiam toto debito eum fraudari è chiaramente riferita al fatto che il creditore non solo non avrebbe ottenuto il credito maggiorato richiesto, ma avrebbe perso la lite come è attestato per la procedura formulare e comunque per il diritto precedente alla riforma giustinianea da quanto riferito in Gai. 4, 53: Si quis intentione plus conplexus fuerit, causa cadit, id est rem perdit, nec a praetore in integrum restituitur, exceptis quibusdam casibus, in quibus…… praetor non patitur…

[11] Sulle caratteristiche della litis contestatio giustinianea, sulla sua bilateralità e sulla sua coincidenza con l’inizio del contraddittorio processuale formalizzato attraverso lo scambio della narratio e della contradictio v. per tutti la discussione in Provera, La pluris petitio nel processo romano, II, La cognitio extra ordinem, cit., p. 98 e s. e nt. 47 (ed ivi indicazioni della letteratura precedente, anche con riferimento alla diversa opinione di P. Collinet, La procédure par libelle, Paris, 1932, p. 215, che la ricollega alla semplice narratio dell’attore, ma diversamente già E. Balogh, Beiträge zum Justinianischen Libellprozess, in Studi in Onore di S. Riccobono nel XL Anno del suo insegnamento,II, Palermo, 1936, p. 462 ss., con ampio resoconto della letteratura precedente). Allo stesso Provera, loc. ult. cit. rinvio anche per la definizione della scansione temporale del processo giustinianeo secondo la successione di postulatio simplex, conventio, editio actionis stragiudiziale, litis contestatio (caratterizzata appunto dall’instaurazione del contraddittorio orale che avveniva appunto con la narratio dell’attore e la contradictio del convenuto).

[12] Si deve aggiungere che sotto questo profilo la fattispecie considerata da C. 3. 10, 3 si allontanava in maniera significativa dalla situazione tipica del plus petere cui si riferiva C. 3, 10, 2, laddove si imponeva all’autore della pluris petitio di risarcire in triplum il danno cagionato al convenuto. La formulazione di C. 3, 10, 2 sembra infatti configurare l’illecito processuale del plus petere come semplicemente caratterizzato dalla discrepanza fra quanto richiesto e quanto accertato nella successiva pronuncia giudiziale, prescindendo dunque, ai fini dell’irrogazione della sanzione, da ogni indagine sull’elemento psicologico dell’attore (v. a questo proposito Zilletti, Studi sul processo civile giustinianeo, cit., p. 153 e nt. 99 e Luchetti, La legislazione imperiale nelle Istituzioni di Giustiniano, cit., p. 522 e nt. 75, anche con riferimento a I. 4, 6, 24 e I. 4, 6, 33e), circostanza questa che mette in dubbio la stessa possibilità di sfuggire alla sanzione nel caso in cui l’attore potesse dimostrare, come nel diritto previgente, che la pluris petitio nella formulazione della domanda fosse stata determinata da un iustus error. Ciò rilevato, va aggiunto che secondo Zilletti, op. cit., p. 154 ss., si dovrebbe ritenere che il ricorso alla confessio al fine escludere il rischio di conseguenze negative per l’attore e la connessa modificabilità della pretesa fino all’inizio del contraddittorio orale dovesse essere concessa anche per ipotesi di minore gravità e quindi fosse o no ravvisabile nel plus petere un comportamento doloso dell’attore (e pertanto nel caso di pluris petitio ‘ordinaria’). Tuttavia diversamente – e a mio avviso a ragione – Sitzia, Su una costituzione di Giustiniano in tema di sportulae, cit., p. 231, nt. 32, sottolinea che il ripensamento dell’attore non avrebbe comunque potuto mandare l’attore esente dalla sanzione in triplum prevista da C. 3. 10, 2 per aver cagionato la maggiorazione delle sportulae pagate dal convenuto.

[13]Anche in altri casi le constitutiones ad commodum sembrano porsi in un rapporto indiretto con la compilazione della raccolta di iura nel senso che lo spoglio dei materiali dell’antica giurisprudenza aveva prestato l’occasione alla cancelleria per intervenire al fine di dare coerenza e completare il regime giuridico vigente e non piuttosto con riguardo a questioni che erano oggetto di specifiche controversie. È il caso di C. 1, 3, 49 (50), C. 1, 5, 22, C. 3, 28, 37 e C. 6, 22, 12 nel blocco di constitutiones ad commodum emanate il 1° settembre del 531 (cfr. de Francisci, Nuovi studi intorno alla legislazione giustinianea durante la compilazione delle Pandette, in BIDR 23 [1911], cit., in specie p. 239 e p. 242)  e ancora di C. 1, 4, 31, C. 7, 31, 1, e C. 7, 40, 2 e 3 nel gruppo databile al 18 ottobre 531 (cfr. de Francisci, Nuovi studi intorno alla legislazione giustinianea durante la compilazione delle Pandette, in BIDR 27 [1915], cit., p. 37 ss.).

[14] Quanto appena affermato merita una precisazione. Le opere casistiche, per la loro stessa natura, non presentavano una trattazione organica dei temi trattati (e il caso qui considerato non sfugge alla regola) e quindi erano meno adatte a fornire spunti di intervento ai compilatori e alla cancelleria per intervenire con l’emanazione di constitutiones ad commodum, circostanza che del resto trova conferma nei dati a nostra conoscenza. Per la prevalenza dei collegamenti delle constitutiones ad commodum con la pars edictalis o con quella Sabiniana, piuttosto che con quella Papiniana, con crescente evidenza con il procedere dello spoglio dei materiali messi a profitto per la redazione della raccolta di iura, v. quanto da me osservato nel lavoro ricordato supra, nt. 2.

[15] Cfr. O. Lenel, Das Edictum Perpetuum. Ein Versuch zu seiner Wiederherstellung3, Leipzig, 1927 (rist. Aalen, 1956, 1974 e 1988), p. 124 e s., che riferisce l’editto a una serie di ipotesi in cui si concedeva appunto la restitutio della lite, compresi alcuni casi in cui si reintegrava nella possibilità di agire l’attore che fosse appunto incorso in una pluris petitio che, come noto, di norma comportava come conseguenza, per l’effetto preclusivo della litis contestatio, oltre che la perdita della lite anche la perdita dell’azione e quindi della possibilità di reiterare la propria richiesta in giudizio. L’editto in questione era preso in considerazione nel tredicesimo libro del commentario ulpianeo e nel dodicesimo di quello paolino. Quanto alla trattazione paolina dell’editto qui considerato, v. anche, più in generale, con riferimento alle oscillazioni di Lenel nel definirne la rubrica, I. Pontoriero, Commento ai testi. Libro XII, in G. Luchetti et alii, Iulius Paulus. Ad edictum libri IV-XVI, Roma-Bristol, 2022, p. 235 ss.

[16] In questo senso v. de Francisci, Nuovi studi intorno alla legislazione giustinianea durante la compilazione delle Pandette, in BIDR 27 (1915), cit., p. 37 ss., ove si riconnette al sedicesimo libro del commentario ulpianeo all’editto la costituzione conservata in C. 6, 49, 7 che deve ritenersi (v. supra, nt. 5) del 18 ottobre del 531, ipotizzando altresì che a quella data lo spoglio dei materiali fosse giunto al diciassettesimo libro di Ulpiano e al ventunesimo di Paolo (ibidem, p. 43). Certo, si è detto che non si può escludere che qualche intervento sia stato rimandato e che quindi le constitutiones ad commodum potrebbero non seguire sempre rigidamente la progressione dello spoglio (cfr. de Francisci, op. ult. cit., p. 54), ma il fatto che già un anno prima del 18 ottobre del 532 nella lettura dei materiali giurisprudenziali si fosse abbondantemente superato il luogo in cui era collocata la trattazione dell’editto de lite restituenda induce a escludere che possa essere stato lo spoglio dei libri ad edictum ad aver sollecitato l’intervento della cancelleria.  

[17] Sul punto v. O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, Lipsiae, 1889 (rist. Graz, 1960 e Roma, 2000), c. 137, Pomp. 739-742 e c. 1197, Ulp. 2983-2991, nonché O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, Lipsiae, 1889 (rist. Graz, 1960 e Roma, 2000), cc. 1286-1287, Paul. 1854-1859, ove in particolare si precisa (c. 1286, nt. 3) che i frammenti conservati sembrano riguardare in prevalenza le stipulationes praetoriae e specificamente la cautio iudicatum solvi e la cautio pro praede litis et vindiciarum, circostanza che ricollegherebbe tale trattazione a quella che immediatamente la precede, relativa alle obbligazioni verbali. Sul punto, per la collocazione della trattazione de iudiciis nei commentari ad Sabinum e per il rapporto di contiguità con quella della stipulatio, v. anche Ad Sabinum librorum rubricarum index, in Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., c. 1258. 

[18] In questo senso il nostro testo testimonierebbe anzi che i compilatori erano giunti al termine della lettura del commentario ulpianeo (la cui trattazione si interrompeva, come sappiamo, proprio con il cinquantunesimo libro) e comunque verso la conclusione dello spoglio dei commentari ad Sabinum, essendo appunto giunti – sempre che la congettura qui formulata appaia condivisibile – al tredicesimo libro (su un totale di sedici) del commentario di Paolo e, corrispondentemente, al ventinovesimo (su un totale di trentacinque o trentasei) di quello di Pomponio.

[19] Dalla formulazione della clausola e in particolare dall’uso dell’imperfetto (cum moriebatur) sembrerebbe potersi evincere che la costituzione riguardasse specificamente il caso in cui l’impegno fosse stato assunto proprio al momento della morte e non in precedenza, riferendo tuttavia l’obbligo della prestazione al momento successivo in cui la morte sarebbe avvenuta (cum morietur), sul punto v. Th. Finkenauer, Vererblichkeit und Drittwirkungen der Stipulation im klassischen römischen Recht, Tübingen, 2010, p. 45, nt. 59.

[20] C. 8, 37 (38), 13: Imp. Iustinianus A. Iuliano pp. Veteris iuris altercationes decidentes generaliter sancimus omnem stipulationem, sive in dando sive in faciendo sive mixta ex dando et faciendo inveniatur, et ad heredes et contra heredes transmitti, sive specialis heredum fiat mentio sive non: cur enim, quod in principalibus personis iustum est, non ad heredes et adversus eos transmittatur? 1.Et sic existimentur huiusmodi stipulationes, quasi tantummodo in dandum fuerant conceptae, cum nihilo minus et heredes factum possint adimplere: illa subtili et supervacua scrupulositate explosa, per quam putabant non esse possibile factum ab alio compleri, quod alii impositum est. 2. Et quare, cum paene similis omnium natura est, non et facta omnes vel plus vel paulo minus adimplere possint, ne ex huiusmodi subtilitate cadant hominum voluntates?  D. k. Aug. Constantinopoli Lampadio et Oreste vv. cc. conss. La costituzione appartiene al primo gruppo di decisiones, datato appunto al 1° agosto 530. Su di essa, nella migliore letteratura, Schindler, Justinians Haltung zur Klassik. Versuch einer Darstellung an Hand seiner Kontroversen entscheidenden Konstitutionen, cit., p. 305 ss., nonché M. Varvaro, Contributo allo studio delle Quinquaginta decisiones, in AUPA 46 (2000), in specie p. 421, nt. 129. Tra i contributi più recenti v. anche V. Casella, La trasmissibilità ereditaria della stipulatio, Milano, 2018, passim, ma in specie p. 18 e s., p. 136 ss.

[21] Come accennato la questione affrontata nella decisio viene prospettata come controversa presso l’antica giurisprudenza. In realtà, l’esistenza di un contrasto fra i giuristi non è documentata dalle fonti a nostra disposizione, da cui emergono al più solo alcuni indizi (peraltro non univoci) che possono indurre a ritenere che venisse esclusa la trasmissibilità ereditaria delle stipulationes in faciendo (salvo, a quanto parrebbe, la possibilità di ricorrere alla mentio heredis nella conceptio verborum). La questione che poteva dunque rilevarsi nelle fonti antiche era piuttosto quella della diversa soluzione che si prospettava per le stipulazioni che avessero appunto per oggetto un obbligo di facere rispetto a quelle che avessero piuttosto per oggetto un dare, per le quali, nonostante la frequente aggiunta della mentio heredis nella prassi, la trasmissibilità sembrerebbe essere stata considerata automatica. Sul punto, per la trasmissibilità delle stipulationes in dando (sia sotto il profilo attivo che sotto quello passivo), già certamente ammessa dalla giurisprudenza dell’epoca del Principato e per un’ampia discussione delle fonti che si occupano dell’argomento (con riferimento alle stipulationes in dando, in faciendo e in non faciendo) v. ora Casella, La trasmissibilità ereditaria della stipulatio, cit., p. 15 ss., cui rinvio anche per l’indicazione della precedente letteratura in argomento. Specificamente alle stipulationes che avessero per oggetto un dare si riferisce del resto anche Gai. 3, 100 che, con riguardo alle clausole ammesse ed escluse, le riteneva, come è noto, valide qualora fosse apposta la clausola cum moriar o cum morieris: in tale modo la promessa si sarebbe riferita all’ultimo momento di vita del promittente e si sarebbe quindi impedito che l’obbligo sorgesse soltanto in capo alla persona dell'erede, circostanza che sarebbe entrata in conflitto con il principio ab heredis persona obligatio incipere non potest, cfr. a questo proposito anche Gai. 3, 158. Sarà poi C. 4, 11, 1, una costituzione del 18 ottobre del 531 da ritenersi a sua volta una delle constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes, a dichiarare l’intenzione di eliminare anche quest’ultimo principio in materia di stipulazioni e di legati (e anzi proprio nella precedente trattazione di questi ultimi nei libri ad Sabinum i compilatori trovarono probabilmente uno spunto per richiedere l’intervento della cancelleria): per un’analisi del testo v., nella letteratura recente, Finkenauer, Vererblichkeit und Drittwirkungen der Stipulation im klassischen römischen Recht, cit., p. 317 ss., nonché Casella, op. cit., p. 135 e s. ed ivi, nt. 375, ulteriori indicazioni bibliografiche.

[22] Inspiegabilmente Finkenauer, Vererblichkeit und Drittwirkungen der Stipulation im klassischen römischen Recht, cit., p. 44, nt. 57, afferma che l’edizione Krüger daterebbe la costituzione al 531. Tale affermazione deriva evidentemente da una svista, essendo la data di C. 8, 37 (38), 15 non dubbia (v. supra, nt. 3).

[23] Sul punto v. Finkenauer, Vererblichkeit und Drittwirkungen der Stipulation im klassischen römischen Recht, cit., p. 44, che, nella traduzione del testo della costituzione, riferisce la stipulatio all’obbligo a costruire una Miethaus (e cioè una casa da dare in locazione). Peraltro il termine insula non indica solo la destinazione economica dell’edificio, ma anche un’abitazione a più piani distinta dalla domus per caratteristiche strutturali e architettoniche. Sul punto, sia pure con riferimento alla tarda epoca repubblicana e all’inizio del Principato, v. da ultimo F. Procchi, Profili giuridici delle insulae a Roma antica, I, Contesto urbano, esigenze abitative ed investimenti immobiliari tra tarda repubblica e alto principato, Torino, 2020, in specie p. 40 ss., con ampia descrizione della caratteristiche abitative delle insulae e degli aspetti imprenditoriali connessi alla loro edificazione. Quanto al motivo che era addotto da chi escludeva la trasmissibilità passiva delle stipulationes in faciendo si ritiene comunemente che esso fosse dovuto in via generale all’intuitus personae che caratterizzava la prestazione consistente in un facere, sul punto v. recentemente Casella, La trasmissibilità ereditaria della stipulatio, cit., p. 18 ed ivi nt. 13, ulteriori indicazioni sulla letteratura precedente. In questo senso depone fra l’altro quanto affermato in C. 8, 37 (38), 13, 1 ove si enuncia, rifiutandolo, il principio secondo cui non est possibile factum ab alio compleri, quod alii impositum est, che, a stare alla testimonianza della cancelleria, avrebbe costituito per gli antichi la giustificazione teorica dell’intrasmissibilità.

[24] È appena il caso di ricordare che, con specifico riferimento alla stipulatio in dando, con C.I. 8, 37 (38), 11 (che è una costituzione dell’11 dicembre del 528) si erano dichiarate efficaci oltre che la stipulatio cum morietur, sia la stipulatio post mortem, che la promessa pridie quam morietur, cfr. C. 8, 37 (38), 11: Imp. Iustinianus A. Menae pp. Scrupulosam inquisitionem, utrum post mortem an cum morietur vel pridie quam morietur stipulatus sit aliquis vel in testamento legati vel fideicommissi nomine aliquid dereliquerit, penitus amputantes omnia, quae vel in quocumque contractu stipulati vel pacti sunt contrahentes, vel testator in suo testamento disposuit, etiamsi post mortem vel pridie quam morietur scripta esse noscuntur, nihilo minus pro tenore contractus vel testamenti valere praecipimus. D. III id. Dec. Constantinopoli dn. Iustiniano pp. A. II cons. La costituzione aveva il suo evidentissimo referente nel già citato testo di Gai. 3, 100: Denique inutilis est talis stipulatio, si quis ita dari stipuletur post mortem meam dari spondes; vel ita cum morieris dari spondes? id est ut in novissimum vitae tempus stipulatoris aut promissoris obligatio conferatur. Nam inelegans esse visum est ab heredis persona incipere obligationem. Rursum ita stipulari non possumus pridie quam moriar, aut pridie quam morieris dari spondes? quia non potest aliter intellegi ‘pridie quam aliquis morietur’, quam si mors secuta sit; rursus morte secuta in praeteritum reducitur stipulatio et quodammodo talis est heredi meo, dari spondes? quae sane inutilis est. Alla costituzione del 528 si collega strettamente quella successiva – qui già citata – del 531 (C. 4, 11, 1): quest’ultima avrebbe però riguardato direttamente la regola generale ab heredis persona obligatio incipere non potest, cui la prima non faceva riferimento, rendendo dunque ammissibili anche formulazioni diverse da quelle esplicitamente ammesse nel 528. Sul rapporto fra le due costituzioni, rapporto su cui esiste un ampio dibattito in letteratura, v. da ultima Casella, La trasmissibilità ereditaria della stipulatio, cit., p. 135 e s., nt. 375. 

[25] Si riprendeva in questi termini un argomento già presente in C. 8, 37 (38), 13, 1 in cui si era prevista la trasmissibilità dell’obbligazione agli eredi sive specialis heredum fiat mentio sive non. In entrambi i casi lo scrupolo della cancelleria è dunque quello di precisare che per la trasmissibilità agli eredi non era necessario che se ne fosse fatta specifica menzione come invece, a stare a quanto sembra potersi ricavare dalle fonti giustinianee, sembrerebbe essere stato richiesto dal diritto antico per aggirare il principio secondo cui non est possibile factum ab alio compleri, quod alii impositum est (v. supra, nt. 23). È dunque probabile che la mentio heredis, benché ampiamente utilizzata anche nelle stipulationes in dando, costituisse l’espediente utilizzato, soprattutto nel caso delle stipulationes in faciendo, per superare la principale criticità opposta alla loro trasmissibilità ereditaria.

[26] Che la stipulatio avente per oggetto la costruzione di un opus si configurasse come stipulatio in faciendo e che quindi il procedere della cancelleria sia perfettamente coerente e privo di salti logici è attestato esplicitamente in D. 45, 1, 75, 7 (Ulp. 22 ad ed.) con riferimento all’edificazione di una domus: Qui id, quod in faciendo aut non faciendo consistit, stipulatur, incertum stipulari videtur: in faciendo, veluti ‘fossam fodiri’ ‘domum aedificari’ ‘vacuam possessionem tradi’: in non faciendo, veluti ‘per te non fieri, quo minus mihi per fundum tuum ire agere liceat’ ‘per te non fieri, quo minus mihi hominem Erotem habere liceat’

[27] Quest’ultima parte del testo si ricollega a quanto già stabilito da C. 8, 37 (38), 11 ove, come abbiamo visto, si ammettevano, anche con riferimento alle disposizioni mortis causa (e sia per i legati che per i fedecommessi), le clausole post mortem e pridie quam morietur. La questione, ancora una volta affrontata congiuntamente per le stipulationes e appunto per le disposizioni mortis causa, riguardava ora la clausola cum moriebatur che la cancelleria ammetteva espressamente per i legati (del resto ugualmente ai soli legati si era riferito espressamente anche quanto previsto in C. 4, 11, 1, v. supra, nt. 21), circostanza che trova giustificazione nel fatto che nel frattempo (e più esattamente a partire dal 529) aveva avuto progressivamente luogo, ad opera del legislatore, l’equiparazione di legati e fedecommessi, cfr. a questo proposito le due costituzioni contenute in C. 6, 43, 1 e in C. 6, 42, 2 (nonché i riferimenti alla riforma presenti nel testo istituzionale, v. I. 2, 20, 2-3), di cui la seconda, con la quale venne realizzata la piena exaequatio con l’integrazione dei rispettivi regimi sulla base del trattamento più favorevole, venne emanata il 20 febbraio 531 ed è a sua volta una delle constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes: cfr. sul punto Longo, Contributo alla storia della formazione delle Pandette, cit., p. 157 e s.

[28] Sul punto v. Finkenauer, Vererblichkeit und Drittwirkungen der Stipulation im klassischen römischen Recht, cit., p. 320 e s.e, sulla sua scia, Casella, La trasmissibilità ereditaria della stipulatio, cit., p. 24, nt. 32, che appunto ipotizzano che C. 8, 37 (38), 13 non fosse riuscita a fugare tutti i dubbi relativi alla trasmissibilità delle obbligazioni derivanti dalle stipulationes in questione qualora avessero per oggetto un facere. Peraltro, considerato che C. 8, 37 (38), 11 aveva espressamente stabilito l’efficacia oltre che della stipulatio cum morietur, anche della stipulatio post mortem e di quella pridie quam morietur, ma non di quella cum moriebatur di cui non si faceva parola neppure nella disposizione generale di C. 8, 37 (38), 13, può essere che la questione versasse proprio sull’efficacia di tale conceptio verborum (v. supra, nt. 19), diversa dalle clausole già espressamente ammesse. Con ciò non mi sembra di poter seguire Finkenauer, op. cit., in specie p. 44 ss., laddove ipotizza che la clausola considerata dalla costituzione del 532 si riferisse a una particolare stipulatio in faciendo che per essere formulata in punto di morte si riferiva a una prestazione impossibile, poiché l’obbligazione non sarebbe stata efficace neppure nei confronti della persona del promittente. In realtà a mio modo di vedere la clausola presa in considerazione da C. 8, 37 (38), 15 era semplicemente diversa da quelle che anche per quanto riguarda le stipulationes in faciendo dovevano ritenersi ammesse dal combinato disposto di C. 8, 37 (3), 11, che pure si riferiva alle sole stipulationes in dando, e di C. 8, 37 (38), 13, che riguardava in generale la trasmissibilità di tutte le stipulationes comprese appunto quelle in faciendo. Da qui l’opportunità di estendere, con una disposizione ad hoc, la regola generale, che ormai prescindeva dalla necessità della mentio heredis, anche a questo particolare caso di conceptio verborum

[29] Cfr. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., cc. 134-137, Pomp. 712-738 e cc. 1180-1196, Ulp. 2918-2982, nonché Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., cc. 1283-1286, Paul. 1836-1853. Sul punto v. anche Ad Sabinum librorum rubricarum index, in Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., c. 1258.

[30] Per la collocazione palingenetica del testo v. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., c. 1285, Paul. 1850. Gli altri sono due ampi frammenti paolini inseriti all’inizio del titolo e più precisamente in D. 45, 1, 2 e in D. 45, 1, 4, riuniti insieme da Lenel, op. cit., cc. 1283-1284, Paul. 1841. In particolare il primo, di cui rilevano per la nostra tematica soprattutto il principium e i parr. 1-2, si riferisce alla divisibilità passiva fra più coeredi delle stipulationes in dando senza peraltro porsi alcun problema relativo alla trasmissibilità che pure ne costituisce il presupposto.

[31] Che il tema fosse estremamente ‘vivo’ e ‘sentito’ all’epoca delle compilazioni e pertanto oggetto delle attenzioni della cancelleria per lo più in relazione a questioni riscontrate nelle opere dell’antica giurisprudenza è dimostrato, oltre che da C. 8, 37 (38), 11, che come sappiamo risale al dicembre del 528, in un momento in cui il progetto della compilazione era appena avviato (tra l’altro con riferimento al solo Codex) e che tuttavia già dimostra una forte sensibilità rispetto alle problematiche evidenziate dalle antiche fonti giurisprudenziali (si pensi al collegamento con Gai. 3, 100, v. supra, nt. 24), anche da C. 4, 11, 1, una costituzione che, come abbiamo visto (v. supra, nt. 21), rientrava a sua volta nel gruppo di quelle ad commodum propositi operis pertinentes emanate nel ‘grappolo’ che ha per data il 18 aprile 531.

[32] Peraltro la differenza fra ciò che per alium impleri possit e ciò che invece ab alio impleri non possit è efficacemente descritta da C. 6, 51, 1, 9b e c, anche con specifico riferimento alla costruzione di un’insula (che rientra appunto nella prima categoria) e a ciò che invece la natura facti impone sia compiuto dalla persona indicata (come nel caso dell’impegno o dell’ordine di recarsi in un determinato luogo): (Imp. Iustinianus A. senatui urbis Constantinopolitanae et urbis Romae) Sin autem in faciendo aliquid impositum est, si quidem hoc et per alium impleri possit, simili modo et a lucrante agnosci, puta si honorata persona iubeatur insulam vel monumentum vel aliud tale suis sumptibus facere vel heredi vel legatario vel alii forte, quem testator voluerit, vel rem ab herede testatoris emere vel locationem vel fideiussionem subire, et si quid huiusmodi facti simile sit: nihil etenim refert, sive per eum, de quo testator locutus est, sive per alium eiusdem lucri successorem adimpleatur. 9c.Sin vero talis est verborum conceptio et facti natura, ut quod relictum est ab alio adimpleri non possit, tunc, etsi lucrum ad aliquem pervenerit, non tamen et gravamen sequi, quia hoc neque ipsa natura concedit neque testator voluerit. quid enim, si iusserit eum in locum certum abire vel liberalibus studiis imbui vel domum suis manibus extruere vel pingere vel uxorem ducere? quae omnia testatoris voluntas in ipsius solius persona intellegitur conclusisse, cui et suam munificentiam relinquebat… D. k. Iun. Constantinopoli dn. Iustiniano pp. A. IIII et Paulino vc. conss. (1° giugno 534). Va comunque precisato che, nell’ambito del diritto giustinianeo, non contraddice il quadro così delineato il testo di D. 46, 3, 31 (Ulp. 7 disp.) in cui la costruzione di un’insula viene considerata obbligazione infungibile, ma nel solo caso in cui l’impegno sia stato assunto suis operis e non sia intervenuto il consenso del beneficiario a ricevere l’opera da altri: Inter artifices longa differentia est et ingenii et naturae et doctrinae et institutionis. ideo si navem a se fabricandam quis promiserit vel insulam aedificandam fossamve faciendam et hoc specialiter actum est, ut suis operis id perficiat, fideiussor ipse aedificans vel fossam fodiens non consentiente stipulatore non liberabit reum…

[33] La circostanza è dimostrata dal fatto che, se quanto qui prospettato si ritenesse vero, lo spoglio dei materiali sarebbe giunto, come abbiamo visto, fino all’ultimo libro del commentario ulpianeo (che appunto è il cinquantunesimo) e rispettivamente al tredicesimo su sedici libri del commentario di Paolo e al ventinovesimo su trentacinque o trentasei di quello di Pomponio. A ciò si aggiunga che quanto qui ipotizzato si salderebbe assai bene con la ricostruzione operata da Di Maria, La cancelleria imperiale e i giuristi classici: ‘reverentia antiquitatis’ e nuove prospettive nella legislazione giustinianea del Codice, cit., p. 162 ss. e p. 183, circa l’occasio legis di C. 3, 34, 14 e C. 7, 32, 12, due costituzioni di datazione incerta che l’autrice attribuisce entrambe alla stessa data del 18 ottobre del 532 (v. supra, ntt. 4 e 5) e che ricollega o al quindicesimo libro del commentario ad Sabinum di Paolo o al trentaduesimo e al trentatreesimo di quello di Pomponio.

[34] Per quanto riguarda C. 6, 50, 19, che troverebbe riscontro nel settantaseiesimo libro del commentario ulpianeo v. il mio Un altro esempio di capita geminata: D. 39, 5, 20, 1 (Marcell. 22 dig.) e D. 35, 2, 46 (Ulp. 76 ad ed.) e la compilazione del Digesto, cit., p. 1067 ss. Quanto a C. 8, 4, 11, che non è una delle constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes, ma che pure, nel dialogo fra organi forensi locali e cancelleria, sembra trovare il suo referente nel sessantanovesimo libro dello stesso commentario edittale ulpianeo, v. La legislazione giustinianea del 18 ottobre 532. I rapporti fra la cancelleria e il mondo della pratica: i quesiti delle advocationes e la compilazione del Digesto, cit., p. 23 ss., cui rinvio anche per la definizione dei rapporti fra C. 6, 38, 5 e lo spoglio della pars edictalis.

Mattioli Fabiana



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